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Mio padre


Windermere rientrava senza dubbio più nella categoria dei campi vacanze che di quelli di concentramento. Credo che fosse stato costruito durante la guerra per ospitare gli operai che lavoravano nelle fabbriche dedite alla costruzione di aviomezzi. Nei giorni di vacanza per la vittoria contro il Giappone, prima che i nostri padri venissero a prenderci, ce la spassammo. Probabilmente ci diedero un po’ di soldi, perché i miei amici e io potemmo noleggiare delle barche a remi per andare sul lago Windermere, e fu un vero divertimento, nonostante la pioggerellina ricorrente.

Mio padre, che a quel tempo lavorava come chimico alla Manchester Oil Refinery e risiedeva come “ospite pagante” a Worseley, un sobborgo della città, arrivò su una Bentley. Purtroppo, non era sua. Il magnifico veicolo apparteneva ed era guidato da una signora di mezza età dall’aria quanto mai solenne, il cui status doveva essere pari alla sua apparenza: a parte la Bentley, evidentemente aveva benzina a sufficienza per fare il viaggio di andata e ritorno da Manchester a Windermere. Cosa che, a quel tempo, la diceva lunga sulla sua ricchezza e la sua importanza. Era amica del padre di un altro ragazzo ceco, un dottore di Manchester, venuto anche lui a prendere suo figlio. Eravamo tre, noi ragazzi cechi con parenti nella zona di Manchester, e da allora siamo rimasti sempre buoni amici. Avevamo avuto tutti esperienze diverse, nei campi, ma prima di Windermere non ci conoscevamo 10* .

Mi riesce difficile descrivere la trepidazione e il subbuglio interiore che provavo, nell’attesa di rivedere mio padre. Ricordo che rimasi fortemente colpito dal suo aspetto. Mi sembrò un gufo, per via delle occhiaie. In qualche modo, mi sentivo molto vicino a lui: da qualche parte, dentro questo sconosciuto, c’era il babbo affettuoso della mia infanzia, il soldato ed eroe del quale ero stato così orgoglioso. Tuttavia, i quasi sette anni di separazione avevano scavato tra noi un solco più profondo di quanto potessimo razionalmente pensare. Guardandomi indietro, adesso, mi rendo conto che il grande cambiamento era avvenuto in me, non in lui. Dopotutto, aveva solo quarantasette anni, un’età in cui sette anni non ti fanno cambiare così tanto. Io, invece, non ero più un bambino, ed ero stato completamente trasformato da quegli anni perduti in mezzo alle tribolazioni, ben più numerose di quelle che la maggior parte delle persone attraversa nell’arco di un’intera vita.

C’è un pensiero che devo liquidare immediatamente.

Sospetto che alcuni membri della mia famiglia pensassero che mio padre non avrebbe dovuto “abbandonarci”, o che magari sarebbe dovuto giungere in nostro soccorso sul suo destriero bianco, quando ormai era chiaro che per noi non c’era via d’uscita. L’incapacità della generazione postbellica di comprendere la situazione di allora mi appare strana, ma non dovrebbe sorprendere più di tanto.

Può accadere che, se mille persone rimangono uccise in un eroico tentativo di salvataggio e quella che per puro caso sopravvive riferisce la sua esperienza, sarà proprio questa che verrà poi ricordata e finirà per alterare la storia. Può darsi che lo abbia fatto anch’io in queste pagine, nonostante abbia cercato di evitarlo. Non mi è mai passato per la mente, né per quella di mio padre, che il suo viaggio in Inghilterra fosse null’altro che il primo passo necessario per cercare di farci uscire dalla Cecoslovacchia. Non poteva nemmeno entrare nelle forze alleate a causa dell’importanza, per il prosieguo della guerra, del suo lavoro di ricerca sulla solfonazione del petrolio presso la Manchester Oil Refinery.

Posso immaginare quanto soffrì, quando cominciarono a trapelare i primi resoconti sulle atrocità commesse dai nazisti. Mio padre non è mai stato bravo a esprimere le sue emozioni, ma non era neanche particolarmente bravo a reprimerle. Non l’avevo mai visto piangere, e pensavo che non ne fosse capace. L’unica cosa che mi abbia mai detto, da cui riuscii a intuire il suo tumulto interiore, fu che a volte si accorgeva della stranezza del suo atteggiamento dal modo in cui lo guardavano gli altri pendolari.

Il racconto delle mie esperienze emerse solo un po’ alla volta, nel corso degli anni successivi. Una delle prime cose che mio padre mi chiese fu: «Immagino che non ci sia nessuna possibilità…». E lasciò a metà la domanda sulla sopravvivenza di sua moglie, suo figlio, suo padre e sua sorella. Io, semplicemente, scossi la testa. Basandosi sulla mera improbabilità della cosa, sarebbe stato sbagliato incoraggiarlo a sperare. L’argomento non venne più ripreso, e questo creò un enorme tabù, un blocco dei ricordi attorno al quale ci muovevamo con circospezione.

Ma non ci voltammo più indietro.

Un altro argomento che non affrontammo mai, per quanto riesco a ricordare, fu un nostro eventuale ritorno in Cecoslovacchia. A ripensarci adesso, lo trovo sorprendente, perché ricordo che era una possibilità presa seriamente in considerazione da qualcun altro dei “ragazzi cechi”. Ma ora non avevamo niente e nessuno da cui tornare, solo ricordi dolorosi. E poi, mio padre era diventato un anglofilo. Una delle prime cose che mi disse fu: «Rimarrai colpito dall’educazione dell’uomo della strada». Ben presto capii. Per quanto tutti gli uomini nascano con pari diritti, è veramente lodevole il fatto che la democrazia sia raggiunta mediante un’evoluzione, piuttosto che una rivoluzione (e, comunque, fin dal 1642), come anche il fatto di non aver subìto invasioni fin dal 1066, di avere una famiglia reale dai ricchi cerimoniali e di non avere una polizia segreta. Tutto questo sembrava aver conferito agli inglesi una salda generosità di spirito e una disinvolta fiducia in se stessi.

La prima preoccupazione di mio padre fu riempirmi di cibo nutriente. Poiché nell’immediato dopoguerra le scorte erano razionate, decise che dovevamo andare a stare in una fattoria. Mentre stavamo organizzando il trasferimento, io rimasi con lui nel suo appartamento a Worseley, ma ben presto traslocammo in un’antica casa colonica in una località sperduta, in cui si allevavano tacchini in modo intensivo. Ci si arrivava dalla strada principale percorrendo un viottolo di poco più di mezzo chilometro, fiancheggiato da siepi, in mezzo a una vasta area di terreni a pascolo che offrivano nutrimento ad alcuni cavalli e a una grande mandria di mucche. Era evidente che qui non sarebbero mai mancati latte, uova e carne.

La casa, però, fu un piccolo shock culturale. La mia camera da letto, nell’angolo più freddo dell’edificio, aveva delle caratteristiche del tutto nuove per me, come un piccolo caminetto, uno scaldino di ottone per il letto, una borsa dell’acqua calda in terraglia, una credenza con una bacinella di porcellana e una brocca d’acqua che, durante il successivo freddo invernale, si congelò completamente. Quanto al caminetto, era così chiaro che non funzionava che non avrebbe avuto senso accendere un fuoco.

Anche chi viveva nella fattoria aveva qualcosa di inquietante. Il patriarca sembrava troppo vecchio e artritico per qualunque lavoro richiedesse uno sforzo fisico. Suo figlio, che doveva avere tra i venti e i trent’anni, in passato aveva avuto un incidente con un forcone, che l’aveva lasciato con il cranio deformato.

Mentre abitavamo là, sparò a un ratto sul letto matrimoniale dei suoi genitori. Anche se lo fece solo con un fucile ad aria compressa, restammo talmente allarmati nel vedere delle lenzuola impregnate di sangue mentre venivano portate fuori, che ci domandammo se fosse stato ucciso qualcuno. Infine, la sorella: qualunque problema avesse, sembrava richiedere quantità industriali di disinfettante, a giudicare dall’odore che si lasciava dietro dopo aver usato il bagno, che condividevamo con tutta la famiglia.

Il lungo viottolo che portava alla fattoria non era illuminato, e di notte era immerso nell’oscurità più completa. Quando tornavo dopo il tramonto, dovevo portarmi una piccola torcia per evitare di calpestare gli escrementi di vacca. I cavalli nel campo adiacente avevano un senso dell’umorismo perverso, combinato con la capacità di muoversi nel silenzio più assoluto. Quando mi sentivano arrivare, allungavano invisibilmente il muso oltre la siepe e mi sbuffavano rumorosamente appena sopra la testa, facendomi saltare dalla paura. Forse li divertiva vedere gente coi capelli ritti.

La fattoria, comunque, adempì alla perfezione al suo scopo principale. Tutti i giorni, a colazione, avevo uova al bacon o prosciutto affumicato e mousse di mela (non mi sono mai abituato a mangiare il prosciutto affumicato con la mousse di mela, e per separarli per ricavarne una seconda portata tendevo a far tardi, la mattina; ma in fondo questo era un problema minimo).

Nei fine settimana, io e mio padre facevamo delle lunghe passeggiate, esplorando la bellissima zona del Peak District. Da questo punto di vista, tornammo alle abitudini della mia infanzia, nei periodi di vacanza, a parte il fatto che ora non ero più il bambino stanco che non riusciva a tenere il passo. Condividevamo l’amore per la natura, che lui mi aveva trasmesso fin da piccolo.

Invecchiando, si appassionò sempre più ai grandi alberi, che considerava monumenti viventi del passato. Non che fosse uno di quelli che amano andare in giro ad abbracciare gli alberi, perché quelli abbastanza piccoli da poter essere abbracciati non lo interessavano tanto quanto certe vecchie querce giganti, di cui diceva: «Guarda, è qui da prima della scoperta dell’America». Parlavamo tutto il giorno di qualunque argomento, tranne che del passato.

Era un rapporto nuovo. Eravamo diventati amici. Dei buoni amici intimi.