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Il ghetto di Theresienstadt


Il treno ci portò a Pardubice, una cinquantina di chilometri a est di Ústí nad Orlicí. Pardubice è la capitale del distretto e possiede diversi palazzi con sale abbastanza grandi da far dormire sul pavimento un gran numero di persone. Devo ammettere di essere stato in realtà piuttosto eccitato per l’avventura, dopo molti mesi di noia. Non avevo più parlato con un altro coetaneo da quando avevo lasciato la scuola. Ora lì c’erano persino delle ragazze, e della mia età, estrazione e religione. Mi sentivo molto elegante, con un abito verde scuro ricavato dal completo da sci di mio padre. Dormimmo su materassi appoggiati in terra, in un grande salone del centro di raccolta. Ma stare tanto vicino a queste mie nuove conoscenze ebbe delle ripercussioni. Contrassi la scarlattina, e lo stesso accadde a mio fratello.

Tra i sintomi iniziali devo aver avuto una febbre molto alta, perché del nostro arrivo a Terezín e dell’accoglienza ricevuta non rammento nulla. Nel mio primo ricordo mi trovavo a letto nel reparto per bambini di un ospedale, dove ci rasarono la testa. Pensando che il nuovo taglio non mi donasse (la vanità, nel frattempo, aveva ripreso il sopravvento), improvvisai un turbante, che decorai con la spilla d’argento a forma di orso polare di mia madre.

Nelle condizioni di affollamento di Terezín, si diffusero rapidamente diverse epidemie. Nel periodo che trascorsi lì, molti bambini contrassero la scarlattina e in seguito la polio. Nel letto accanto al mio ce n’era uno piccolissimo, il cui respiro faceva il rumore di un sacchetto di carta accartocciato. Morì di polmonite pochi giorni dopo il mio ricovero. Fino ad allora avevo visto un solo cadavere in tutta la mia vita: da piccolo, una volta, avevo visto di sfuggita il corpo gonfio di un uomo affogato nella Moldava, che era stato ripescato e deposto sull’alzaia.

Quell’immagine mi aveva turbato profondamente e, da quel momento, avevo cercato di non uccidere mai alcuna creatura vivente, se potevo evitarlo. Non bruciai mai più le formiche con la lente di ingrandimento.

Ciò che mi avrebbe maggiormente sorpreso, anche se non lo scoprii che dopo la guerra, era che Terezín si trovava a sì e no trenta chilometri dal paese dove ero nato, Ústí nad Labem, nell’angolo nordorientale della Boemia, e non lontano dall’Elba, il fiume della mia infanzia felice. Progettato come una fortezza circondata da mura e da un fossato, con la pianta a forma di stella e solidi edifici a più piani per le guarnigioni, era stato costruito alla fine del XVIII secolo dall’imperatore Giuseppe II, che lo chiamò così in onore di sua madre, Maria Teresa d’Austria. Il forte era probabilmente inteso per settemila soldati o giù di lì, mentre gli abitanti del ghetto dovevano essere quasi dieci volte tanti. Questo lasciava circa due metri quadri di pavimento a persona.

Ogni stanza era congestionata da cuccette a tre piani, che lasciavano poco spazio per gli effetti personali. Per quanto fossimo profondamente traumatizzati dalla mancanza di cibo e di spazio vitale individuale, con un po’ di fortuna a Terezín si poteva sopravvivere, anche se per decine di migliaia di persone non fu così.

Terezín non assomigliava neppure lontanamente ai campi di sterminio o di lavoro. Era un centro di raccolta per Auschwitz e simili, e serviva ai nazisti come vetrina per le ispezioni della Croce rossa. Ci era permesso tenere i nostri abiti e i capelli (una volta ricresciuti, dopo essere stati dimessi dall’ospedale). C’era una sorta di autogoverno. C’erano poliziotti ebrei che indossavano cappelli simili a quelli della polizia francese. C’era il Judenrat, un consiglio di ebrei incaricato dell’apocalittico compito di selezionare le persone per la deportazione ai campi della morte, secondo quote indicate dai nazisti.

La preoccupazione principale, a Terezín, era trovare un impiego sicuro: un lavoro considerato sufficientemente importante da esentare chi lo svolgeva dal trasferimento a est. Io non avevo idea di che cosa ci aspettasse in quei campi e mi sono spesso chiesto se qualcuno ce l’avesse.

A dire il vero, sentii spesso gli adulti dire: «Non può essere molto peggio di qui!» (con il senno di poi, sembra davvero ridicolo). Ma nonostante non ne sapessimo nulla, il trasferimento era un destino da evitare, o almeno rimandare, se possibile. Mia madre si mise a fare l’infermiera, il che ci diede un intero anno, senza il quale non sarei sopravvissuto per raccontare questa storia.

Il fatto di essere stato iniziato alla vita di Terezín con un ricovero in ospedale avrebbe avuto importanti conseguenze. I bambini della mia età andavano a scuola per proseguire la loro istruzione. Ma quando fui dimesso avevo già perso quell’opportunità e dovetti andare a lavorare. A volte mi sono chiesto se il rapido fiorire della mia carriera nel dopoguerra avesse qualcosa a che fare con questa cospirazione del destino tesa a negarmi qualunque tipo di istruzione formale fra i dodici e i diciassette anni. Mio fratello, invece, andò a scuola.

Terezín vantava una fiorente vita culturale. Il luogo era, dopotutto, pieno di importanti artisti, scrittori, musicisti e brillanti intellettuali di ogni tipo. La stessa scuola metteva in scena rappresentazioni teatrali: c’erano concerti, spettacoli di cabaret e persino attività sportive di vario tipo. In cima a uno dei bastioni d’angolo fu allestito un impianto con una pista di atletica. Io riuscivo bene nella corsa e con il disco, anche se non credo che fosse uno sport adatto per degli adolescenti malnutriti. I biglietti per tutti i concerti e gli spettacoli erano molto richiesti e ambiti. Lo dico perché, per quanto cerchi di evitare di leggere alcune delle assurdità scritte sull’argomento, in una tesi di dottorato mi sono imbattuto nell’affermazione che «i reclusi erano costretti ad assistere a questi spettacoli per impressionare le delegazioni della Croce rossa in visita», un’illazione gratuita che contraddice sia i fatti che il buon senso.

Il mio primo lavoro a Terezín fu come aiuto infermiere in una clinica. Imparai a fare fasciature e a incidere ascessi: abilità essenziali, dato che la comparsa di ascessi era frequente. Avevamo una fornitura di farmaci molto limitata, ma sulle ferite infette applicavo molto violetto di genziana e unguento di zinco. Il Bolus alba era un farmaco di cui nei campi in genere c’era abbondanza. Nello scrivere questo libro, mi incuriosii e cercai gli usi in medicina di quella polvere bianca che, in effetti, era caolino. Ecco qua: «Per via orale, il caolino viene utilizzato per casi leggeri o moderati di diarrea, colera, enterite e dissenteria. Localmente, è usato per cataplasmi e in polvere, come agente essiccante e come emolliente».

È ovviamente il farmaco ideale di cui far rifornimento, sia per uso interno che topico, per chiunque intenda gestire dei campi di concentramento con un budget limitato. A

Buchenwald veniva usato in grandi quantità, in seguito alle amputazioni delle dita colpite da geloni.

Il mio lavoro prese una brutta piega quando scoppiò l’epidemia di polio e divenni un barelliere. Non solo si trattava di un lavoro molto pesante da fare all’aperto, ma il rischio di contrarre la malattia era reale e spaventoso.

In realtà non la presi: mi venne invece l’itterizia (per l’epatite A, credo). A causa delle condizioni di affollamento, le epidemie di vario tipo erano molto diffuse, anche se le conseguenze tendevano poi a essere meno gravi. L’itterizia mi lasciò per tutta la vita un’intolleranza all’alcol e la sensazione di nausea davanti alle patate marce. Devo averne mangiate durante i prodromi della malattia; dubito che ci fosse un rapporto di causa-effetto.

La primavera successiva fu deciso che ero troppo giovane per il lavoro che mi era stato assegnato (dopotutto avevo appena compiuto quindici anni) ed entrai a far parte di una squadra di orticoltura composta da ragazzi.

All’esterno, i bastioni del forte erano ricoperti di terreno ed erano stati convertiti in orti. La mia squadra lavorava sotto la supervisione di un certo signor Karplus, un ortolano professionista. Con il bel tempo era un’occupazione all’aperto pesante ma piacevole che, in più, forniva un utile apprendistato e la possibilità di sottrarre di nascosto un’occasionale cavolo, se uno si sentiva abbastanza coraggioso da passare davanti alle guardie sfoggiando un’improbabile gravidanza.

Per buona parte del tempo fui assegnato a un dormitorio per ragazzi di età tra i quattordici e i diciotto anni.

Dividevo una cuccetta intermedia con Walter, che aveva circa due anni più di me e aveva l’infausto vizio di toccare in modo inappropriato, come si direbbe oggi.

L’approccio era troppo esitante e delicato, immagino, per essere definito abuso, ma io lo detestavo e continuavo a dirglielo. Un giorno, mentre ci stavamo vestendo vicino alla cuccetta per andare al lavoro, tentò di allungare le mani e io mi infuriai al punto da colpirlo in volto con tanta forza da farlo cadere all’indietro su un appendiabiti. Non cercò di vendicarsi, anche se era un bel po’ più grosso di me. Quell’episodio segnò invece la fine dei suoi sforzi di sedurmi, ma anche di ogni comunicazione fra di noi.

Ripensandoci, mi dispiacque che gli fosse capitata la sfortuna di un compagno di letto all’estremo opposto dello spettro sessuale e, date le circostanze, totalmente disinteressato al sesso. Ma sembra che gli omosessuali mi abbiano sempre trovato attraente, il che si rivelò essere in seguito un altro di quei fattori che mi salvarono la vita.

Il mio migliore amico, a livello puramente intellettuale, era Kurt, un allampanato poeta diciottenne patito della filosofia di Hegel, che aveva poco tempo per lavarsi e sbarbarsi e nel dormitorio tendeva a essere vittima di soprusi. Era alto il doppio di me, ma i soprusi non erano fisici. Il fatto che io volessi leggere quello che aveva scritto e ascoltassi serio il suo filosofeggiare era chiaramente un conforto, per lui.

Prima di lasciare Terezín ebbi un’altra emergenza medica, risultato di un desiderio profondamente frustrato di un po’ di spazio tutto mio in cui conservare qualche piccolo amato effetto personale. Stavo cercando di scavarmi nella cuccetta un angolino non più grande di un mattone, proprio sopra la mia testa. Mi aveva incoraggiato la facilità con cui ero riuscito a penetrare i primi tre o quattro centimetri di intonaco, quando incontrai la pietra dura. Da lì in poi fu molto difficile e, mentre continuavo a scavare, all’improvviso sentii un colpo, come se qualcosa mi avesse centrato in un occhio. Non ci pensai più, fino a che non sviluppai un’infiammazione persistente. Ora, per coloro che scrivono tesi basate su congetture a proposito di Terezín può essere una sorpresa che si potesse andare da un chirurgo oculista competente e farsi rimuovere, sotto anestesia locale, una scheggia di granito che aveva penetrato la cornea. Più tardi, nei campi di Auschwitz, un prigioniero naturalmente non avrebbe mai ammesso di essere malato, per paura di essere mandato nelle camere a gas. Ancora oggi, quando mi faccio visitare gli occhi, mi chiedono sempre come mi sono procurato quella profonda lacerazione (e a quel punto devo rispondere: «È una lunga storia»).

Andavo a trovare mia madre ogni volta che potevo. In un’occasione ci recammo insieme a far visita a zia Else e sedemmo al riparo di un albero sotto una pioggerellina fine: fu un incontro triste. Lei era stata deportata da Praga con suo padre molto tempo prima e, quando noi arrivammo, il nonno era già morto. Mi consolai con il pensiero che almeno era vissuto fino in tarda età. Quella fu anche l’ultima volta che vidi zia Else; fu deportata ad Auschwitz con il convoglio successivo e non so che cosa le accadde.

Immagino che mia madre non fosse convenzionalmente bella (al contrario di zia Else, per inciso, che veniva notata per il suo aspetto), ma aveva una forte personalità ed era molto vivace, e non era mai a corto di ammiratori.

Il suo primo amico a Terezín faceva il panettiere.

Lavorare come panettiere qualificato in un forno era un impiego sicuro. Immagino che medici, avvocati e altri professionisti del ceto medio non scarseggiassero, ma i panettieri ebrei erano preziosi. Alzarsi a un’ora assurda del mattino per infilare pagnotte in un forno caldo: che razza di lavoro è, per un bravo ragazzo ebreo? Non avevo una gran opinione di quell’uomo, perché lo consideravo troppo vecchio e brutto per mia madre, che trovavo meravigliosa, ma lui si presentava sempre con una pagnotta di pane avanzata per noi. Sospetto che mia madre mantenesse l’amicizia per il nostro bene.

In breve divenne infermiera in un ospedale psichiatrico.

Anche quel lavoro era sicuro, almeno all’inizio. Come si può immaginare, c’erano moltissimi pazienti con disturbi mentali, ricoverati in appositi reparti ricavati dalle gallerie sotto il bastione adiacente al fossato. Feci visita solo una volta a quelle corsie puzzolenti che erano diventate il centro dell’attività di mia madre e non ripetei mai più una simile esperienza. In quel periodo lei fece amicizia con un collega, che forse aveva avuto un ruolo fin dall’inizio nel farle ottenere il lavoro. Era un personaggio interessante: ammiratore della filosofia stoica, credeva che la forza più grande dell’umanità consistesse nella capacità di commettere suicidio quando la vita si faceva intollerabile. Fu deportato ad Auschwitz sei mesi prima di noi, ma non si uccise fino a che non vi arrivò mia madre. Alla fine credo di aver capito come il suo orgoglio abbia reso inevitabile tale atto.

In seguito mi chiesi come mai occupazioni come quella dell’infermiera psichiatrica, che all’inizio proteggevano chi le praticava dal trasferimento, più tardi abbiano smesso di avere quell’effetto. Si dava per scontato, per esempio, che i membri dello Judenrat, i poliziotti e altri alti ufficiali sarebbero stati esenti, finché in servizio.

Immagino che, siccome tutte quelle organizzazioni tendevano a proliferare, alla fine le persone ai margini dell’ambito del lavoro sicuro avessero dovuto essere sacrificate. Non ho riscontri a sostegno di questa congettura, a parte la mia esperienza di come si sviluppano le gerarchie amministrative.

Le persone selezionate per il trasferimento venivano prima radunate in una piazza d’armi che stava al centro degli edifici a più piani. Gli amici potevano salutare e urlare messaggi dai corridoi dei piani superiori, mentre il pianterreno era isolato da guardie della Wehrmacht. Alla fine, toccò a noi. Dopo quasi un anno a Terezín, il nostro tempo era scaduto e fummo scortati ai vagoni bestiame del treno che portava ad Auschwitz.