«…of Frederick Douglass…»
«I am myself, you are yourself»: io sono io, voi siete voi; siamo «due persone distinte e uguali». Così Douglass annuncia nella lettera all’ex padrone il compimento del suo processo di liberazione: sono parole banali e sovversive insieme, sovversive perché sono banali, perché non dovrebbe esserci bisogno di dirle. Ma uno schiavo non ha un «sé»; e, se lo ha, non può chiamarlo «mio», perché è di proprietà di un altro uomo. Douglass ha dovuto «farsi uomo» sia storicamente, sia narrativamente: emanciparsi materialmente dagli Auld e dai Covey, e creare una persona autobiografica, un’immagine di sé nella scrittura. È, in un certo senso, il compito di ogni atto autobiografico: la narrazione è sempre legittimata dall’avvenuta emancipazione o trasformazione del soggetto che si narra. In questo senso, Douglass è apparentato al canone americano che nasce con l’autobiografia di Benjamin Franklin, la storia del «farsi da sé» di un individuo autonomo e distinto.
Con Franklin, Douglass condivide alcuni elementi non trascurabili: una storia anche di successo materiale (da schiavo ad ambasciatore); persino il suo successivo dialogo con l’ex padrone da cui è fuggito ha un parallelo nella ricomposizione tra Franklin e il fratello-padrone da cui si era emancipato con un trucco legale all’inizio della sua carriera. Ma il tratto comune più rilevante è il tono fortemente individualistico del racconto.
Nella Narrative, Douglass è significativamente solo: anche i ricordi familiari della nonna, l’amicizia con i compagni di schiavitù da Mr. Freeland, la cerchia di amicizie nella comunità nera di Baltimora, restano sullo sfondo, né sembrano influire in modo decisivo sulla formazione di Douglass e sulla sua liberazione. Di sua moglie Anna apprendiamo l’esistenza solo dopo che è fuggito: come dire che lei con la sua liberazione non c’entra niente, anche se fu lei a trovare i soldi grazie ai quali Douglass riuscì a fuggire.
Al di là dei dati materiali, Douglass intende rappresentarci la sua liberazione come un fatto interno dovuto interamente a se stesso. Per tutta la vita fu orgoglioso, a volte addirittura arrogante, non privo di vanità; nella Narrative senz’altro si costruisce un’immagine eroica («The Heroic Slave» è il titolo del suo solo tentativo di fiction, in parte anche una fantasia autobiografica), ma insiste anche sul fatto che lo schiavo che vuole farsi uomo deve farsi da sé. Dopo tutto, la più popolare e richiesta delle sue conferenze, presentata in pubblico dal 1859 fino agli ultimi anni della sua vita, aveva per titolo «Self Made Men».
È titolo ambiguo nella tradizione di Franklin e negli anni di Horatio Alger e del mito della mobilità sociale, dall’ago al milione. Ma, dette da un ex schiavo, tutte e tre queste parole — uomo fatto da sé — acquistano una nuova radicalità polemica. «Uomo», uno che era stato legalmente oggetto e culturalmente assimilato alle bestie. «Fatto», soggetto di volontà e di azione, un essere che era stato definito nient’altro che «un’estensione del volere del padrone». E soprattutto, come abbiamo visto, «sé».
La costruzione del sé, lo abbiamo detto, è il lavoro di tutte le autobiografie. Ma le condizioni in cui avviene nell’autobiografia afro-americana sono differenti. Basta confrontare l’apertura della Narrative con quella dell’Autobiografia di Franklin. Sebbene si prepari a rifondare il genere autobiografico sulla base di un’autonoma costruzione di sé, Franklin si preoccupa di garantirsi le basi tradizionali dell’autorità ricapitolando la storia dei propri antenati, e ritrovandone la documentazione scritta fin dal 1555. Douglass, invece, comincia proprio con l’assenza di qualunque «documento ufficiale» sulla sua nascita e i suoi antenati. Franklin giustifica la scrittura dell’autobiografia con la richiesta di potenziali lettori, mentre Douglass si scontra con un divieto radicale di scrivere e di raccontare. La costruzione di sé comincia dunque per Franklin sulla base del sicuro possesso dell’identità e del nome, della scrittura, del pubblico. Per Douglass, le condizioni di partenza sono tutte da costruire.
Chi è dunque questo «io» storico e narrativo, chi è Frederick Douglass? Come ha spiegato Philippe Lejeune, il «patto» che definisce un testo come «autobiografico» si istituisce attorno alla corrispondenza fra il nome dell’autore sulla copertina, il nome del narratore e il nome del protagonista nel testo [8]. Ma, come ha spiegato Malcolm X, in storie e biografie che affondano le origini nella schiavitù, proprio il nome è incerto e arbitrario: al punto che Malcolm Little stesso si spoglia del suo nome di nascita, per sostituirlo con un segno provvisorio di assenza, e ricostruirsi un nome attraverso un processo di formazione politica e personale e di iniziazione religiosa (sceglierà, infine, di chiamarsi El-Hajj Malik El-Shabazz).
Non è casuale allora che nella Narrative il nome nativo dell’autore/narratore/eroe — «Frederick Agustus Washington Bailey» — non compaia che all’ultimo capitolo, e solo per annunciarne il doppio cambiamento, in Frederick Johnson e infine in Frederick Douglass. Nelle due maggiori autobiografie militanti afroamericane, quelle di Douglass e di Malcolm X, il nome dei protagonisti appare sì in copertina, come vuole Lejeune, ma non sopra il titolo, bensì nel titolo: come a segnalare una condizione ancora di passaggio, in cui l’io narrato è ancora in cerca dell’autorità per farsi io narrante (Malcolm X narra «con l’assistenza di Alex Haley», Frederick Douglass è presentato e sancito dall’introduzione dei due leaders abolizionisti, William L. Garrison e Wendell Phillips).
L’autobiografia afro-americana, insomma, è in primo luogo storia della creazione delle condizioni della propria esistenza. Solo la seconda versione dell’autobiografia di Douglass, My Bondage and My Freedom, riporta il nome al suo posto, sopra il titolo. Il processo di costruzione del nome è compiuto e Douglass si sente libero di parlare non solo di sé, ma anche degli altri, della sua famiglia, della sua comunità.
Eppure, un paradosso resta. Douglass scrive, infatti, che la documentazione sulla propria nascita lui non l’ha mai vista, ma non che non esiste. William Wells Brown, altro importante autobiografo e romanziere nato schiavo, cominciava così la sua Narrative nel 1847: «Sono nato a Lexington, Kentucky. L’uomo che mi ha rubato appena nato ha iscritto le nascita dei bambini di cui rivendicava la proprietà in un registro che teneva a tal fine» [9]. La proprietà dello schiavo conferisce al padrone anche la proprietà del suo nome e della storia della sua vita, registrati negli inventari insieme con tutti gli altri suoi possedimenti.
In questi inventari, i biografi moderni di Douglass sono andati a ricercare il suo nome e la sua data di nascita, e quelli dei suoi antenati. È stato possibile così ricostruire la genealogia di Frederick Douglass — o, a quel punto, di Frederick Bailey — per almeno cinque generazioni, fino al primo schiavo di nome Bailey, registrato negli archivi di Talbot County nel 1701. Sappiamo adesso sulla famiglia Bailey molto di più di quanto non ne abbiano saputo i suoi stessi membri: non è la mancanza delle fonti che fa sparire la storia degli afro-americani, ma il fatto che queste fonti gli siano negate (se ne renderà conto Malcolm X in carcere, scoprendo la storia dell’Africa nei libri scritti dai bianchi per i loro fini).
Da questo paradosso ne discende forse un altro. Si dà generalmente per scontato che il cognome degli schiavi fosse derivato da quello dei loro padroni (è per questo che Malcolm abbandona il suo primo cognome). Ma nella Talbot County del Maryland, non c’è nessuna famiglia Bailey bianca, mentre questo cognome è diffuso fra gli schiavi (spesso nella forma «Baly»). William McFeely suggerisce allora che potrebbe trattarsi dell’anglicizzazione di un nome assai diffuso fra gli africani di religione musulmana, e attestato anche negli Stati Uniti: Belali [10]. È solo un’ipotesi, ma plausibile: se è vera, abbandonando il suo cognome da schiavo per assumere quello di Douglass (derivato da un personaggio di Walter Scott), Frederick Bailey taglia paradossalmente i ponti con l’ultimo, inconsapevole, residuo delle radici africane.
In un certo senso, è giusto che sia così. Douglass è fatto da sé fino in fondo: Franklin riceve dagli antenati emigrati in America almeno il nome, Douglass sceglie liberamente anche quello. E se il Frederick Douglass, eroe solitario della Narrative, è anche una creazione letteraria, è giusto che il suo nome venga da un libro.