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Un bombardiere Lancaster


Nonostante la gentilezza di zio Hugo e della sua famiglia, volevo con tutto me stesso raggiungere al più presto mio padre in Inghilterra. Non solo la Cecoslovacchia era infestata da troppe ombre dei miei cari – dovevo allontanarle dai miei pensieri, se volevo avere un futuro – ma stavano pure giungendo inquietanti segnali circa la possibile calata di una Cortina di ferro, che avrebbe potuto perpetuare la separazione tra gli ultimi due membri rimasti della mia famiglia.

Non lo sapevo, ma a un certo punto dell’estate del 1945 il governo britannico aveva accettato di accogliere mille orfani sotto i sedici anni di età, liberati dai campi di concentramento nazisti. E probabilmente fu meglio che ne fossi all’oscuro, perché non avevo tutti i requisiti richiesti: non ero un orfano e avevo più di diciassette anni, e non avrei mai pensato di poter approfittare di un passaggio aereo. Così l’invito a presentarmi a un certo indirizzo a Praga per partire immediatamente in volo per l’Inghilterra mi giunse come una splendida sorpresa. In seguito venni a sapere che erano stati trovati meno di settecentocinquanta bambini sopravvissuti ai campi, per cui molti posti erano ancora vacanti. Gli aerei che ci portarono nel Regno Unito erano dei bombardieri della RAF, a disposizione dopo aver riportato a Praga dei piloti cechi che durante la guerra avevano prestato servizio nell’aviazione militare britannica.

Come regalo di addio, lo zio Hugo mi diede una piccola valigia di cartone piena di ammaccature e un antico orologio Omega, che ancora possiedo. A parte il mio album di fotografie e qualche oggetto prezioso ritrovato a Ústí, non c’era molto da mettere nel bagaglio.

Venne fuori che l’indirizzo al quale dovevo presentarmi era una casa di cura di Praga, che era già piena di bambini portati lì da Terezín. Dovetti passarci una notte, a causa di un ritardo provocato da qualche contrattempo con gli aerei.

Alla fine, comunque, ci portarono in autobus all’aeroporto di Ruzyně, dove salimmo su dei bombardieri Lancaster in disarmo. Ce ne saranno stati una decina, e a stento riuscivo a contenere la mia eccitazione.

Ci sedemmo sul pavimento. Io trovai posto sotto la torretta in plexiglass al centro dell’aereo, ma riuscivo a vedere solo un frammento del cielo sovrastante.

Lungo il percorso, facemmo scalo in Olanda per un rifornimento. Alcune gentili signore locali avevano allestito dei tavolini sopra a dei cavalletti con spuntini e dolcetti per noi: dovevano essere state informate del nostro arrivo. Io feci il giro dell’aereo, esaminandone l’esterno, e ricordo che fui profondamente colpito dalle dimensioni del carrello di atterraggio. Le ruote e i copertoni svettavano sopra di me. Ricordando il mio ultimo incontro con un velivolo – il trimotore Sabena Junkers, nel 1938, quando eravamo rientrati dal Belgio – mi resi conto di quanto le dimensioni degli aerei fossero aumentate a causa della guerra.

Atterrammo nel campo di aviazione della RAF di Crosby-on-Eden, da qualche parte nei dintorni di Carlisle.

Così ero arrivato in Inghilterra, alla fine, dopo un movimentato ritardo di almeno sette anni. Come prima celebrazione dell’evento, mi tirai su fin dentro la cupola di osservazione del bombardiere, rompendo, nel muovermi, il vetro dell’orologio Omega regalato da mio zio.

Non ricordo molto del modo in cui fummo accolti, a parte sguardi cordiali, altri dolcetti, qualche formalità e una lunga attesa. C’erano solo cinque o sei ragazzi cechi, e due ragazze, ciascuno con un genitore o un parente stretto in Inghilterra. Gli altri erano forse trecento bambini orfani, per lo più polacchi, per cui non c’era alcun ricongiungimento in vista. Non appena le formalità fossero state completate, saremmo stati trasferiti tutti in un campo nei pressi di Windermere. E quel viaggio lo ricordo vividamente.

Al contrario dei bambini più piccoli, che furono portati via in autobus, noi ragazzi più grandi dovemmo salire sul retro di un camion coperto con un telone, la cui parte terminale era solo un pannello munito di cardini, esposto a una fredda pioggerellina intermittente. Nessuno mi aveva informato del clima estivo inglese. E devo pure ammettere che, dopo la liberazione, avevo iniziato a fumare, forse perché i soldati americani ci distribuivano generosamente le sigarette, che in precedenza consideravamo una preziosa moneta di scambio. Inoltre, coerentemente con il mio istinto risparmiatore, avevo acquistato un bocchino della forma di un’orribile piccola pipa, che mi permetteva di fumare i mozziconi, compresi quelli che i miei amici, altrimenti, avrebbero potuto scartare. Il viaggio, di quasi cento chilometri, ci portò lungo strade ondulate che ricordavano le montagne russe del luna park ancor più di quel volo pieno di scossoni sul Lancaster. Normalmente non soffro di mal d’auto. Quello che mi portò oltre il limite, credo, fu una birra allo zenzero, una bevanda del tutto nuova per me. Il nostro autista fece una sosta a un pub e, essendo una persona gentile, decise di offrirci qualcosa.

La scelta della birra allo zenzero venne dalla nostra ignoranza dell’offerta dei locali inglesi, ma anche da un problema di comunicazione. Tutto quello che posso dire è che non è consigliabile, soprattutto se unita al fumo di mozziconi di sigaretta e agli scossoni del retro di un camion.

Le vicende degli orfani polacchi sono state raccontate da Martin Gilbert nel libro The Boys 9*. L’autore non sapeva del nostro gruppetto di ragazzi cechi, com’è normale, visto che ce ne andammo da Windermere a pochi giorni dal nostro arrivo.

Devo confessare che allora non riuscii a provare simpatia per i ragazzi polacchi. In questo racconto sono stato rigorosamente onesto, per cui devo esserlo anche a questo riguardo. Alcuni dei più grandi presero così tanto cibo che non ne rimase a sufficienza per il resto di noi; e usarono pure le biciclette degli abitanti del paese senza chiedere il permesso, comportandosi come se fosse uno scherzo furbo di cui andar fieri. Noi, ovviamente, lo prendemmo come un imperdonabile abuso dell’ospitalità inglese, soprattutto considerando che la gente del posto era così fiduciosa da non mettere neppure il lucchetto alle bici. Può darsi che fossi stato sensibilizzato fin troppo dalla propaganda nazista e dalla tendenza a creare stereotipi su atteggiamenti come quello, per cui la cosa mi sembrava ripugnante e oggi non riesco a vederla come uno scherzo inoffensivo. Questo però non toglie nulla all’enorme ammirazione che ho per il modo in cui quei bambini, successivamente, riuscirono a farsi strada nel mondo senza l’aiuto di alcun parente.

Sono convinto che debba esserci un errore sulla terza pagina del mio certificato del Registro degli stranieri, in cui si dice: «Autorizzato ad atterrare a Crosby-on-Eden il 17 agosto 1945» [ vedi fig. 12]. Quella data fu scritta a mano da un agente della stazione di polizia di Preston, ma molto tempo dopo. Io sono sicuro di essere arrivato in Inghilterra il 14 agosto, perché l’indomani era la Giornata della vittoria sul Giappone, il 15 agosto 1945. Il motivo per cui non ho dubbi è che non riuscii a contattare mio padre via telefono o telegrafo, perché non funzionava niente e non lavorava nessuno. Ufficialmente, erano stati dichiarati due giorni di festa e, nell’euforia che segnò la fine della seconda guerra mondiale, quel giorno nessun centralino era presidiato.