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La letteratura sull’Olocausto e la realtà
Non è mai stata mia intenzione scrivere dei lager, in parte perché ho cercato con tutto me stesso di dimenticare; volevo vivere per il futuro e non definirmi come “un sopravvissuto ai campi”. Ho sempre teso a evitare la letteratura sull’Olocausto, trovando alcuni dei recenti resoconti romanzati spacciati per storie vere profondamente inquietanti. Quella di falsificare la storia per produrre un racconto più vendibile non è un’operazione nuova, naturalmente, e nella misura in cui il risultato è presentato come finzione non c’è problema; ma molto spesso non è così. Se fossi un discendente di Salieri, sarei senza dubbio infastidito dalla convinzione diffusa che il mio antenato avesse avvelenato Mozart. E per dirla tutta, sono seccato quanto ogni inglese purosangue dal fatto che un recente film abbia falsamente attribuito la cattura della cruciale macchina Enigma agli americani.
Niente di tutto ciò, però, si può paragonare alla ripugnanza che le storie inventate sull’Olocausto provocano in me e negli altri pochi sopravvissuti con i quali sono rimasto in contatto. Per noi la cosa equivale a profanare delle tombe di guerra. Poco meno di settanta relitti di navi e tutti gli aerei militari precipitati sott’acqua sono custodi come monumenti funebri di guerra dal Protection of Military Remains Act del 1986; saccheggiarli è un reato. Quel documento è l’espressione del rispetto della nazione per alcune migliaia di individui coraggiosi che hanno dato la loro vita per una causa per cui valeva la pena morire. Nel nostro caso stiamo parlando di molti milioni di persone, per lo più bambini, donne e uomini troppo vecchi o malati per lavorare, morti per il capriccio di una mente squilibrata. Dovremmo almeno mostrare loro abbastanza rispetto da astenerci dall’inventare false vicende sul modo in cui le loro esistenze si sono spente.
La storia è per necessità scritta dai superstiti, ma fondamentalmente si tratta della storia delle vittime. È sempre passibile di distorsione, perché la storia che hanno da raccontare coloro che sono sopravvissuti ai campi di sterminio è per forza anomala. La normale storia dei milioni di persone rinchiuse nei campi di concentramento è terminata con la loro morte e di conseguenza non è mai stata raccontata in prima persona.
Nel mio caso, è stata solo una improbabilissima successione di molti eccezionali, quasi miracolosi, colpi di fortuna a permettere alla mia vicenda di vedere la luce, ma il minimo che posso fare è di prendere la parola con sincerità per quelli che non ce l’hanno fatta.
C’è un’altra ragione per cui il mio racconto non può essere un diario dettagliato e cronologicamente coerente.
Nei campi cercai di acquisire la capacità di guardare senza vedere, ascoltare senza sentire e odorare senza assimilare ciò che mi circondava. Coltivai una sorta di amnesia autoindotta. Temevo che essere costretto a guardare le impiccagioni, vedere quotidianamente pile di cadaveri, avrebbe in qualche modo contaminato la mia mente in modo permanente. Per citare George Bernard Shaw (da Uomo e superuomo… Non che allora l’avessi letto): «È meglio se ti mantieni lucido e trasparente, perché sei la finestra attraverso la quale devi vedere il mondo». Abbiamo tutti, probabilmente, la capacità latente di evitare che i ricordi più orribili ci si fissino nel cervello. Dopotutto, mettiamo in atto lo stesso trucco ogni mattina, quando dimentichiamo ciò che abbiamo sognato.
Il lato negativo è che la consuetudine di dimenticare da intenzionale può diventare involontaria.
La storia ufficiale dei campi di concentramento è ben documentata: oggi è possibile cercare su Google la maggior parte dei fatti (anche se non tutti i risultati sono ugualmente affidabili). Ciò che solo un sopravvissuto ai lager può trasmettere è come ci si sentisse. Per esempio, la maggior parte della gente sa cosa significhi avere un orribile incubo e conosce il sollievo di svegliarsi tornando alla realtà. Pochi, credo, riescono a immaginare il contrario: svegliarsi da meravigliosi sogni di un’infanzia felice per ritrovarsi in una realtà da incubo, con il puzzo dei corpi ammassati a destra e a sinistra – rendendosi conto di dove ci si trova – notte dopo notte, settimana dopo settimana, mese dopo mese.
Stranamente, un pensiero consolante era che, anche se morivi con il volto schiacciato nel fango da uno stivale militare, nella morte la tua sorte sarebbe stata uguale a quella di tutti i milioni di persone decedute in tempo di pace, al calduccio nel loro letto di piume. Chi avrebbe mai pensato che cadere nel fango ed esserne ricoperto potesse scoraggiare qualcuno al punto da distruggerne la voglia di vivere, mentre un doloroso colpo con il calcio del fucile potesse fare infuriare fino a ottenere l’effetto opposto?
Uno degli effetti collaterali dell’amnesia intermittente autoindotta è che tende a scombussolare e distorcere il flusso temporale. Alcuni episodi sembravano durare un’eternità, mentre altri si svolgevano in un lampo. La cronologia dei miei maggiori spostamenti è tracciata in appendice (con qualche incertezza relativamente ad alcune date, ma solo nella misura di un giorno o due di anticipo o di posticipazione).