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Blechhammer
La partenza da Auschwitz risvegliò in me uno stato d’animo molto diverso da quello dell’arrivo. Era piena estate e mi trovavo sul retro di un camion scoperto, non più rinchiuso in un vagone bestiame in un’oscura notte di dicembre, e mi sentivo sollevato nel rivedere l’erba verde e gli alberi. Il Familienlager di Birkenau era stata una terra desolata di fango e filo spinato che la natura evitava, come era giusto che fosse per un luogo di detenzione costruito appositamente per gente destinata alle camere a gas. Nonostante mi stessi avviando, a mia insaputa, verso sofferenze fisiche ben peggiori, niente, nei miei ricordi successivi, resta paragonabile all’orrore di quel nerissimo buco di malvagità allo stato puro, il cui unico scopo era praticare il genocidio su scala industriale.
Non sapevo affatto da quanto fossi in viaggio o dove mi trovassi davvero, se non che doveva trattarsi di un luogo nella Slesia polacca. Quei miei spostamenti sono rimasti un mistero per la maggior parte della mia vita. E anche se non fossi riuscito così bene a togliermi dalla mente tutto il periodo, i campi di concentramento non erano segnati su nessuna mappa tedesca di pubblico dominio, e sarebbe stato davvero difficile individuare la mia posizione usando solo l’intuito e qualche riferimento sparso nel paesaggio. Ho provato a ricostruire i miei spostamenti soltanto all’età di ottantadue anni, dopo essermi lasciato convincere a scrivere di quelle mie esperienze. Nel frattempo, il mondo era cambiato ed era sufficiente qualche minuto per cercare su Google l’itinerario più breve da Auschwitz a Blechhammer che, passando per Katowice e Gliwice, è di poco meno di cento chilometri.
Non essendoci mai tornato di persona, trovo le immagini satellitari dei campi particolarmente inquietanti, e sono rimasto scioccato quando ho riconosciuto la mia baracca a Birkenau, che adesso è circondata da prati e alberi. In qualche modo, mi pare offensivo e sbagliato il fatto che sia stata trasformata in un’area verde: sarebbe stato giusto mantenere il terreno ricoperto di polvere sbiancante, per non farci crescere più nulla.
Guardando fuori, dal retro del camion, mi rallegrava vedere piccoli villaggi e gente normale, persone che non erano né prigionieri, né guardie, né soldati. Immagino che ciò sembrerà strano a chiunque non abbia considerato gli effetti prodotti da diciotto mesi di prigionia sulla psiche di un adolescente, diciotto mesi trascorsi senza la minima speranza di tornare a vedere anche questi limitatissimi scorci di normalità. E poi mi sentivo rinfrancato al pensiero che, per qualunque cosa fossi stato scelto, non era una morte imminente e inerme.
Pare che Blechhammer fosse stato costruito come campo di lavoro, prima di diventare un lager e fare parte dell’insieme di stabilimenti di lavoro forzato sotto la gestione di Auschwitz. Era situato in una zona boscosa piuttosto bella, e divenne un campo-dormitorio per prigionieri costretti a prestare servizio in un grande complesso industriale. Lo scopo principale della struttura centrale era la gestione di un impianto per la conversione del carbone polverizzato in prodotti petroliferi, seguendo qualche variante del procedimento Fischer-Tropsch. Ogni mattina presto, i prigionieri venivano fatti marciare in lunghe colonne, scortati dai soldati della Wehrmacht, verso varie parti dello stabilimento, e tornavano al lager a tarda notte.
Al nostro arrivo, ci riservarono il trattamento sauna completo: ci rasarono la testa a zero e ci disinfettarono, ci fecero la doccia e ci fornirono di camicia blu, mutande, pigiama a strisce, berretto e zoccoli con la parte sopra di tela. Fortuna volle che me ne toccò subito un paio della misura più o meno giusta, anche se, siccome il procedimento veniva ripetuto con regolarità, non andava certo sempre a finire così, per cui spesso, di nascosto, facevamo degli scambi, quando se ne presentava l’occasione. Una buona cosa era che dalle docce usciva solamente acqua; a Blechhammer c’era un forno crematorio ma nessuna camera a gas. Tuttavia, ammalarsi fino a non poter lavorare equivaleva a un biglietto di sola andata per le camere a gas di Auschwitz.
Noi, che eravamo il primo gruppo di ragazzini cechi arrivati da Auschwitz-Birkenau, fummo assegnati alla costruzione e alla manutenzione delle rotaie dello stabilimento. A ripensarci adesso, ci comportammo in un modo molto stupido: invece di cercare di sabotare le attività, decidemmo di atteggiarci come se fossimo una “squadra scelta”. Ci avviavamo ogni mattina fischiettando allegramente e cercando di apparire più prestanti della nostra scorta militare. Non era difficile, perché i tipi della Wehrmacht che dovevano farci la guardia erano ben diversi dai criminali di Auschwitz: si trattava di vecchi soldati decrepiti, che arrancavano sotto il peso dei loro normalissimi fucili e non erano più in grado di servire la madrepatria al fronte in nessuno dei tanti teatri di guerra.
Spiegherò poi perché facessimo così, ma diciamo subito che il nostro comportamento ci procurò il comprensibile disprezzo degli anziani del campo, per lo più ebrei polacchi arrivati a Blechhammer molto prima di noi.
La natura del lavoro cambiò completamente dopo l’inizio dei raid aerei. Prima di allora, il nostro compito consisteva nello scavare all’interno della foresta, usando vanghe e badili, un fondo liscio e diritto su cui stendere un profondo strato di pietre e sul quale poi posare le traversine di legno. Usavamo una specie di largo forcone da giardinaggio dal manico corto e i denti stondati che, quando era carico di pietre, riuscivo a stento a sollevare.
C’erano poi altri strani e incredibili strumenti. Una volta disposte le traversine, venivano portate le rotaie in lunghe sezioni, con almeno un uomo per maniglia. Partecipava tutta la squadra, disposta su due file e con la rotaia nel mezzo (salvo l’eventuale uomo in più, che magari aveva la fortuna di restare fuori). Infine, le pietre venivano compattate sotto le traversine mediante una specie di piccone, che a un’estremità aveva un martello smussato al posto della punta. Ma è molto probabile che tutti quegli strumenti, per me decisamente singolari, allora fossero utilizzati ovunque per costruire binari.
I nostri istruttori e supervisori erano due giovani civili polacchi, presumibilmente dei dipendenti della società ferroviaria. Si davano un sacco da fare ed erano brave persone, come dimostra la storia che segue. Il loro superiore tedesco era un patito della caccia, e le foreste della Slesia tutt’intorno erano piene di animali selvatici.
Ma la mira non era il suo forte, a quanto pare, perché, a qualche settimana dal nostro arrivo, colpì e uccise il suo cane da caccia, un grosso pastore tedesco. Con un gesto insolitamente generoso, l’ufficiale donò la carcassa dell’animale ai nostri supervisori polacchi, i quali prepararono uno splendido pasto con quei resti. Erano anche loro a corto di cibo, naturalmente, e soprattutto di proteine. A noi non toccò neanche un po’ di quella carne – sarebbe stato troppo sperarlo – ma ci concessero parte della zuppa. Non ho mai dimenticato né quel gesto di gentilezza, né il delizioso sapore di quel brodo. Ritengo che siano pochi ad aver provato la zuppa di pastore tedesco, ma per me, quell’anno, fu in assoluto il pasto migliore.
Tutti i membri del nostro gruppo di ragazzini soffrivano per la drastica privazione di sonno. Come desiderio fisico, era secondo solo alla fame. Naturalmente non avevo un orologio, né potevo leggere l’ora da nessuna parte, ma dubito che riuscissimo a riposare più di quattro ore a notte. Le nostre giornate cominciavano prima dell’alba con l’appello del primo mattino, che ci imponeva di stare sull’attenti in file e colonne di multipli di dieci, per essere contati. L’unica scusa valida per non presentarsi era essere morti durante la notte; qualunque altra motivazione avrebbe portato ad assurde punizioni.
Spesso ci tenevano là in piedi per ore, quando il compito di contare a voce alta veniva assegnato a un ufficiale che lo trovava così faticoso da perder più volte il conto e dover ricominciare da capo. Gli ufficiali delle SS che avevano problemi a contare con le dita, parlavano un tedesco terribile, con un accento molto forte; forse erano volontari polacchi del Volksdeutsche 4*. Durante i ripetuti conteggi sbagliati, nelle lunghe giornate estive, ciondolavamo per la stanchezza, ma quando veniva l’inverno, e ci toccava restare in piedi per ore nel gelo con indosso soltanto i nostri pigiami leggeri, soffrivamo molto per l’ipotermia fino a essere sul punto di morirne.
La stessa procedura veniva ripetuta dopo il nostro ritorno, alla sera. Alzarsi in piedi e farsi contare è un’espressione che ancora oggi ha per me implicazioni sinistre.
La privazione del sonno spiega la nostra decisione di agire come una squadra di lavoro “d’élite”. Era un tentativo di indurre i nostri supervisori a concederci dei brevi pisolini, in quanto il nostro sforzo straordinario li avrebbe messi in buona luce agli occhi dei loro sovrintendenti tedeschi. Barattavamo il completamento di un tratto molto lungo di binario entro una certa ora con un periodo di riposo al termine del lavoro. Era un’idea pensata male e destinata al fallimento. Tutto quello che posso dire, a nostra difesa, è che anche i nostri supervisori erano troppo stupidi per vederne innanzitutto i rischi. Erano abbastanza astuti da provare a ingannarci ponendoci degli obiettivi sempre più alti, ma non consideravano le conseguenze del fatto che un sovrintendente tedesco potesse spuntar fuori all’improvviso, trovandoci a sonnecchiare su una catasta di traversine di legno. Poi, naturalmente, erano guai seri.
In seguito, imparammo quello che gli anziani del campo facevano da sempre, cioè dormicchiare appoggiati alle nostre vanghe ogniqualvolta qualcuno non guardava, e la nostra produttività si avvicinò alla norma.
Ora, si potrebbe pensare che una fatica così estrema portasse almeno a dormire profondamente e senza sogni di notte. Invece non era così. Una delle torture notturne, nei campi di concentramento, e uno dei miei peggiori tormenti, era quella di svegliarmi da bei sogni sui momenti felici della mia infanzia, per ritrovarmi nell’incubo del luogo in cui mi trovavo ora.
Una ragione delle frequenti interruzioni del sonno notturno era il fatto che la nostra dieta consisteva sostanzialmente in zuppe, con l’ovvia conseguenza fisiologica di avere spesso bisogno di urinare. Purtroppo, le latrine si trovavano ad almeno trecento metri dalla mia baracca. Nonostante il percorso fosse tutto ben in vista dalla più vicina torre di guardia, dopo un po’ decisi che potevo fare la pipì mentre camminavo, per evitare il rischio di beccarmi una pallottola. Questa è un’abilità che va appresa, ma, più o meno una settimana dopo, mi resi conto che il bisogno di raggiungere la latrina scompariva dopo aver coperto circa un terzo della distanza. Spesso mi sono domandato cosa pensassero le guardie dei miei improvvisi ripensamenti e cambiamenti di direzione.
D’inverno, com’è naturale, questa esibizione si svolgeva nella neve alta, sul cui bianco fondale lasciavo tracce gialle alla maniera di Jackson Pollock, il tutto sotto la luce dei riflettori delle torri di guardia. Siccome non mi sparò mai nessuno, mi piace pensare che le guardie gradissero quella distrazione notturna che fornivo loro durante quei lunghi e freddi turni di osservazione. Quando rientravo nella mia baracca, poi, dovevo arrampicarmi di nuovo fino alla mia cuccetta e infilare il mio corpo freddo e a volte umido fra quelli pigiati stretti dei miei compagni che dormivano nello stesso spazio. E, poiché avevamo tutti bisogni simili, la situazione raramente ci consentiva di dormire anche solo qualche ora.
Un aspetto di Blechhammer che ci rendeva la vita più sopportabile era il fatto che lì avevamo qualche contatto con il mondo esterno. Si trattava di un contatto puramente visivo, certo; non ci era permesso di interagire con i civili, ma dopo un anno e mezzo trascorso nei campi, anche la semplice possibilità di vedere della gente normale impegnata nel suo lavoro era un’autentica sorpresa. Di tanto in tanto, poi, riuscivo a dare un’occhiata a pezzi di giornali tedeschi rimasti per terra, cosa che mi aiutava a sentirmi parte della razza umana, anche se le notizie erano sempre deprimenti. A leggere i quotidiani, i tedeschi non subivano mai sconfitte, vincevano soltanto. In particolare, parlavano delle Vergeltungswaffen, armi speciali messe a punto da poco, che ben presto avrebbero annientato l’Inghilterra (dove c’era anche mio padre). Nessuno, da quegli scampoli di letture, avrebbe potuto immaginare che il Terzo Reich sarebbe stato sbaragliato nel giro di un anno.
E poi vennero i raid aerei. I tedeschi dovevano aver previsto questo sviluppo. Avevano perso il controllo di alcune delle aree petrolifere nell’Est, e la produzione di petrolio sintetico era diventata una priorità. In aggiunta alle sirene e alla contraerea, avevano realizzato degli enormi rifugi antiaerei. Ne vidi uno in fase di costruzione, al momento del nostro arrivo. Alcuni operai stavano versando del calcestruzzo su una griglia di ferro inserita in un involucro di legno, che evidentemente era stato concepito per diversi possibili usi. Il rifugio consisteva in un lungo tunnel semicilindrico che terminava con torri squadrate e ingressi ad angolo retto. Le pareti dovevano essere spesse quasi due metri. Molto tempo dopo vidi l’effetto dell’impatto diretto di una bomba su un tunnel del genere: portò via solo un pezzo del cemento esterno, di fatto solo una piccola parte dello spessore del muro.
Venni a sapere che due persone all’interno erano rimaste uccise, o dall’onda d’urto che aveva attraversato la parete a cui erano appoggiate, oppure perché travolte da qualche macchinario che era stato fissato alla parete. Non c’è dubbio, comunque, che la maggior parte di quelli che erano dentro sarebbe sopravvissuta anche a ripetuti bombardamenti. Tutto ciò, peraltro, era per noi di interesse puramente accademico, dato che non eravamo ammessi in quei rifugi.
C’erano pure degli spessi cilindri metallici, collocati a intervalli regolari lungo le strade all’interno dell’impianto. Erano muniti di soffioni per doccia che, scaricando sostanze chimiche liquide (tetracloruro di titanio?) reagenti con l’umidità dell’atmosfera, producevano una fitta nebbia che nascondeva le strutture.
Quella nebbia corrosiva dava fitte ai polmoni, soprattutto quando veniva inalata in grandi quantità da qualcuno in fuga dai bombardamenti e a corto di fiato. Nascondere gli stabilimenti, poi, si rivelò di scarsa utilità, dato che l’aviazione americana effettuava bombardamenti a tappeto ad alta quota. Infatti, incredibilmente, accadde che, quando un vento stabile spostò tutta la cortina fumogena sulla foresta, questa vennisse bersagliata al posto del campo.
I bombardamenti iniziarono in un giorno di sole, quando fummo distratti dal nostro lavoro da due bimotore che sfrecciavano rapidi a bassa quota, sotto le cime delle ciminiere delle fabbriche. Capii solo molto tempo dopo che stavano facendo una ricognizione fotografica. A dire il vero, il sentimento in me dominante, tutte le volte che vedevo degli aerei alleati, era l’invidia verso quei fortunati piloti che, incredibilmente, poche ore dopo sarebbero tornati nei loro letti, nel mondo libero. Nei giorni seguenti, alcuni operai ridussero la lunghezza delle ciminiere, perché non sporgessero dalla cortina fumogena chimica.
Dopo quella volta, i bombardieri ritornarono di quando in quando. Molti anni dopo appresi che, grazie alla conquista di alcune basi aeree nell’Italia settentrionale, Blechhammer era da poco entrato nel raggio d’azione dei nuovi bombardieri Flying Fortress («Fortezza volante») dell’aviazione americana. Li vidi in un’occasione, quando fui sorpreso allo scoperto, non essendo riuscito a trovare un riparo, tra l’ululato delle sirene e il ronzio degli aerei in avvicinamento. Volavano in formazione a quella che mi parve un’altezza incredibile, come una nuvola bianca d’alta quota (A quei tempi non avevo mai visto degli apparecchi volare così in alto, mentre oggi non capita praticamente mai di alzare lo sguardo al cielo senza vedere numerosi aerei di linea, a quell’altezza).
Bombardarono a tappeto le strutture senza, per quanto potei capire, dover rompere la loro formazione o variare quota. In quell’occasione, una bomba mi esplose così vicino che, mentre ero disteso per terra, sentii le mie gambe agitarsi in aria. Per fortuna non rimasi ferito, a parte i danni all’udito, i cui effetti persistono ancor oggi.
Grazie al soffice terreno della foresta, le bombe penetravano in profondità prima di esplodere, creando dei crateri stretti e scoscesi.
Naturalmente, noi cercavamo sempre di non restare esposti. Le nostre guardie si precipitavano nei rifugi antiaerei ufficiali non appena le sirene iniziavano a suonare, ma a noi quelli erano preclusi. A quel punto, potevamo solo cercare un qualunque nascondiglio che fosse disponibile, a seconda di dove ci trovavamo.
Quando eravamo vicini agli stabilimenti industriali, il nostro obiettivo era trovare lo scantinato più profondo, sormontato dal maggior numero possibile di piani.
In diverse occasioni finimmo in uno scantinato dove veniva immagazzinata polvere di carbone, e che si trovava sotto un’imponente costruzione. Doveva essere la centrale elettrica principale o l’impianto di conversione del carbone in petrolio. Quello che contava era che avesse circa cinque piani sopra il livello del suolo. Non che ci sentissimo al sicuro. L’edificio fu colpito tante volte, durante ogni raid, e noi restavamo ad ascoltare, terrorizzati, le bombe che penetravano piano dopo piano, prima di esplodere. Venivamo scossi da poderose onde d’urto e ascoltavamo il rumore delle macerie che cadevano, prima che l’impatto successivo scendesse più in profondità. A ogni attacco, riemergevamo tutti anneriti come apprendisti spazzacamini. Se allora avessi saputo quello che oggi so sulle esplosioni della polvere di carbone, magari avrei cercato un altro rifugio.
A volte lavoravamo in zone dove non era possibile trovare un riparo adatto. Allora dovevamo correre e cercare di raggiungere i tunnel nei terrapieni che si sviluppavano intorno all’impianto. Mio padre mi aveva insegnato a coprire lunghe distanze il più rapidamente possibile, alternando la corsa a, quando ero proprio senza fiato, la camminata veloce. Tuttavia non avevamo considerato l’effetto corrosivo sui polmoni di quelle grandi boccate di nebbia chimica. Quei terrapieni non solo erano lontani, ma offrivano anche un riparo relativo, dato che fermavano il grosso delle schegge delle bombe, ma non avrebbero certamente resistito a un impatto diretto.
Ero stato portato a credere che le bombe fischiassero mentre cadevano, ma non fu affatto quello che sperimentammo durante i bombardamenti a tappeto di quelle grandi formazioni aeree. C’era invece una vibrazione violenta e spaventosa, che scuoteva i polmoni e tutto il corpo, generando un insopportabile crescendo, quando gli ordigni cadevano proprio sopra di noi. Le mie esperienze nei campi, in genere, mi hanno trasformato in una specie di esperto negli elementi che scatenano il panico più cieco, e non esito a mettere questa particolare situazione in testa alla classifica delle più grandi paure che io abbia mai provato.
Curiosamente, prima di cominciare a scrivere questo libro, avevo sempre associato quel tremore pulsante all’interazione di un gran numero di ordigni che attraversassero l’atmosfera ad altissima velocità, forse avvicinandosi al muro del suono. Ora, avendo assistito al filmato di un bombardamento a tappeto ripreso dall’alto, che mostrava le singole onde d’urto, ho capito che quella che noi percepivamo e ci sentivamo addosso era la sovrapposizione di successive onde d’urto proiettate dal limite in avvicinamento del “tappeto” di bombe, che avanzava verso di noi in senso orizzontale, e non verticale. In termini di tempistica e durata, il risultato sarà stato più o meno lo stesso; l’altitudine a cui gli aerei volavano doveva essere approssimativamente pari alle dimensioni dell’impianto, e la velocità terminale degli ordigni non tanto diversa da quella del sempre più vicino limite del “tappeto”, ovvero dalla velocità degli aerei.
Mentre ce ne stavamo lì a sedere su cataste di assi di legno, in quel crescendo di vibrazioni nell’aria, terrorizzati dalle gigantesche forze che da un momento all’altro ci avrebbero fatti a pezzi, vedevo tutti tenere gli occhi chiusi e muovere le labbra in silenziose suppliche.
Sapevo che molti di quelli che pregavano dicevano di non credere in Dio, ma di certo in quel tunnel nella sabbia non c’erano atei. Negli anni a venire ho riflettuto sulle credenze dei miei amici. Quello che avevano rifiutato, credo, fosse la religione. Eppure, quando si trovavano in pericolo di morte, agognavano il conforto della preghiera rivolta a un dio personale. I concetti di religione organizzata e fede individuale, a mio avviso, sono ben distinti. Può darsi che la predisposizione a credere in un Dio-persona nasca nell’infanzia, dalla nostra dipendenza da una figura genitoriale dominante che ci dia conforto e protezione. Tuttavia, poiché la fede in un dio è un aiuto così potente alla sopravvivenza, l’evoluzione, nell’arco di molte generazioni, deve aver portato alla creazione nella nostra mente di uno spazio o di un modello “a misura divina”. Ciò spiegherebbe perché tutta le comunità umane hanno adorato un dio o degli dèi. D’altra parte, credo che le religioni siano state effettivamente costruite dagli uomini e abbiano solo sfruttato questi sentimenti innati. Il richiamo di preti, druidi, profeti, sciamani o di chiunque si metta un buffo cappello e affermi che Dio gli ha parlato – e che lui ne è il rappresentante in Terra e l’unica strada verso la sua suprema autorità – costituisce probabilmente il secondo mestiere più antico al mondo. I dettagli del messaggio tendono a variare, ma in generale esso promette eterne sofferenze a coloro che volessero ignorarlo e, soprattutto, richiede agli adepti di aborrire e perseguitare la concorrenza, ovvero le altre religioni. Chi può contare le morti, i terribili dolori che i conflitti tra i vari culti hanno provocato e continuano a provocare nel genere umano? Per questo quei miei poveri amici avevano rifiutato la religione e, nel momento in cui temevano di morire, cercavano disperatamente di recuperare il bambino che avevano gettato via con l’acqua sporca. O almeno così mi sembrava.
Comunque, in quell’occasione sopravvivemmo, mentre altri non furono così fortunati. Uno dei rifugi, che sostanzialmente era solo una caverna nel terreno sormontata da un grande cumulo di terra, era stato colpito ed era crollato, seppellendo gli occupanti. A quel punto noi eravamo già tornati ai nostri attrezzi, al binario a cui stavamo lavorando, e ci apprestavamo ad andare in loro soccorso, quando, sfortunatamente, spuntò una guardia delle SS per verificare i danni. Avevamo le nostre vanghe in spalla ed eravamo pronti a scavare per tirare fuori i poveri diavoli dentro il rifugio crollato, ma ci fu ordinato di tornare alle riparazioni del binario. Quella fu l’occasione in cui fummo più vicini alla rivolta. La guardia estrasse la pistola, urlando che avrebbe ucciso chiunque non avesse eseguito l’ordine di riprendere il lavoro. Naturalmente, non avevamo mai stabilito alcun contatto con le nostre guardie e quella fu la prima volta che mi vidi puntare contro una pistola. La devastazione e la carneficina provocate dai raid aerei ci avevano catapultati sulla linea del fronte.
C’erano incendi, edifici ridotti in macerie, crateri nelle strade, pali del telegrafo spezzati come bastoncini e linee elettriche al suolo. Da alcune di esse, nei punti in cui i fili erano danneggiati, si liberavano luminose e sfrigolanti scariche ad arco. C’erano anche contenitori di nebbia artificiale, perforati dalle schegge delle bombe, dai quali fuoriusciva dell’acre fumo chimico. I danni prodotti dai bombardamenti ai nostri binari erano piuttosto spettacolari, specialmente quando venivano colpiti nel mezzo, rimanendo distrutti e con le estremità rigirate verso l’alto, come gigantesche scale a pioli.
Le rotaie correvano parallelamente alle strade, ed erano sormontate da enormi condutture sostenute da gru a cavalletto. Alcune di queste trasportavano liquidi infiammabili, o almeno lo facevano quando l’impianto era ancora in funzione. Così, quello che ci veniva ordinato di sistemare spesso era un binario piegato verso il cielo, una delle cui rotaie aveva perforato una conduttura sovrastante, con conseguente perdita di olio infiammabile.
La procedura, una volta spente le fiamme, consisteva nel sostituire il binario danneggiato. La rotaia ripiegata, appena veniva sbullonata, cadeva all’istante e a gran velocità. La direzione era imprevedibile, come del resto anche quella di rimbalzo, dopo che il metallo ritorto aveva toccato terra. Certo, facevamo del nostro meglio per toglierci di mezzo, ma fu solo per fortuna che nessuno di noi rimase ucciso.
A proposito di altri miracoli, alcune delle cose che mi successero oggi mi sembrano così inverosimili che ho seriamente valutato se escluderle dal libro, temendo che i lettori pensassero me le fossi inventate di sana pianta. Ma, a ripensarci bene, sarebbe stato disonesto quanto una falsificazione, quindi eccovi i fatti. A volte la contraerea apriva il fuoco dopo che le sirene di allarme avevano cessato di suonare, ma molto prima che comparissero gli aerei. Non so perché lo facessero. Forse calibravano l’altezza alla quale i proiettili sarebbero esplosi. Di tanto in tanto, sentivamo un picchiettio intorno a noi, come se ci stessero cadendo vicino dei grossi chicchi di grandine.
Erano frammenti di proiettili della contraerea, dai margini seghettati e troppo caldi per essere toccati. Un giorno mi venne in mente che forse avrei fatto bene a tenermi sulla testa la gavetta. Quasi subito dopo ci fu un forte boato, e nello spesso contenitore di metallo si formò una grossa ammaccatura. Profondamente sbalordito, rivolsi in silenzio una preghiera di ringraziamento al mio angelo custode.
A fine autunno doveva ormai essere chiaro a tutti che il lavoro di migliaia di operai con ogni possibile specializzazione era un assoluto spreco di tempo. Era un pensiero decisamente sovversivo, in quanto l’intera macchina da guerra tedesca dipendeva dalla continuità delle forniture di petrolio. Se ci fosse stato solo un raid aereo ben mirato i danni forse avrebbero potuto essere riparati, col tempo. Ma i ripetuti bombardamenti a tappeto distruggevano, oltre ai principali obiettivi, anche tutte le infrastrutture, per cui non funzionava più nulla. Era evidente che, da quel momento in poi, i tedeschi non sarebbero riusciti a produrre petrolio a sufficienza neanche per ricaricare i loro accendini.
Il Kommandantur del campo reagì, come al solito, mandando a morte uno di noi per sabotaggio. Una sera, dopo essere tornati a piedi al campo, eravamo tutti schierati, come per un appello. Era ovvio quello che stava per succedere, perché davanti a noi c’erano un palco con sopra uno dei pali di cemento normalmente utilizzati come supporti per la recinzione di filo spinato elettrificato, e una sedia collocata sotto la sua sommità arcuata. Il comandante del campo, che era venuto fuori con il prigioniero, diversi assistenti e una corda, tenne un breve discorso, che sono in gran parte riuscito a cancellare dalla mia mente, anche se specificava senz’altro che la pena prevista per il sabotaggio era la morte.
Ricorsi al mio solito stratagemma di svuotare la testa, guardare senza vedere o registrare alcunché, ma fui turbato dal respiro mozzato della folla lì riunita, nel momento in cui la corda si spezzò e l’uomo cadde sulla tribuna. La procedura venne ripetuta ma, incredibilmente, con lo stesso identico risultato. I supervisori dovevano aver manomesso le corde, partendo dal presupposto che nessuno può essere impiccato due volte, eppure avrebbero dovuto sapere che i nazisti non riconoscevano nessuna regola del genere. Al terzo tentativo, fatto con una corda nuova, quel poveretto morì.
Dell’atto di “sabotaggio” per cui era stato giustiziato eravamo colpevoli in molti. Quando prima ho descritto le nostre calzature, non ho menzionato il fatto che i lacci erano di un materiale di poco più resistente della carta arrotolata. Tendevano a disintegrarsi, in particolare quando erano bagnati, per cui uno arrancava finché non trovava un ricambio adeguato. Per fortuna, di solito non ci voleva molto per scovare uno o più pezzi di spago o di cavo sparsi nell’area di lavoro. Dopo gli attacchi aerei, divenne disponibile in abbondanza una risorsa nuova ed efficacissima: i fili telefonici isolati. Spesso, e sfortunatamente, un’estremità del filo era ancora attaccata al palo telefonico caduto. Poiché era evidente che era impossibile riparare tutto il sistema, non pensavamo certo che prendere un pezzo di cavo da utilizzare come laccio per le nostre calzature potesse essere considerato un atto di sabotaggio. Quell’impiccagione, però, ci portò ben presto a riconsiderare altri materiali sostitutivi. I tedeschi erano già pronti a ucciderci per capriccio; non era il caso di offrire loro ulteriori pretesti.
L’autunno cedette il passo all’inverno e il clima si fece molto freddo, con ghiaccio e neve. Durante i lunghi appelli, soffrivamo per l’ipotermia, che veniva impiegata come forma di punizione. Quello che non sapevamo, ma che suppongo i tedeschi dovessero sospettare, nonostante tutta la loro propaganda, era che i loro eserciti sul fronte orientale erano in rotta, per cui incombeva la minaccia dell’esercito russo. In effetti, l’offensiva sovietica iniziò nel Capodanno del 1945, e il 21 gennaio la nostra evacuazione da Blechhammer era già iniziata. Dopodiché, di tanto in tanto ci capitò di sentire rumori di artiglieria pesante.
Non partimmo tutti. Un mio amico si nascose in uno dei tanti cumuli di patate che si trovavano ai margini del campo. I tedeschi setacciarono a fondo le baracche, ma lanciarono solo delle granate nei condotti di ventilazione dei cumuli. Le nostre guardie sembravano avere una gran fretta di andarsene, senza dubbio immaginando a quale sorte sarebbero andati incontro, se l’esercito sovietico li avesse sorpresi mentre conducevano colonne di schiavi emaciati con indosso un pigiama a righe. I soldati russi, in particolare quelli che erano sopravvissuti all’occupazione nazista, avevano la spaventosa reputazione di compiere esecuzioni sommarie. Il mio amico non rimase ferito dalle granate e venne liberato dall’armata di Konev. Dopo la guerra, però, venni a sapere che, essendo erede di un ricchissimo produttore di locomotive, fu mandato in un campo di rieducazione sovietico.
Spesso mi sono domandato che piega avrebbe preso la mia vita, se avessi provato a nascondermi come lui.
Guardando ai risultati dal punto di vista statistico, forse la possibilità di non essere uccisi dalle granate era di pochissimo superiore a quella di sopravvivere a ciò che accadde al resto dei prigionieri. D’altronde, se fossi stato liberato dai russi, probabilmente non sarei riuscito a raggiungere mio padre in Inghilterra prima che calasse la Cortina di ferro. Ma queste sono solo speculazioni teoriche.
Per la marcia ci fu dato un pranzo al sacco: un pezzo insolitamente grande (ma pur sempre meno di un chilo, direi) del nostro solito “pane di segatura”, della margarina (che secondo me conteneva del grasso inorganico idrogenato) e un po’ di quella massa bianca artificiale bitorzoluta che veniva eufemisticamente chiamata “miele”. Può darsi che nessuno avesse previsto che la marcia sarebbe durata dodici giorni.
Così, io che ero arrivato a Blechhammer in una calda giornata estiva sul retro di un camion, con addosso i miei vestiti, ne ripartii sette mesi dopo in mezzo al gelo, arrancando faticosamente nella neve alta con ai piedi degli zoccoli di legno e, indosso, il sottile “pigiama” dei prigionieri.