Il giudice Comyn si sistemò comodamente nel posto d'angolo dello scompartimento di prima classe, aprì l''Irish Times", diede un'occhiata ai titoli di testa e si mise il giornale in grembo.
Avrebbe avuto tutto il tempo di leggerlo durante il lungo viaggio di quattro ore fino a Tralee. Guardò distrattamente, fuori del finestrino, il trambusto della stazione di Kingsbridge negli ultimi minuti prima della partenza del treno Dublino-Tralee che, a velocità moderata, lo avrebbe portato al suo lavoro nella cittadina principale della contea di Kerry.
Sperò, in modo vago, di avere lo scompartimento tutto per sé, per poter sbrigare alcune pratiche.
Ma non doveva essere così. Questa riflessione gli era appena passata nella mente, che la porta dello scompartimento venne aperta e qualcuno entrò. Egli evitò di guardare. La porta si richiuse scorrendo e il nuovo arrivato gettò una valigetta a mano sulla reticella portabagagli, poi sedette di fronte a lui, al di là del lucido tavolino di noce.
Il giudice Comyn gli diede un'occhiata. Il suo compagno di viaggio era un ometto esile, con un ciuffo ribelle di capelli color sabbia ritto sopra la fronte e occhi castani, i più malinconici e i più umili occhi che si possano immaginare. Indossava un vestito di stoffa pesante, pelosa, con panciotto e cravatta di maglia. Il giudice ritenne che avesse un lavoro collegato, in qualche modo, ai cavalli, o fosse un impiegatuccio, e ricominciò a guardare fuori del finestrino.
Udì il grido del ferroviere, sul marciapiede, al macchinista della vecchia locomotiva a vapore sbuffante in testa al convoglio, e poi il suono stridulo del fischietto. Nel momento stesso in cui la locomotiva emetteva il primo possente "ciuff" e il vagone cominciava a spostarsi in avanti con un sussulto, una robusta sagoma in corsa, vestita completamente di nero, saettò davanti al finestrino. Il giudice udì lo schianto dello sportello spalancato pochi metri più in là e il tonfo di un corpo che balzava nel corridoio. Pochi secondi dopo, con un accompagnamento di ansiti e sbuffamenti, la sagoma in nero apparve sulla soglia dello scompartimento e si lasciò cadere con sollievo nel posto d'angolo all'altro lato.
Il giudice Comyn sbirciò una seconda volta. Il nuovo arrivato era un prete dalla faccia rubiconda. Il giudice tornò a guardare fuori del finestrino; non desiderava attaccare discorso, essendo piuttosto riservato.
«Per tutti i santi, ci è mancato poco che perdessimo il treno, eh, Padre?» udì dire dall'ometto.
L'ecclesiastico sbuffò nuovamente.
«Ci è mancato tanto poco che mi manca il respiro, figlio mio» rispose il prete.
Dopodiché, grazie al cielo, tacquero. Il giudice Comyn vide la stazione di Kingsbridge scivolar via, scomparire per essere sostituita dalle poco edificanti file di case nere di fumo che, a quei tempi, formavano i sobborghi occidentali di Dublino. La locomotiva della Great Southern Raylway Company acquistò velocità e il ritmo ticchettante delle ruote sulle rotaie divenne più rapido. Il giudice Comyn riprese il giornale.
Il titolo di testa e l'articolo di fondo riferivano che il Primo ministro, Eamonn de Valera, il giorno prima, nella Dail3, aveva dato tutto il proprio appoggio al Ministro dell'Agricoltura a proposito del prezzo delle patate. Molto più in basso, e quasi in fondo alla pagina, figurava un breve accenno al fatto che un certo signor Hitler si era impadronito dell'Austria. Il direttore del giornale era un uomo che aveva un'idea ben chiara delle precedenze, pensò il giudice Comyn. Trovò ben poco di più che lo interessasse e, dopo cinque minuti, ripiegò il giornale, tolse un fascio di documenti legali dalla borsa di cuoio e cominciò a esaminarli. I verdi campi di Kildare saettarono al di là dei finestrini, mentre si allontanavano da Dublino.
«Signore» disse una voce timida di fronte a lui. Oh, santo Cielo, egli pensò, ha voglia di parlare. Alzò lo sguardo verso i supplichevoli occhi da cocker spaniel dell'uomo che gli sedeva davanti.
«Le spiacerebbe se adoperassi parte del tavolino?» domandò l'altro.
«Affatto» rispose il giudice.
«Grazie, signore» disse l'uomo, con un chiaro accento del sud-ovest del paese.
Il giudice ricominciò a studiare i documenti relativi alla conclusione di una complessa causa civile che egli avrebbe dovuto giudicare non appena tornato a Dublino da Tralee. Immaginava che il viaggio nella contea di Kerry, come giudice itinerante per presiedere le udienze che si svolgevano là ogni tre mesi, non gli avrebbe riservato simili complicazioni. In quei tribunali locali, stando alla sua esperienza, le giurie dovevano decidere soltanto in merito alle vertenze più semplici, eppure non di rado, pronunciavano verdetti di una illogicità sbalorditiva.
Non si diede la pena di alzare gli occhi quando l'ometto si tolse di tasca un mazzo di carte da giuoco non troppo pulite e si accinse a disporle per un solitario. La sua attenzione venne attirata soltanto pochi secondi dopo da un suono chiocciante. Alzò di nuovo gli occhi.
L'uomo esile teneva la lingua tra i denti compiendo uno sforzo di somma concentrazione? era questo a produrre il suono chiocciante? e stava fissando le carte scoperte in fondo a ciascuna fila. Al giudice Comyn bastò un'occhiata per notare che un nove rosso non era stato sovrapposto a un dieci nero, sebbene entrambe le carte fossero ben visibili. L'omino, essendogli sfuggito l'accoppiamento, cominciò a disporre altre tre carte. Il giudice Comyn represse l'irritazione e tornò a dedicarsi ai documenti legali. La cosa non mi riguarda, si disse.
Ma c'è qualcosa di ipnotico in una persona che fa il solitario, e tanto più quando gioca male. Entro cinque minuti, la concentrazione del giudice sulla causa civile era andata a farsi benedire ed egli stava fissando le carte scoperte. Infine non riuscì più a resistere. C'era una colonna vuota sulla destra e, ciononostante, nella terza colonna restava un re scoperto che avrebbe dovuto occupare il posto libero. Egli tossicchiò. L'ometto alzò gli occhi, allarmato. «Il re» disse il giudice, con dolcezza, «dovrebbe andare nel posto vuoto.»
Il giocatore abbassò gli occhi, si rese conto della possibilità e spostò il re. A questo punto la carta che poté voltare risultò essere una regina e andò ad accompagnarsi al re. Prima di terminare, aveva fatto legittimamente sette mosse. La colonna che iniziava con il re finiva adesso con un dieci.
«E il nove rosso» disse il giudice. «Ora può essere spostato.»
Il nove rosso e le sei carte successive passarono sul nove. Un'altra carta poté essere scoperta; un asso, che finì in alto sopra il giuoco.
«Credo proprio che ora riuscirà a finire» disse il giudice.
«Ah, non io, signore» disse l'ometto, scuotendo la testa, con quei tristi occhi da cocker spaniel. «Non sono mai riuscito a terminare un solitario in tutta la mia vita, questo è certo.»
«Continui a giocare, continui a giocare» disse il giudice Comyn, con crescente interesse. E, con il suo aiuto, il gioco venne effettivamente portato a termine. L'omino contemplò meravigliato il solitario risolto.
«Ecco, ha visto? Ci è riuscito» disse il giudice.
«Ah, ma non senza l'aiuto di vostro onore» disse il tipo dagli occhi tristi. «Lei è davvero molto abile con le carte, signore.»
Comyn si domandò se l'ometto potesse mai sapere che lui era un giudice, ma poi giunse alla conclusione che occhi-malinconici si era limitato a servirsi di una formula diffusa a quei tempi in Irlanda per rivolgersi a persone degne di rispetto.
Persino il prete aveva abbassato la raccolta di prediche del defunto, grande Cardinale Newman, e stava fissando le carte.
«Oh» disse il giudice, che giocava un po' al bridge e al poker con gli amici del Kildare Street Club, «non proprio.»
Dentro di sé, andava abbastanza fiero della propria teoria secondo cui una valida mente giuridica, con la lunga pratica in fatto di osservazione, e a forza di esercitare le capacità deduttive e la memoria, era sempre in grado di giocare un'ottima partita a carte.
L'ometto smise di giocare e cominciò oziosamente a distribuire mani di cinque carte, che esaminò, poi, prima di rimettere le carte stesse nel mazzo. Infine posò il mazzo. Sospirò.
«È lungo il viaggio fino a Tralee» disse malinconicamente.
Rievocando le circostanze, il giudice Comyn non riuscì mai a ricordare chi, precisamente, avesse pronunciato la parola poker, ma sospettò sempre di poter essere stato proprio lui.
In ogni modo, prese il mazzo di carte e distribuì alcune mani a se stesso. Una di esse, fu lieto di constatarlo, era un full, di fanti e dieci.
Con un mezzo sorriso, quasi fosse stupito dalla propria audacia, occhimalinconici prese una delle mani e la tenne di fronte a sé.
«Scommetto, signore, un penny immaginario, che lei non riuscirà a distribuirsi una mano migliore di questa.»
«Ci sto» disse il giudice, e distribuì una seconda mano che, a sua volta, tenne di fronte a sé. Non era un full, ma comprendeva due nove.
«Pronto?» domandò il giudice Comyn. L'ometto annuì. Scoprirono le carte. Occhi tristi aveva tre cinque.
«Ah» fece il giudice, «ma io non ho chiesto altre carte, com'era nel mio diritto. Riproviamo, caro il mio uomo.»
Riprovarono. Questa volta l'ometto chiese altre tre carte e il giudice due. Risultò che la mano migliore era del giudice.
«Mi sono rifatto del penny immaginario» disse quest'ultimo.
«È vero, signore» disse l'altro. «Aveva un'ottima mano. Lei è tagliato per giocare a carte. Oh, sì, me ne sono reso conto, sebbene io non lo sia. Proprio così, signore. È proprio tagliato per le carte.»
«Si tratta semplicemente di limpide capacità deduttive e di rischio calcolato» lo corresse il giudice Comyn.
A questo punto si presentarono; soltanto i cognomi, come si usava a quei tempi. Il giudice omise il titolo, limitandosi a dire che si chiamava Comyn, e l'altro rivelò che il suo cognome era O'Connor. Cinque minuti dopo, tra Sallis e Kildare, tentarono una piccola partita a poker amichevole. Mani di cinque carte parvero la cosa più opportuna e non fu necessario dirlo. Naturalmente, non giocavano a soldi.
«Il guaio è» disse O'Connor, dopo la terza mano, «che non riesco a ricordare chi ha puntato e quanto. Vostro onore ha la sua bella memoria che lo aiuta.»
«Ho trovato» disse il giudice Comyn trionfante, e cercò nella borsa di cuoio una grossa scatola di fiammiferi. Gli piaceva fumare un sigaro dopo colazione, e un altro dopo cena, e mai e poi mai si sarebbe servito di un accendino a benzina per un buon sigaro Avana.
«È proprio quel che ci vuole» disse O'Connor, meravigliato, mentre il giudice distribuiva venti fiammiferi a testa. Giocarono una dozzina di mani, divertendosi notevolmente e perdendo e vincendo all'incirca nella stessa misura. Ma non è bello giocare a poker in due, poiché, se uno dei giocatori, avendo una brutta mano, "passa", il gioco è finito anche per l'altro. Subito dopo la cittadina di Kildare, O'Connor domandò al prete: «Padre, non vorrebbe unirsi a noi?».
«Oh, temo proprio di no» disse il prete rubicondo, con una risata, «perché non sono fatto per le carte. Sebbene» soggiunse, «un tempo abbia giocato un po' a whist, con i ragazzi in seminario.»
«Il principio è lo stesso, Padre» disse il giudice. «E, una volta imparato, non lo si dimentica mai. Le viene distribuita, semplicemente, una mano di cinque carte; può chiederne altre, fino a cinque, se non è soddisfatto di quelle avute. Poi lei stabilisce se la mano di cui dispone è buona o no. Se è buona, punta ritenendo che sia migliore delle nostre, altrimenti rifiuta di puntare e passa.»
«Non so bene se sia lecito giocare d'azzardo» disse il prete, dubbioso.
«Ma si tratta soltanto di fiammiferi, Padre» gli fece osservare O'Connor.
«Non si cerca di imbrogliare?» domandò il prete.
O'Connor inarcò le sopracciglia. Il giudice Comyn rise con una certa aria condiscendente.
«Non ci sono imbrogli» disse. «Ma la mano che lei ha, viene valutata secondo una precisa scala di valori. Guardi.»
Frugò nella borsa e ne tolse un foglio di carta bianca rigata. Dalla tasca interna della giacca sfilò una matita. Poi prese a scrivere sul foglio.
Il prete allungò il collo per vedere.
«Al primo posto dell'elenco» disse il giudice, «viene la scala reale, vale a dire cinque carte dello stesso seme, tutte in sequenza cominciando dall'asso. Poiché debbono essere in sequenza, questo significa, naturalmente, che le altre carte sono il re, la regina, il fante e il dieci.»
«Già, penso di si» disse il prete, con circospezione.
«Poi vengono quattro carte dello stesso valore, il poker» continuò il giudice, scrivendo le parole sotto la scala reale. «Significa esattamente quello che ho detto. Quattro assi, quattro re, quattro regine, e giù giù, fino a quattro due. Lasci perdere la quinta carta. E, naturalmente, quattro assi valgono più di quattro re, o di ogni altra cosa, è chiaro?»
Il prete annuì.
«Poi viene il full» disse O'Connor.
«Non proprio» lo corresse il giudice Comyn. «Viene prima il colore, amico mio.»
O'Connor si batté la mano sulla fronte, come chi riconosce di essere stupido. «Ma certo, è vero» esclamò. «Vede, Padre, il colore è come la scala reale, solo che non è preceduto da un asso. Ma le cinque carte devono essere dello stesso seme.»
Il giudice scrisse questa descrizione sotto la parola "poker".
«E adesso è la volta del full di O'Connor, che significa tre carte dello stesso valore e altre due di un altro valore. Se le tre carte sono dieci e le altre due regine, si ha un full di regine.»
Il prete annuì nuovamente.
Il giudice continuò a scrivere l'elenco, spiegando ciascuna mano, da "scala" a "tris", a "doppia coppia", a "una coppia".
«Oh» disse, quando ebbe terminato, «naturalmente, una sola coppia, o un asso, o una mano di carte tutte diverse, valgono tanto poco che non è il caso di puntare.»
Il Padre osservò l'elenco. «Potrei usarlo come promemoria?»
domandò.
«Ma certo» disse il giudice Comyn, «lo tenga pure accanto a sé, Padre, senz'altro.»
«Bene, visto che si gioca soltanto per dei fiammiferi...» disse il prete, e gli vennero distribuite le carte. Il gioco d'azzardo amichevole, in fin dei conti, non è un peccato. Non quando si vincono fiammiferi. Divisero i fiammiferi in tre parti uguali e cominciarono a giocare.
Durante le prime due mani il prete passò subito, osservando gli altri che puntavano. Il giudice vinse quattro fiammiferi. Alla terza mano, il Padre si illuminò in viso.
«Non è una buona mano?» domandò, mostrandola agli altri due.
Effettivamente era buona davvero: un full, di fanti e re. Il giudice posò le carte, esasperato.
«Sì, è ottima, Padre» disse O'Connor, con pazienza, «ma non deve farci vedere le carte che ha, non se ne rende conto? Infatti, sapendo quello di cui lei dispone, noi non puntiamo niente se la nostra mano non è buona quanto la sua. Le carte che le capitano dovrebbero essere... be', sì, un segreto, come quello del confessionale.» Per il prete questo ragionamento fu chiarissimo. «Come il segreto del confessionale» egli ripeté. «Sì, capisco. Non una parola a nessuno, eh?»
Si scusò e ricominciarono. In un'ora, fino a Thurles, giocarono quindici mani, e il mucchietto di fiammiferi del giudice continuò a crescere. Il prete era quasi pulito, e O'Connor aveva un mucchietto ridotto a metà. Faceva troppi errori; quanto al buon padre, egli sembrava quasi in alto mare; soltanto il giudice giocava un poker serio e calcolatore, valutando le scelte e le probabilità, grazie alla lunga pratica nei tribunali. Il gioco confermava la sua teoria, dell'intelligenza che prevale sulla fortuna. Subito dopo Thurles, parve che i pensieri di O'Connor stessero vagando altrove. Il giudice dovette invitarlo due volte a prestare attenzione al gioco.
«Temo che non sia molto interessante giocare con dei fiammiferi» confessò lui, dopo la seconda volta. «Se smettessimo?»
«Oh, ammetto che mi sto proprio divertendo» disse il giudice. Quasi tutti coloro che vincono apprezzano il gioco.
«Oppure potremmo rendere la cosa più interessante» disse O'Connor, in tono di scusa. «Io per natura non sono portato per il gioco d'azzardo, ma se ci limitassimo a pochi scellini non ci sarebbe niente di male.»
«Se proprio ci tiene» disse il giudice. «Le faccio notare, però, che ha perduto non pochi fiammiferi.»
«Ah, Vostro onore, la fortuna dovrà presto cambiare» disse O'Connor, con il suo sorriso da elfo.
«Allora io devo ritirarmi» disse il prete, con decisione. «Temo infatti di avere soltanto tre sterline nel borsellino, e devono durarmi per tutto il periodo di vacanze con mia madre a Dingle.»
«Ma, Padre» gli fece osservare O'Connor, «senza di lei non potremmo giocare. E per pochi scellini...»
«Anche pochi scellini, figlio mio, sono troppi per me» disse il prete.
«La Santa Madre Chiesa non è fatta per coloro che vogliono avere denaro sonante in tasca.»
«Un momento» disse il giudice, «ho trovato. Lei e io, O'Connor, ci divideremo i fiammiferi. Poi ognuno di noi presterà al buon Padre un ugual numero dei fiammiferi stessi, che per il momento non valgono nulla. Se perderà, non pretenderemo quanto ci spetta. Se vincerà, ci restituirà i fiammiferi che gli avremo prestato e beneficerà di quelli in più.»
«Ma questo è geniale, Vostro onore!» esclamò O'Connor, col tono di massimo stupore.
«Ma non potrei giocare d'azzardo per denaro» protestò il prete.
Seguì, per qualche momento, un tetro silenzio.
«A meno che le vincite non vadano alla Chiesa, per opere di carità» suggerì O'Connor. «Senza dubbio, il buon Dio non avrebbe niente da ridire su questo, no?»
«Sarebbe il Vescovo ad aver da ridire» ribatté il prete, «ed è molto probabile che mi incontri prima con lui. Ciononostante... c'è, sì, l'orfanotrofio, a Dingle. Mia madre vi cucina i pasti, e i poveri orfanelli patiscono un gran freddo durante l'inverno, dato il prezzo della torba...»
«Una donazione» gridò il giudice, in tono trionfante. Poi si rivolse ai due stupiti compagni. «Qualsiasi somma potrà vincere il Padre, in più di quanto gli presteremo, sarà la nostra comune offerta all'orfanotrofio. Che cosa ve ne pare?»
«Presumo che anche il nostro Vescovo non avrebbe da ridire contro una donazione all'orfanotrofio...» disse il prete.
«E la donazione sarà il nostro compenso in cambio della sua partecipazione alla partita a carte» disse O'Connor. «È perfetto.»
Il prete si dichiarò d'accordo e ricominciarono. Il giudice e O'Connor divisero i fiammiferi in due mucchietti. O'Connor fece notare che, con meno di cinquanta fiammiferi, sarebbero potuti restare senza gettoni. Il giudice risolse anche questa difficoltà. Spezzarono i fiammiferi in due; le metà con la capocchia di fosforo valevano il doppio delle altre.
O'Connor confessò che aveva in tasca il denaro per il suo periodo di vacanza, vale a dire più di trenta sterline, e che avrebbe puntato entro tale limite. Né lui né il prete si sarebbero sognati di rifiutare un assegno di Comyn; era talmente evidente che si trattava di un gentiluomo! Ciò fatto, prestarono al prete dieci mezzi fiammiferi con la capocchia e quattro senza, contribuendo ciascuno per la metà.
«E adesso» disse il giudice, mentre mescolava le carte, «quale sarà il valore dei gettoni?»
O'Connor prese tra le dita un mezzo fiammifero senza capocchia e lo mostrò. «Dieci scellini?» propose. Questo sconcertò un pochino il giudice. I quaranta fiammiferi che egli aveva tolto dalla scatola erano adesso, divisi in due, ottanta, e rappresentavano un valore di sessanta sterline, una somma cospicua nel 1938. Il prete aveva davanti a sé dodici sterline, gli altri due uomini ventiquattro sterline per ciascuno. Il giudice udì il Padre sospirare.
«Ci sono stato per un penny e dovrò starci per una sterlina. Che Dio mi aiuti» disse il prete.
Il giudice annuì bruscamente.
Avrebbe potuto fare a meno di preoccuparsi. Vinse le prime due mani e quasi dieci sterline. Alla terza mano, O'Connor passò subito, perdendo i suoi dieci scellini. Il prete puntò quattro dei suoi fiammiferi da una sterlina. Il giudice Comyn osservò la propria mano; aveva un full, tre fanti e due sette. Non poteva non vincere. Al prete rimanevano soltanto sette sterline.
«Vedo le sue quattro sterline, Padre» disse, spingendo i fiammiferi verso il piatto, «e rilancio di cinque sterline.»
«Oh, povero me» disse il Padre, «sono quasi all'asciutto. Che cosa posso fare?»
«Una sola cosa» disse O'Connor, «se non vuole che il signor Comyn rilanci ancora fino a una somma che lei non può coprire. Metta nel piatto cinque sterline e chieda di vedere le carte.»
«Vedrò le carte» disse il prete, come se stesse recitando un rituale, mentre spingeva avanti cinque fiammiferi con la capocchia. Il giudice scoprì il full e aspettò. Il prete scoprì quattro dieci. Riebbe le sue nove sterline, più le nove del giudice, più i trenta scellini. Tenendo conto delle due sterline rimastegli, disponeva adesso di ventuno sterline e dieci scellini.
In questo modo giunsero al raccordo di Limerick che, come si addice al sistema ferroviario irlandese, non si trova affatto vicino a Limerick, ma subito alla periferia di Tipperary. Lì il treno oltrepassò il marciapiede principale, per poi fare marcia indietro, in quanto non esisteva uno scambio prima della stazione. Alcune persone scesero e altre salirono, ma nessuna disturbò la partita o entrò nello scompartimento.
Quando giunsero a Charleville, il prete aveva vinto dieci sterline di O'Connor, che sembrava preoccupato, e il ritmo del gioco rallentò.
O'Connor tendeva a passare troppo rapidamente e troppe mani terminavano con un secondo giocatore che passava a sua volta. Subito prima di Mallow, di comune accordo, decisero di eliminare tutte le carte di minor valore, lasciando soltanto quelle dal sette in su, per cui il mazzo venne a essere formato da trentadue carte. La partita ridivenne allora animata.
A Headford, il povero O'Connor era ridotto a dodici sterline e il giudice a venti, avendo entrambi perduto con il prete.
«Non sarebbe una buona idea se restituissi adesso le dodici sterline con le quali ho cominciato?» domandò il Padre.
Gli altri due si dichiararono d'accordo e riebbero i loro prestiti di sei sterline. Al prete restavano ancora trentadue sterline con cui puntare.
O'Connor continuò a giocare cautamente, puntando forte una sola volta e vincendo dieci sterline con un full che risultò superiore a una doppia coppia e a un colore. I laghi di Killarney passarono davanti al finestrino senza essere ammirati.
Dopo Farranfore, il giudice si rese conto di avere la mano che aspettava da tempo. Dopo avere chiesto tre carte, contemplò deliziato quattro regine e un sette di fiori. Anche O'Connor dovette ritenere di avere una buona mano, poiché ci stette quando il giudice vide le cinque sterline del prete e rilanciò di altre cinque sterline. Allorché il Padre coprì le cinque sterline e rilanciò di altre dieci, O'Connor si perdette d'animo e passò. Ancora una volta era in perdita di dodici sterline rispetto all'inizio della partita.
Il giudice si rosicchiò l'unghia del pollice. Poi coprì le dieci sterline del prete e rilanciò ancora di dieci.
«Cinque minuti a Tralee» disse il controllore, facendo capolino alla porta dello scompartimento. Il Padre fissò, sgomento, i fiammiferi al centro del tavolo e il proprio misero mucchietto che rappresentava dodici sterline.
«Non so che cosa fare» disse. «Oh, Signore, non so che cosa fare.»
«Padre» disse O'Connor, «non può più rilanciare, dovrà starci e chiedere di vedere le carte.»
«Suppongo di sì» disse il prete, malinconicamente, spingendo verso il piatto dieci sterline in fiammiferi, e restando con due sterline. «E dire che mi stava andando così bene. Avrei dovuto lasciare per l'orfanotrofio le trentadue sterline finché le avevo. Ora mi restano soltanto due sterline per i poveri orfanelli.»
«Le arrotonderò a cinque sterline, Padre» disse il giudice Comyn. «Ecco qui. Quattro regine.»
O'Connor sibilò. Il prete contemplò le quattro regine scoperte, poi sbirciò la propria mano.
«I re non valgono più delle regine?» domandò, interdetto.
«Valgono di più se ne ha quattro» disse il giudice.
Il prete mise le carte scoperte sul tavolino.
«Ma li ho» disse. E li aveva. «Sia lodato il Signore» disse, «ma credevo che tutto fosse perduto. Credevo che lei avesse, com'è che si chiama, la cosa reale.»
Misero via carte e fiammiferi mentre entravano nella cittadina di Tralee. O'Connor riebbe le sue carte. Il giudice mise nel posacenere i fiammiferi spezzati in due. O'Connor si tolse di tasca dodici banconote da una sterlina, le contò e le porse al prete.
«Dio la benedica, figlio mio» disse il Padre.
Il giudice Comyn, con rammarico, tolse dal portafoglio il libretto degli assegni. «Sono esattamente cinquanta sterline, credo, Padre» disse.
«Se lo dice lei» rispose il prete. «Io non ricordo neppure più con che cosa avevamo cominciato.»
«Le assicuro che devo cinquanta sterline all'orfanotrofio» disse il giudice. E si accinse a riempire l'assegno. «Orfanotrofio di Dingle, ha detto? È questo che dovrei scrivere?»
Il prete parve perplesso.
«Sa, credo che non abbiano nemmeno un conto in banca, tanto l'orfanotrofio è piccolo» disse.
«Allora farò meglio a intestarlo a lei personalmente» disse il giudice, aspettando di sapere come si chiamasse il sacerdote.
«Ma nemmeno io ho un conto in banca» disse il prete, smarrito. «Non ho mai maneggiato denaro.»
«C'è una via di uscita» disse il giudice, compito. Riempì rapidamente l'assegno, lo staccò dal libretto e lo porse al prete. «Questo è pagabile al portatore. La Banca d'Irlanda, a Tralee le verserà la somma, e siamo giusto in tempo. Chiudono tra mezz'ora.»
«Vuol dire che mi daranno il danaro, in banca, in cambio di questo?» domandò il prete, tenendo con cautela l'assegno tra le dita.
«Senz'altro» rispose il giudice, «ma stia attento a non perderlo. È pagabile ai portatore e pertanto chiunque lo possedesse potrebbe incassarlo. Bene, O'Connor, Padre, è stato un viaggio interessantissimo, anche se dispendioso. Ora devo augurarvi una buona giornata.»
«E io pure» disse O'Connor, malinconicamente. «Deve essere stato il buon Dio a distribuirle le carte, Padre. Di rado mi è capitato di vedere una mano simile. Ma sarà una buona lezione per me. Mai più giocherò a carte in treno, e meno che mai con un ecclesiastico.»
«E io farò in modo che il denaro vada al più meritevole degli orfanotrofi prima del tramonto del sole» disse il prete.
Si separarono sul marciapiede della stazione di Tralee e il giudice Comyn si recò all'albergo. Voleva coricarsi presto per essere ben riposato all'inizio delle udienze, l'indomani mattina.
I primi due casi della mattinata risultarono essere molto semplici, in quanto gli imputati si riconobbero colpevoli di reati di minor conto, ed egli comminò multe a entrambi. I giurati di Tralee sedevano in ozio.
Il giudice Comyn teneva la testa china sulle sue scartoffie quando venne chiamato il terzo imputato. Soltanto la sommità della parrucca del giudice rimaneva visibile dall'aula, più in basso.
«Si introduca Ronan Quirk O'Connor» tuonò il cancelliere nell'aula.
Ci fu un fruscio di passi. Il giudice continuò a scrivere.
«Lei è Ronan Quirk O'Connor?» domandò il cancelliere al nuovo imputato.
«Sì» rispose una voce.
«Ronan Quirk O'Connor» disse il cancelliere, «è accusato di avere barato al gioco, violando l'articolo 17 della legge del 1845 sul gioco d'azzardo. Per il fatto che lei, Ronan Quirk O'Connor, il giorno 13 di maggio del presente anno, nella contea di Kerry, con la frode, o con espedienti disonesti o con astuzie illecite, giocando a carte, truffò una somma di denaro alla parte lesa, Lurgan Keane. E pertanto illegittimamente sottrasse la predetta somma al già nominato Lurgan Keane. Che cosa risponde all'accusa? Si dichiara colpevole o non colpevole?»
Durante questa cantilena, il giudice Comyn aveva posato la penna con inconsueta cautela, e fissato per alcuni altri secondi ancora i documenti, quasi desiderasse di poter condurre in quel modo l'intero dibattimento.
Infine alzò lo sguardo. L'ometto smilzo, con gli occhi da cocker spaniel, lo fissò a sua volta, dall'aula, con ammutolito stupore. Il giudice Comyn stava osservando l'imputato ugualmente inorridito.
«Non colpevole» bisbigliò O'Connor.
«Un momento» disse il giudice. Nell'aula tutti sedevano silenziosi, guardandolo mentre egli rimaneva impassibile al suo posto. Dietro la maschera della faccia, i suoi pensieri erano in tumulto. Avrebbe potuto sospendere immediatamente la causa dicendo che conosceva l'imputato.
Poi pensò che ciò avrebbe significato un nuovo processo, in quanto l'imputato era stato ormai formalmente incriminato, con tutte le spese in più, per i contribuenti, causate da una simile procedura. Tutto si riduceva, disse a se stesso, a un interrogativo: poteva avere la certezza di essere in grado di condurre la causa con giustizia ed equità, e di riassumerla alla giuria in modo veridico e giusto? Decise di poterne essere certo.
«Faccia pronunciare la formula del giuramento alla giuria, per favore» disse.
Il cancelliere eseguì l'ordine, poi domandò a O'Connor se avesse un difensore. O'Connor rispose che non lo aveva e che desiderava difendersi da solo. Il giudice Comyn imprecò tra sé e sé; l'equità richiedeva adesso che egli prendesse le parti dell'imputato contro il rappresentante della pubblica accusa.
Il gentiluomo in questione si alzò, a questo punto, per esporre i fatti che, disse, erano abbastanza semplici. Il 13 maggio, un droghiere di Tralee, certo Lurgan Keane, era salito a Dublino sul treno diretto a Tralee, per fare ritorno a casa. Si dava il caso che avesse una somma cospicua in contanti, vale a dire settantuno sterline.
Durante il viaggio aveva cominciato a giocare d'azzardo con l'imputato e con una terza persona, servendosi di un mazzo di carte che apparteneva all'imputato. Le perdite da lui subite erano state così ingenti da insospettirlo. A Farranfore, una fermata prima di Tralee, era disceso dal treno con un pretesto, avvicinando un ferroviere e chiedendogli di fare in modo che la polizia fosse presente sul marciapiede della stazione all'arrivo del treno a Tralee.
Il primo teste dell'accusa risultò essere un sergente della polizia di Tralee, un uomo robusto, massiccio, che descrisse come era avvenuto l'arresto. Dopo aver giurato, disse che, in seguito a informazioni ricevute, era stato presente alla stazione di Tralee, il 13 maggio, all'arrivo del treno da Dublino. Là lo aveva avvicinato un uomo, fattosi riconoscere in seguito per il signor Lurgan Keane, dal quale gli era stato indicato l'imputato.
Egli aveva invitato l'imputato a seguirlo fino al posto di polizia di Tralee, e là era stato chiesto all'uomo di vuotarsi le tasche. Tra quel che conteneva si trovava un mazzo di carte nel quale il signor Keane aveva riconosciuto quelle adoperate per la partita a carte sul treno.
Queste carte, disse il teste, erano state mandate a Dublino per essere esaminate e, in seguito al rapporto ricevuto da Dublino, la polizia aveva accusato l'imputato del reato.
Sin lì, tutto chiaro. Il teste successivo fu un agente della squadra antifrodi della polizia di Dublino. Evidentemente doveva trovarsi ieri sul treno, riflette il giudice, ma viaggiava in terza classe.
Dopo il giuramento, l'investigatore dichiarò che un attento esame aveva accertato come il mazzo di carte fosse segnato. Il rappresentante della pubblica accusa mostrò un mazzo di carte e l'investigatore le riconobbe dal timbro che vi aveva apposto. Il mazzo gli venne passato. Il pubblico accusatore volle sapere in che modo venivano segnate le carte da gioco.
«In due modi, signore» rispose l'investigatore, rivolto al giudice.
«Mediante due sistemi denominati "ombreggiatura" e "potatura". Ognuno dei quattro semi viene indicato sul retro delle carte riducendone i margini in punti diversi su ciascun lato, per cui non ha importanza il modo con il quale vengono tenute le carte stesse. In questo modo il margine bianco tra l'orlo del disegno sul retro e l'orlo della carta varia in larghezza. Questa variazione, sebbene minima, può essere osservata dall'altro lato di un tavolino e indica così al baro di quale seme sono le carte dell'avversario. Sono stato chiaro?»
«Un modello in fatto di chiarezza» disse il giudice Comyn, fissando O'Connor.
«Le carte di valore più alto, dall'asso scendendo al dieci, sono state contrassegnate mediante la cosiddetta "ombreggiatura", vale a dire impiegando un preparato chimico che oscura o schiarisce lievemente tratti minuscoli del disegno sul retro delle carte stesse. Le superfici così ritoccate sono estremamente piccole, e talora si limitano all'estremità di una spirale del complicato disegno. Bastano, tuttavia, per essere viste dal baro all'altro lato del tavolo da gioco, in quanto egli sa esattamente quello che sta cercando.»
«E sarebbe necessario, da parte del baro, distribuire disonestamente le carte?» domandò il rappresentante della pubblica accusa. Sapeva di essere riuscito a inchiodare l'attenzione della giuria. Era un bel cambiamento rispetto ai soliti furti di cavalli.
«Potrebbe ricorrere anche a questo» ammise l'investigatore della squadra anti-frodi, «ma non sarebbe necessario.»
«Sarebbe possibile vincere contro un simile giocatore?» fu la domanda successiva.
«Assolutamente impossibile, signore» rispose il teste, sempre rivolto al giudice. «Il baro eviterebbe, semplicemente, di puntare, ogni qual volta constatasse che l'avversario ha una mano migliore, e punterebbe forte quando fosse certo che la mano migliore è la sua.»
«Nessun'altra domanda» disse il rappresentante della pubblica accusa.
Per la seconda volta, O'Connor rinunciò al controinterrogatorio del teste.
«Lei ha il diritto di porre al teste qualsiasi domanda relativa alla deposizione» disse il giudice Comyn all'imputato.
«Grazie, Vostro Onore» rispose O'Connor, ma rinunciò ugualmente.
Il terzo, ultimo e più importante teste dell'accusa fu il droghiere di Tralee, Lurgan Keane, che salì sul banco con l'impeto di un toro nell'arena, e guatò irosamente O'Connor.
Su invito del rappresentante della pubblica accusa, egli riferì quanto gli era accaduto. Aveva concluso un affare a Dublino, quel giorno, e questo spiegava la somma piuttosto ingente di denaro liquido. Sul treno era stato allettato a prendere parte a una partita a poker, un gioco nel quale si riteneva molto abile, e, prima di Farranfore, ci aveva rimesso sessantadue sterline. Si era insospettito, in quanto, anche se gli venivano distribuite ottime carte, le mani altrui risultavano sempre migliori, con il risultato di fargli perdere quattrini.
A Farranfore, persuaso di essere stato truffato, era disceso dal treno per fare in modo che la polizia fosse presente a Tralee.
«Ed ebbi ragione» urlò, rivolto alla giuria, «il vostro uomo giocava con carte truccate!»
I dodici giurati annuirono solennemente.
Questa volta O'Connor si alzò, con un'espressione malinconica come non mai e la stessa aria innocua di un vitello, per controinterrogare il teste. Il signor Keane lo fissò torvo.
«Ha detto che tirai fuori quel mazzo di carte?» domandò in tono afflitto.
«Infatti lo tirò fuori» disse Keane.
«In quale modo?» domandò O'Connor.
Keane parve interdetto. «Dalla tasca» rispose.
«Sì» riconobbe O'Connor, «dalla tasca. Ma che cosa ne feci?»
Keane riflette un momento. «Si mise a fare un solitario.»
Il giudice Comyn, che aveva cominciato a credere alla possibilità della legge sulle coincidenze straordinarie, provò di nuovo una stretta allo stomaco.
«E fui io a rivolgerle per primo la parola» domandò l'imputato, «o la rivolse lei per primo a me?»
Il massiccio droghiere parve abbastanza smontato. «Le parlai io per primo» disse, ma poi, rivolgendosi alla giuria, soggiunse: «Però, costui giocava così male il solitario che non potei farne a meno. C'erano carte nere su carte rosse e carte rosse su carte nere senza che lui se ne accorgesse, e così glielo feci osservare un paio di volte».
«Ma quando si trattò di giocare a poker» insistette O'Connor, «le proposi io di fare una partita, o me lo propose lei?»
«Lo propose lei» rispose Keane, con foga, «e mi propose di renderla interessante giocando a soldi, appena pochi scellini, figurarsi! Sessantadue sterline sono una grossa somma.»
I giurati tornarono ad annuire. Lo era davvero. Bastava a mantenere un operaio per quasi un anno.
«Le faccio osservare» disse O'Connor a Keane, «che fu lei a proporre il poker, e sempre lei a proporre qualche puntatina. Non ricorda che prima giocammo con i fiammiferi?»
Il droghiere riflette intensamente. La sincerità gli splendeva sulla faccia. Qualcosa si agitò nella sua memoria. Non avrebbe mentito.
«Può darsi che sia stato io» ammise. Poi gli venne in mente una nuova idea. Si rivolse alla giuria: «Ma non sta proprio in questo la sua abilità? Non è proprio questo che fa il baro? Alletta le vittime, inducendole a giocare.»
Era ovviamente innamorato del verbo "allettare", che, si disse il giudice, doveva essere nuovo nella sua terminologia. I giurati annuirono.
Sembrava ovvio che anch'essi sarebbero stati allettati.
«Un ultimo particolare» disse O'Connor, malinconicamente. «Quando regolammo i conti, quanto mi pagò?»
«Sessantadue sterline» disse Keane, rabbiosamente. «Denaro guadagnato con fatica.»
«No» disse O'Connor dal banco degli imputati, «quanto aveva perduto con me, personalmente?»
Il droghiere di Tralee riflette di nuovo intensamente. Si rabbuiò in viso. «No, non con lei» disse. «Con lei, niente. Fu il contadino a vincere.»
«E io vinsi, con lui?» domandò O'Connor, che sembrava ormai sull'orlo delle lacrime.
«No» rispose il teste. «Perdette circa otto sterline.»
«Nessun'altra domanda» disse O'Connor.
Il signor Keane stava per scendere dal banco dei testimoni, quando la voce del giudice lo richiamò. «Un momento, signor Keane. Ha detto "fu il contadino a vincere"? E chi era, precisamente, questo contadino?»
«L'altra persona nello scompartimento, Vostro Onore. Un contadino di Westford. Non valeva un granché come giocatore, ma ebbe una fortuna da matti.»
«Riuscì a sapere come si chiamasse?» domandò il giudice Comyn.
Il signor Keane parve perplesso. «Non lo chiesi» rispose. «Il mazzo di carte apparteneva all'imputato. Era lui, senz'altro, a cercare di barare con me.»
La pubblica accusa aveva terminato, e O'Connor prese la parola per difendersi. Venne fatto giurare. La sua versione dei fatti fu semplice quanto piagnucolosa. Comprava e rivendeva cavalli per guadagnarsi da vivere, e in questo non c'era niente di male. Gli piaceva qualche amichevole partitina a carte, ma non che fosse particolarmente abile.
Una settimana prima del viaggio in treno del 13 maggio stava bevendo tranquillamente una birra quando aveva sentito qualcosa di duro contro la coscia, sulla panca di legno.
Era un mazzo di carte, a quanto pareva dimenticato nel séparé da un precedente avventore, e senza dubbio era già stato usato. Aveva pensato di consegnarlo al barista, ma poi si era reso conto che carte così logore non potevano avere alcun valore. Se le era messe in tasca per divertirsi a fare solitari durante i suoi lunghi viaggi in treno alla ricerca di un puledro o di una giumenta da acquistare per i suoi clienti.
Se quelle carte erano segnate, lui lo aveva ignorato nel modo più assoluto. Non sapeva niente di quella faccenda delle ombreggiature e delle potature cui si era riferito l'investigatore. Non avrebbe saputo nemmeno che cosa guardare dietro le carte trovate nel bar.
E poi, quanto a barare, non vincevano, forse, i bari? domandò alla giuria. Lui aveva perduto otto sterline e dieci scellini, durante quel viaggio, con una persona mai vista. Era stato egli stesso sfortunato, poiché tutte le buone mani capitavano al contadino. Se il signor Keane aveva puntato e perduto più di lui, questo significava forse che il signor Keane era un uomo più imprudente di lui. Ma, quanto a barare, non ne sapeva niente, e senza dubbio, se fosse stato un baro, non avrebbe perduto tanti dei suoi quattrini cosi faticosamente guadagnati.
Durante il controinterrogatorio, la pubblica accusa tentò di demolire questa versione dei fatti. Ma l'esile ometto continuò ad attenervisi con tenacia, nonostante i suoi modi umili e supplichevoli. Infine il pubblico accusatore dovette rimettersi a sedere, sconfitto.
O'Connor tornò sul banco degli imputati e aspettò le conclusioni riassuntive del magistrato. Il giudice Comyn lo fissò. Sei un poveraccio da compatire, O'Connor, pensò. O la tua versione dei fatti è vera, nel qual caso sei un giocatore realmente sfortunato. Oppure non lo è, nel qual caso devi essere il baro più incapace del mondo. In ogni modo, hai perduto per ben due volte, servendoti delle tue carte con sconosciuti in treno.
Riassumendo il caso, tuttavia, non poteva permettersi una simile alternativa. Fece rilevare alla giuria che l'imputato aveva asserito di aver trovato il mazzo di carte in un bar di Dublino e di essere stato completamente ignaro del fatto che si trattava di carte segnate. La giuria poteva credere o meno a questa versione dei fatti; l'essenziale era che la pubblica accusa non aveva potuto provarne la falsità e, in base alla legge irlandese, l'onere della prova toccava all'accusa.
In secondo luogo, l'imputato aveva asserito di non essere stato lui a proporre la partita a poker e le puntate, bensì il signor Keane, e vi era stata, da parte del signor Keane, l'ammissione che questo poteva essere vero.
Ma, quel che più contava, secondo la tesi dell'accusa l'imputato aveva vinto del denaro, barando, al teste Lurgan Keane. Invece, comunque stessero le cose, il testimone Keane era stato costretto ad ammettere, sotto giuramento, che l'imputato non gli aveva vinto nemmeno un penny.
Denaro era stato perduto sia da lui, il teste, sia dall'imputato, anche se si trattava di importi diversi. La tesi della pubblica accusa, pertanto, non reggeva. Era suo dovere, concluse il giudice, invitare la giuria a prosciogliere l'imputato. Conoscendo i propri polli, Comyn fece rilevare inoltre che mancavano appena quindici minuti all'ora di pranzo.
Occorrono accuse estremamente gravi per impedire a una giuria della contea Kerry di andare a pranzo, e i dodici giurati rientrarono in aula, dieci minuti dopo, con un verdetto di non colpevole. O'Connor fu prosciolto e scese dal banco degli imputati.
Il giudice Comyn si tolse la toga nello spogliatoio, appese la parrucca e uscì dal palazzo del tribunale per andare, a sua volta, a pranzo. Ormai di nuovo in abiti borghesi, passò tra la ressa davanti al tribunale senza che nessuno lo riconoscesse.
Stava per attraversare la strada verso il principale albergo della cittadina, presso il quale, lo sapeva bene, un eccellente salmone di Shannon aspettava di essere fatto oggetto della sua attenzione, quando vide uscire dal parcheggio di quello stesso albergo una splendida e lucente berlina di una nota marca. Al volante si trovava O'Connor.
«Lo vede il suo uomo?» domandò una voce perplessa al fianco del giudice. Comyn sbirciò alla propria destra e scorse il droghiere di Tralee lì in piedi.
«Lo vedo» disse.
La berlina sterzò fuori del parcheggio. Seduto accanto a O'Connor si trovava un uomo tutto vestito di nero.
«Lo vede chi gli siede accanto?» domandò Keane stupito.
La macchina filò verso di loro. Il prete che si preoccupava di aiutare gli orfani di Dingle prodigò un sorriso benevolo e alzò due dita rigide nella direzione degli uomini sul marciapiede. Poi l'automobile si allontanò lungo la strada.
«Quella era una benedizione ecclesiastica?» domandò il droghiere.
«Poteva esserlo» ammise il giudice Comyn, «ma ne dubito.»
«E perché è vestito così?» domandò Lurgan Keane.
«Perché è un prete cattolico» disse il giudice.
«Nemmeno per sogno» esclamò il droghiere, accalorato. «È un contadino di Westford.»
FINE