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La fine della speranza


Mio padre si recò in Inghilterra passando per l’Olanda, per organizzarci una nuova vita laggiù. Doveva essere partito di notte per non turbare noi bambini, ma, dato che viaggiava di frequente, la sua assenza non ci sembrò insolita. Ancora oggi non so in quale giorno se ne sia andato di casa. Trovato lavoro in Gran Bretagna, cercò di ottenere i documenti che ci avrebbero permesso di emigrare. Nel frattempo, divenne chiaro che Hitler intendeva attaccare la Cecoslovacchia; ma noi avremmo combattuto! Il mio fervore patriottico raggiunse il culmine durante un giorno di festa nazionale (probabilmente il ventesimo anniversario della fondazione della Repubblica), quando la nostra scuola si riunì, insieme a molte altre e a parecchi adulti, in un enorme stadio a Petřín – davanti a dove abitavamo noi a Smíchov.

Centinaia di bambini formarono la sagoma della nazione e rappresentarono alcuni eventi significativi nell’evoluzione della Repubblica cecoslovacca, incluso un lontano attacco da parte degli ungheresi, accompagnato da molti spari e musica trascinante. Lo spirito della folla mi travolse. Un tale entusiasmo nazionalista era la prova che avremmo di certo combattuto i tedeschi (con me stesso in prima linea, all’età di undici anni). Non ci aspettavamo, credo, di avere qualche possibilità di sconfiggere la massiccia macchina militare tedesca da soli, ma in quei giorni inebrianti pensavamo che il mondo civilizzato sarebbe corso in nostro aiuto, perché non poteva permettersi di lasciare che il più bell’astro della costellazione democratica venisse estinto senza che questo implicasse un pericolo mortale per lui stesso.

Il tradimento di Monaco fu quindi un’incredibile delusione. Ricordo che Hitler convocò il presidente Hácha a Berlino (Beneš era fuggito a Londra) e non gli permise di andarsene fino a quando non acconsentì a che Boemia e Moravia diventassero un protettorato tedesco.

La Germania invase la Cecoslovacchia nel marzo 1939.

Noi non andammo in centro a Praga a vedere le truppe che entravano marciando in città, ma non era possibile ignorare le enormi formazioni di bombardieri tedeschi che ronzavano sopra le nostre teste, disponendosi a disegnare nel cielo delle svastiche.

Poi venne il periodo più difficile per mia madre. Non so se papà avesse tenuto conto della sua inesperienza nell’affrontare i problemi burocratici, e non voglio neppure fare speculazioni a riguardo, ma ho le lettere che lei gli scrisse, quasi ogni giorno e con sempre crescente disperazione. Lui aveva organizzato per noi tre un passaggio in Inghilterra tramite la Croce rossa, ma attorno ai documenti di viaggio necessari c’è un mistero che non sono riuscito a capire. Mia madre scoprì che le mancavano alcune carte, come i certificati di nascita, che forse erano andate smarrite. Le sue lettere del periodo da marzo ad agosto parlano di documenti mancanti, di centinaia di persone in coda, del fatto che le cose «non sono semplici come lui immagina», della sua incapacità di dormire senza medicine e, in ultima istanza, della sua paura che la famiglia non sarebbe più tornata insieme.

Quando alla fine ci presentammo al quartier generale della Gestapo a Praga con le nostre valigie fatte, pronti per partire per l’Inghilterra, fummo rimandati indietro.

Credo che il nostro sia stato il primo gruppo a cui fu rifiutato il permesso di mettersi in viaggio. Il 3 settembre ormai la guerra era scoppiata. Mi sembra di cogliere una nota di sollievo, insieme alla disperazione e al senso di colpa, nelle ultime lettere di mia madre, scritte quando le cose non dipendevano più da lei. Mandò a mio padre degli scatti miei e di mio fratello fatti da un fotografo [ vedi fig. 7], per mostrargli quanto fossimo cresciuti durante la sua assenza.

Mio padre era indubbiamente bravo a organizzare le cose. Per tutta la sua vita aveva protetto mia madre dal dover agire in prima persona. Spesso la scoperta di una capacità emerge solo quando una persona è sbigottita e irritata dall’inadeguatezza di qualcun altro in quel campo.

Immagino che i matrimoni e le relazioni soffrano, quando le persone cercano di cambiarsi a vicenda, e la cosa è particolarmente triste se un tempo le differenze sembravano così accattivanti. Mio padre può aver trattato mia madre come una piccola e deliziosa scervellata, ma quell’atteggiamento era un segno del suo affetto e derivava principalmente dalla sua tendenza maschile ad assumere il controllo. Non avrebbe dovuto essere una gran sorpresa che lei trovasse difficile districarsi, quando le circostanze avanzarono pretese enormi e insolite. La terribile punizione che la nostra famiglia pagò per le sue debolezze sembra eccessiva e ingiusta.

Mentre questi tragici eventi facevano sì che noi restassimo bloccati in quello che diventò il Protettorato di Boemia e Moravia, con mio padre dall’altra parte della Manica, in Inghilterra, io andavo a scuola, superavo tutti gli esami per accedere all’istruzione secondaria, mi esercitavo con il violoncello e mi innamoravo perdutamente per la prima volta. Hanka Kleinová aveva lunghi capelli scuri, l’incarnato perfetto ed era nell’insieme l’essere più incantevole che Dio avesse mandato sulla Terra. Una volta credetti di averle visto sul volto una piccola imperfezione e pregai di essermi sbagliato. Il sesso non aveva nulla a che fare con quel sentimento: se si fosse offerta di baciarmi, credo che sarei fuggito lontano un chilometro. Forse sono stato un trovatore, in una vita precedente.

Alla fine mia madre terminò i soldi e non potemmo più continuare a rimanere nell’appartamento di Praga. Ci separammo dalla zia e dal nonno. Incontrai di nuovo zia Else a Terezín, ma il nonno all’epoca era già morto. Nel frattempo, fummo ospitati dalla famiglia di Rudolf Pick, a Ústí nad Orlicí (Wildenschwert; per spiegare la proliferazione di Ústí nei toponimi, va detto che il termine in ceco designa la foce di un fiume o una confluenza). Fu quindi il quinto trasloco della mia breve esistenza, ma anche un ulteriore contributo alla mia sopravvivenza, dato che le deportazioni dalle piccole cittadine avvennero sostanzialmente più tardi che da Praga.

Rudolf Pick non era davvero mio zio: mia madre era imparentata alla lontana con sua moglie, “zia” Fanny (nata Fantl). Avevo conosciuto la famiglia Pick alcuni anni prima. Avevano due figli: Alice, che morì prima della guerra, all’età di circa vent’anni, per un’infezione tubercolotica che le colpì un occhio, e il fratello Fredy, di qualche anno più giovane. Ai miei occhi di bambino sembravano tutti grassissimi ed erano evidentemente molto ricchi [ vedi fig. 8].

Lo zio Pick possedeva una fabbrica di guanti alla periferia della cittadina, vicino al fiumiciattolo, e doveva essere un datore di lavoro molto importante per la gente del posto. C’è ancora una strada che porta il nome di suo padre, Julius. La famiglia viaggiava su un’enorme Tatra con autista. Non credo che qualcuno di loro sapesse guidare. La casa di mio zio, al 123 di Rašínova, mi sembrava un castello. Dopotutto aveva una sorta di torretta e pesanti cancelli in ferro battuto, oltre a un’ampia veranda sul retro e un grande giardino con quattro imponenti pini al centro.

Le eleganti stanze al pianterreno erano riscaldate da enormi stufe olandesi in metallo argentato e lucido, con delle finestrelle in mica attraverso le quali si vedeva il fuoco. Per inciso, fu attraverso di esse che scoprii l’esistenza dei denti finti. Mio zio aveva una passione per i toffee. Avendone addentato uno, questo si era evidentemente appiccicato alle due protesi, superiore e inferiore, incollandole, al che lo zio aveva deciso di sbarazzarsi dell’oltraggioso dolcetto aprendo furtivamente lo sportellino della stufa e sputandocelo dentro, espellendo così senza volere anche le dentiere. A fissare quell’episodio nella mia memoria dev’essere stata la spettacolare deflagrazione che ne seguì, illuminando in pieno lo zio imbarazzato e senza denti. Credo che all’epoca i denti finti, così come gli spazzolini, fossero fatti di celluloide, un materiale altamente infiammabile.

La vasca da bagno era una piscina in miniatura, con tre gradini per entrarvi. Il consumo di carburante del boiler che scaldava l’acqua per il bagno era tale che, quando iniziò a scarseggiare, facevamo il bagno tutti quanti insieme solo una sera a settimana, e noi tre Weinberg dividevamo la stessa acqua. Non credo che accorgimenti del genere fossero necessari, prima della guerra.

Tanto per iniziare, prima che i tedeschi dessero il via alle loro leggi antisemite, la vita nella grande casa scorreva in modo piuttosto normale. Sebbene avessi passato tutti gli esami d’ammissione al Gymnasium (l’equivalente di un liceo) a Praga, in zona non c’erano simili scuole, così andavo all’istituto superiore al di là della strada, un luogo profondamente sgradevole dove, di nuovo, gli studenti venivano picchiati (me incluso, questa volta). C’era un vecchio insegnante di lettere, le cui lezioni iniziavano sempre allo stesso modo: i ragazzi che non avevano fatto i compiti si mettevano cerimoniosamente in fila per venire colpiti all’interno di un piccolo cubicolo. Io arrivai in quella scuola a trimestre già iniziato, non avevo avuto l’opportunità, quindi, di fare i compiti e non sapevo cosa ci si aspettasse da me.

Quando fu il mio turno, mi venne puntualmente ordinato di piegarmi su un banco e l’insegnante mi picchiò con una cinghia. Pensai che la cosa più giusta da fare, tornando in aula, fosse sfoggiare un’aria indifferente, piuttosto che mostrare sofferenza o – il cielo me ne scampi – lacrime.

Questo metodo non rispecchia la mia idea di educazione, ma nondimeno forma il carattere, nel senso che insegna a non mostrare i propri sentimenti. Picchiare gli studenti era l’unico elemento di distinzione che l’istituto condivideva con le scuole private inglesi.

Nel protettorato ceco venivano introdotte sempre più leggi antisemite, e alla fine dell’anno accademico fui buttato fuori da scuola, l’unica buona idea che i nazisti abbiano mai avuto. E così ebbe termine la sola istruzione scolastica convenzionale che io abbia mai avuto.

Uno o due membri della comunità ebraica fecero uno sforzo per insegnarmi tutto ciò che ricordavano dai giorni in cui erano loro ad andare a scuola. Il mio preferito era il signor Kauder: era scapolo e viveva con la vecchia madre e una colomba che trascorreva la sua esistenza in una gabbia e, ogni tanto, deponeva un minuscolo uovo. L’uovo veniva quindi bollito dalla vecchia signora Kauder, cerimoniosamente tagliato in due e diviso fra lei e il figlio. Lui mi dava lezioni in una strana accozzaglia di materie. Presi immediatamente in simpatia i logaritmi, inclusi l’uso di un regolo calcolatore (che mi fece realizzare come le moltiplicazioni e le divisioni lunghe siano per i babbei) e la geometria analitica. Cercò anche di insegnarmi a disegnare, anche se io ero poco portato e riuscii solo a imparare qualche trucchetto da pittore. In quel periodo iniziai a suonare il violino, ma non mi applicai mai abbastanza a lungo su uno strumento (con l’eccezione dell’armonica) al punto di diventare veramente bravo.

Trovavo la mia scarsa bravura frustrante, perché i Pick erano tutti molto dotati musicalmente. Prima della guerra, in sala da pranzo si tenevano regolari esibizioni. Sia mia zia che mia madre erano pianiste provette, e mio zio suonava il violino così bene che alcuni violinisti cechi, famosi a livello internazionale, di tanto in tanto venivano a fargli visita e partecipavano ai loro concerti di musica da camera. Lo zio Pick e mia madre erano anche grafici di talento e curavano il giornale della nostra piccola comunità. Penso che si piacessero molto, al punto da rendere gelosa zia Fanny. Lei era un’anima infelice. Non si riprese mai dalla prima tragedia della morte della figlia Alice e faceva pellegrinaggi quotidiani al cimitero, accompagnata dai suoi due bassotti, che rispondevano entrambi al nome di Waldi. A fine pasto, ai Waldi venivano dati i nostri piatti da leccare. Waldi senior aveva delle infezioni agli occhi e alle orecchie e puzzava da morire. Pensando all’ambiente quasi sterile in cui eravamo cresciuti, si può ben immaginare la nostra reazione a quella mancanza di igiene. Ma non dicemmo mai niente, naturalmente, dato che eravamo ospiti.

Zia Fanny era piuttosto massiccia, con l’agilità di un ippopotamo. Quando entrava in piscina, i ragazzacci gridavano: «Acqua alta… Tutti fuori!». Aveva una certa fama come cuoca, basata sulla sua inventiva nell’usare prodotti poco invitanti. Non ricordo se temessimo più la sua zuppa di pane o quella al latte. Faceva il formaggio in casa, lasciando riposare la cagliata di latte filtrata in zuppiere che distribuiva in cima a tutti i guardaroba e che portava in tavola in ordine di produzione. Una variazione sul tema comportava la bollitura del composto pastoso, che dava un prodotto dall’aspetto e dal sapore di colla mista ad aceto. Tutta quella fragranza rendeva indimenticabile l’ambiente. Io, mia madre e mio fratello dividevamo un letto matrimoniale in una piccola stanza (con inclusi un catino e una brocca in porcellana d’acqua fredda). La nostra vecchia vita ci mancava così tanto che spesso piangevamo fino ad addormentarci.

Quando i tedeschi resero esecutive le nuove disposizioni antisemite, per noi la qualità della vita peggiorò molto rapidamente. Tutto il personale domestico dovette andarsene: qualcuno fu molto riluttante e in seguito tornava a farci visita di sera. Fuori dal municipio venivano regolarmente affisse lunghe liste di concittadini giustiziati (molti perché ascoltavano la BBC). Nel giro di poco fummo costretti a cucirci la Judenstern – la stella di David gialla – su giacche e cappotti. Poi ci confiscarono la mia amata bicicletta e i nostri sci. Le autorità non pensarono di toglierci i pattini, però, e, dato che quell’anno l’inverno fu eccezionalmente freddo, la neve gelò al punto che potevamo pattinare sulle strade. O almeno noi bambini: il minore rapporto potenza-peso degli adulti rendeva la cosa impossibile per le loro caviglie.

Nell’aprile del 1941 ci fu il mio Bar Mitzvah, e i preparativi richiedevano che prendessi lezioni da un rabbino in una città vicina. La proibizione, per gli ebrei, di viaggiare entrò in vigore poco dopo il mio tredicesimo compleanno.

Una delle conseguenze del divieto di andare a scuola e delle molte altre restrizioni che seguirono fu che avevamo tantissimo tempo libero. Finii per conoscere ogni sentiero delle belle foreste sulle colline circostanti. A volte facevamo escursioni tutti insieme per raccogliere funghi, e io diventai un esperto nel trovare e riconoscere quelli commestibili. Durante queste uscite, se avevamo tempo e forze a sufficienza, potevamo salire sulla sommità dell’altura, dove c’era (e ancora c’è) uno chalet che vendeva pane con un ricco strato di autentico burro a pochi selezionati clienti, quand’esso in città era ormai da tempo solo un ricordo. Più spesso io e mio fratello uscivamo per boschi e prati a guardare dall’alto i tetti della piccola cittadina. Trascorrevamo giornate intere senza fare altro che camminare, mentre io gli raccontavo storie infinite che mi inventavo via via. Per quanto posso ricordare, queste ci proiettavano nei panni di famosi atleti, musicisti, piloti da corsa (nei panni di chiunque, purché fossimo famosi) che, girando il mondo, incappavano in mille avventure. Nessuno mai ci rivolgeva la parola, forse perché la gente aveva paura di farsi vedere nelle vicinanze delle nostre stelle gialle. Quale che fosse la spiegazione, nessuno degli abitanti cechi del luogo, però, fu mai scortese con noi. Il cibo era sempre più scarso, immagino a causa delle confische per l’esercito tedesco. In passato, quando non c’era niente di più interessante da mangiare, ero solito lamentarmi: «Solo pane secco con il burro?»; e ora non c’era pane a sufficienza, mentre il burro era diventato una prelibatezza rara. Così a qualcuno venne la brillante idea di mandarmi a lavorare in una fattoria. Mio zio conosceva un contadino che credo rifornisse la famiglia di uova fresche, burro e pollame, in tempi più felici. A casa avrebbero avuto una bocca in meno da sfamare, e io avrei beneficiato di cibo in abbondanza alla fattoria. Il contadino, da parte sua, vide l’opportunità di acquisire manodopera gratuita; c’erano chiaramente i presupposti perché rimanessimo tutti più che delusi.

Così fui mandato alla fattoria, che si trovava in un paesino vicino, Sloupnice. Il problema principale era che io non avevo mai fatto una giornata di duro lavoro fisico in tutta la mia esistenza, al contrario dei ragazzi di campagna della mia età. Ero anche totalmente impreparato per la vita oltremodo semplice che i contadini cechi conducevano a quel tempo. Per battere il grano si usava il correggiato, per mietere le falci, e per trasportare carichi troppo pesanti da portare a mano un carretto con le ruote di legno trainato da un cavallo.

Il mio primo cruciale errore fu di ignorare il consiglio di tenere indosso la maglietta. Quell’estate c’erano giornate di sole cocente e temporali notturni. Fui messo a occuparmi di un attrezzo simile a un piccolo aratro: al posto del vomere aveva due lame che, se spinte abbastanza a fondo fra i filari di raccolto, tagliavano le radici delle erbacce nel sottosuolo (dopo la guerra trovai uno strumento uguale a quello in un museo di vecchi attrezzi agricoli). Ero sicuro che l’aggeggio fosse stato ideato per essere trainato da un cavallo, ma, dato che la bestia era impegnata altrove, ero obbligato a fare il lavoro al posto suo. Una giornata ad estirpare erbacce tra filari di piante di patate ebbe come esito muscoli doloranti e la schiena bella bruciata dal sole. Dato che dovevo dormire su un sacco di paglia, ebbi tutta la notte e quelle seguenti per pentirmi della mia stupidità.

Il mio letto era in un corridoio che separava l’edificio della fattoria dalle stalle. Se avevo bisogno di svuotare la vescica, da lì al ricovero delle vacche erano solo pochi passi. Non c’erano porte, né luce, quindi mettere un piede negli escrementi bovini prima di tornare a letto non era un’esperienza insolita. L’assenza di porte permetteva anche al vento di spazzare lo stretto passaggio, durante i temporali notturni, ululando e rinfrescando la mia schiena bruciata con un sottile spruzzo di pioggia.

La colazione consisteva in una grande ciotola di purè di patate. Imparai in fretta che la procedura corretta era prendere una grossa cucchiaiata di purè, immergerlo in una tazza comune di latte, passarlo in un piatto di zucchero semolato e poi ficcarselo in bocca, insieme alla saliva di tutta la tavolata. Questa usanza costituì uno shock culturale enorme per me… ma nessuno rimaneva con la fame.

Resistetti una settimana, durante la quale decisi che non ero tagliato per fare il contadino, anche se imparai una certa padronanza della falce. Purtroppo, far oscillare la lama alla giusta angolazione per tagliare gli steli, l’unica attività che mi desse soddisfazione, risultò di scarsa utilità per la mia successiva carriera di accademico.

Così, dopo una sola ingloriosa settimana, ritornai a casa di mio zio come operaio agricolo fallito. Una delle poche persone a cui potevamo far visita durante le nostre uscite era il signor Perlhaefter, ebreo ma sposato con una gentile, che viveva proprio sulla bella piazza acciottolata al centro della piccola cittadina. Era un organista a tempo perso e scriveva musica sacra che, in tempi più felici, quando veniva suonata nella grande chiesa, metà della comunità ebraica andava a sentire. Fu l’unico superstite della comunità ebraica autoctona. Essendo sposato a una gentile, fu deportato molto tempo dopo del resto di noi e solo fino a Terezín. Avendo giurato che, se fosse sopravvissuto, avrebbe indossato la stella di David gialla, se ne fece fare una sotto forma di una piccola spilla smaltata che portò fino alla fine dei suoi giorni. Deve essere stato lui a far erigere il monumento che vidi dopo la guerra nel cimitero, monumento che commemorava tutti gli ebrei morti di Ústí. Fu anche il custode dei miei pochi averi sopravvissuti, incluso il prezioso album fotografico di famiglia, che durante la guerra nascose insieme agli effetti personali di molte altre persone, nel caso ci fossero dei superstiti.

Il tempo stava rapidamente scadendo, per la piccola comunità ebraica. Una dozzina circa di persone che vivevano nella parte alta della città dovettero trasferirsi a casa di mio zio, grande giusto abbastanza da alloggiarci tutti. Nell’autunno del 1942 la casa fu requisita dall’amministrazione tedesca e dovemmo tutti traslocare nel minuscolo appartamento dei Weiner, una coppia in pensione che viveva di fronte alla chiesa. Eravamo in tanti per stanza e fummo costretti dormire su materassi sparpagliati sul pavimento. E, quando terminammo i materassi, finii su una pila di coperte.

Sapevamo che stavamo per essere deportati, con solo ciò che ognuno di noi poteva mettere in una valigia. Della questione con noi bambini non si parlava, ma fummo sottoposti a iniezioni antitifiche, che ci procurarono una forte febbre, e vedemmo i grandi nascondere orologi e gioielli di valore nelle scatolette del lucido da scarpe. Gli oggetti di valore venivano inseriti nel plasticene 3* alla base del contenitore svuotato e coperti con un doppio fondo; poi veniva riempito di nuovo con il lucido da scarpe sciolto. Stranamente, gli adulti pensarono alla possibilità che il contenuto delle scatolette venisse saggiato con un oggetto appuntito, ma non all’eventualità molto più probabile che il bagaglio venisse semplicemente confiscato. Fra parentesi, mi sono spesso chiesto se molti anni dopo qualcuno, finendo una scatoletta di lucido da scarpe, non avesse trovato una bella sorpresa.

Non passò molto prima che un distaccamento della Wehrmacht con le baionette inastate venisse a bussare alle nostre porte per condurci su un treno speciale che ci aspettava alla stazione. Ci fu un ritardo, perché l’ufficiale delle SS che supervisionava l’imbarco mandò dei soldati a prendere una coppia di anziani che non si era presentata come ordinato. Non morivo dalla voglia di vedere come sarebbero stati trattati, ma non arrivarono mai: avevano assunto una dose eccessiva di farmaci la sera prima. Negli anni a seguire, finii per pensare a quell’atto come a una sorta di vittoria.