In una lettera scritta a un amico subito dopo il mio arrivo a New York, dicevo di sentirmi come chi sia sfuggito a un covo di leoni famelici. Tuttavia, fu uno stato d’animo passeggero; ben presto m’invase un senso d’insicurezza e solitudine. Potevo sempre essere riportato indietro e sottoposto alle note torture della schiavitù. Tanto bastava, di per sé, a smorzare gli ardori dell’entusiasmo. Ma vi si aggiungeva l’isolamento. Eccomi fra migliaia di persone, ma totalmente estraneo; senza casa e senza amici fra una moltitudine di fratelli, figli di un Padre comune, ai quali tuttavia non osavo aprire il cuore sulla mia triste condizione.

Temevo di rivolgermi a altri per paura di trovare la persona sbagliata, e quindi cadere nelle mani di cacciatori di schiavi [17] avidi di danaro il cui mestiere consiste appunto nel tendere agguati a fuggiaschi ansimanti, come le bestie feroci tendono agguati nelle foreste alle loro prede.

Il motto che avevo adottato nell’infrangere le mie catene era: “Non fidarti di nessuno!” In ogni bianco vedevo un nemico, in quasi ogni nero un motivo di diffidenza. Era una situazione quanto mai penosa; e per capirla bisogna averla vissuta, o immaginarsi in circostanze simili. Mettete uno schiavo fuggiasco in un paese a lui ignoto - un paese dato in riserva di caccia a proprietari di schiavi, ai cui abitanti la legge permetta di fare i cacciatori di schiavi - dove egli sia continuamente esposto alla terribile eventualità d’essere acciuffato come la preda è acciuffata dal feroce coccodrillo. Mettetelo dico, nei panni miei: senza casa, senza amici, privo di danaro e privo di credito, bisognoso di un tetto e con nessuno a offrirglielo, bisognoso di pane, senza denaro per comprarne; mettetelo, nello stesso tempo, nello stato d’animo di chi si senta braccato da persecutori inflessibili, e nel buio completo su che fare, dove andare, dove restare, assolutamente inerme sia quanto a mezzi di difesa, sia quanto a mezzi di fuga, in piena abbondanza, ma tormentato dal morso della fame, in mezzo a case e tuttavia senza casa, in mezzo a fratelli, ma come se si trovasse in mezzo a un branco di bestie feroci, avide di sbranare il fuggiasco tremante e affamato, come i mostri degli abissi sono avidi di divorare i pesciolini inermi dei quali si nutrono, mettetelo in questa situazione incresciosa - la situazione in cui mi trovavo io - e allora, ma non prima di allora, comprenderete le tribolazioni di uno schiavo fuggiasco consunto dalla fatica e terrorizzato dalla frusta, e sentirete simpatia per lui.

Grazie al Cielo, in questa situazione io non restai che poco tempo, perché ne fui liberato dalla mano generosa del signor David Ruggles [18], la cui sollecitudine, bontà e costanza di propositi non dimenticherò mai. Sono felice di poter qui esprimere, per quel che possono le parole, l’amore e la riconoscenza che gli serbo. Colpito da cecità, egli ha ora bisogno delle stesse cure affettuose che un tempo era il primo a dispensare al prossimo.

Ero da pochi giorni a New York, quando egli mi scoprì e molto gentilmente mi portò nella casa di affitto che occupava all’angolo fra la Church e la Lesphenard Street. A quell’epoca, Mr. Ruggles era tutto preso dal memorabile processo Darg [19], oltre che dall’assistenza a numerosi fuggiaschi e allo studio del modo migliore di organizzarne l’evasione; e, sebbene ostacolato in mille modi, rappresentava per i suoi occhiuti nemici un osso molto duro.

Subito dopo, volle sapere dove pensassi di sistemarmi, perché non riteneva consigliabile che mi fermassi a New York. Risposi ch’ero un calafato e desideravo stabilirmi dove ci fosse da lavorare nel mio campo. Pensavo al Canada. Ma egli lo scartò a favore di New Bedford, dove pensava che facilmente avrei trovato impiego. Fu in quei giorni che Anna [20], la mia fidanzata, mi raggiunse a New York; perché, subito dopo il mio arrivo, le avevo scritto informandola dell’esito felice della mia evasione e del desiderio che mi seguisse.

Pochi giorni dopo ch’era arrivata, Mr. Ruggles convocò il reverendo J.W. Pennington che, in presenza sua, della signora Michaels e di due o tre altre persone, ci unì in matrimonio e ci rilasciò un certificato di cui riproduco il testo:

Certifico con la presente di aver unito in matrimonio religioso Frederick Johnson [21] e Anna Murray, marito e moglie, alla presenza del signor David Ruggles e della signora Michaels. In fede, Tames W. C. Pennington. New York, 15 settembre 1838.

Armato di questo documento, e di un biglietto da cinque dollari regalatomi da Mr. Ruggles, mi buttai sulla spalla una parte del nostro bagaglio, Anna ne prese il resto, e corremmo a bordo del vapore “John W. Richmond“, che salpava per Newport, diretti a New Bedford. David Ruggles mi aveva dato una lettera per un certo signor Shaw di Newport, consigliandomi, caso mai il danaro non mi bastasse per l’ultima destinazione, di fermarmi alla prima e qui cercare altri aiuti; ma noi, arrivati a Newport, avevamo così fretta di metterci al sicuro, che, pur non avendo il danaro necessario per l’acquisto del biglietto, decidemmo di prendere posto in diligenza e promettere di pagare appena giunti a destinazione; incoraggiati a ciò da due ottime persone residenti a New Bedford, in cui più tardi identificai i signori Joseph Richarson e Williarn C. Taber, i quali parvero capire al volo il nostro stato e ci diedero tali prove di cortesia, da non farci sentire il minimo disagio.

Che gioia fu, in circostanze simili, incontrare degli amici così!

All’arrivo, essi ci indirizzarono dal signor Nathan Johnson, che ci accolse con molta gentilezza e ospitalità: tanto lui quanto sua moglie mostrarono un interesse vivo e profondo per la nostra sorte, e si rivelarono in tutto e per tutto degni del nome di abolizionisti. Quando il conduttore della diligenza sentì che non potevamo pagare il viaggio e si tenne in garanzia i nostri bagagli, mi bastò accennarne a Nathan Johnson [22], perché anticipasse subito il danaro occorrente allo svincolo. Cominciavamo a provare un certo grado di sicurezza, e quindi ci preparammo ai doveri e alle responsabilità di una vita da liberi.

La mattina dopo il nostro arrivo a New Bedford, a tavola, sorse il problema del nome che avrei assunto. Mia madre mi aveva chiamato Frederick Augustus Washington Bailey; ma, molto prima di lasciare il Maryland, io mi ero sbarazzato dei due nomi intermedi ed ero generalmente noto come Frederick Bailey. Da Baltimora ero partito col cognome Stanley; giunto a New York l’avevo nuovamente cambiato in Johnson, credendo che ormai fosse l’ultima metamorfosi. Ma a New Bedford scoprii che c’era ancora bisogno di un’altra perché i Johnson erano tanti, lassù, che era già quasi difficile distinguerli. Concessi a Mr. Johnson il privilegio di scegliermi un cognome, ma lo pregai di non togliermi il nome di battesimo, Frederick, al quale dovevo rimanere fedele per conservare il senso della mia identità. E Mr. Johnson, che aveva appena finito di leggere Lady of the Lake [23], propose immediatamente: Douglass.

Da quel giorno sono sempre stato chiamato Frederick Douglass, e poiché sono molto più conosciuto con questo nome che con altri, continuerò a servirmene come se fosse il mio.

Una sorpresa, per me, fu l’aspetto generale delle case a New Bedford.

L’impressione che avevo ricevuto del carattere e del modo di vivere della gente nel Nord era stata, mi accorsi, singolarmente falsa. Non so come, da schiavo, mi ero fatta l’idea che poche delle comodità e nessuno dei lussi che allietavano la vita dei proprietari di schiavi nel Sud fossero goduti dai nordisti: conclusione alla quale ero probabilmente arrivato per il fatto che questi ultimi non possedevano schiavi e quindi, stando alla mia esperienza, dovevano trovarsi suppergiù allo stesso livello della popolazione non proprietaria degli Stati meridionali.

Di questa sapevo ch’era estremamente povera, e ero cresciuto nella convinzione che la loro povertà fosse la conseguenza necessaria del non possedere schiavi. In certo modo, mi ero lasciato imbevere del pregiudizio che, dove non c’è schiavitù, nessuna ricchezza e ben pochi lussi sono possibili, e capitando nel Nord mi aspettavo di trovarmi fra gente rozza, incolta, dalle mani callose, che viveva nella semplicità più spartana, ignara delle comodità, del fasto, della pompa e della grandezza dei proprietari sudisti. Tali essendo le mie congetture, chiunque conosca l’aspetto di New Bedford [24] non stenterà a capire come il mio errore mi sia saltato agli occhi con violenza.

Il pomeriggio dello stesso giorno in cui eravamo arrivati, visitai i moli per farmi un’idea del naviglio. E mi vidi circondato dalle prove più evidenti di ricchezza. All’ancora, o sul filo della corrente, vidi una moltitudine di velieri della forma più bella, nell’ordine più impeccabile, della stazza maggiore.

A destra e a sinistra, facevano muraglia accanto a me giganteschi magazzini di granito, traboccanti e del necessario e del superfluo. E sembrava che ogni persona lavorasse, ma - in confronto alle abitudini di Baltimora - senza far baccano. Non canzoni a gola spiegata del personale addetto allo scarico delle navi; non cupe bestemmie e orribili imprecazioni indirizzate ai lavoranti; non sibili di frusta. Tutto sembrava filare liscio come l’olio. Si sarebbe detto che ognuno conoscesse a fondo il suo lavoro e lo eseguisse con sobria e tuttavia festosa serietà, a riprova dell’interesse profondo per ciò che faceva e del senso della propria dignità di uomo. Tutto questo mi riempì di stupore.

Dai moli mi spinsi a caso nelle vie della città, osservando con ammirazione le splendide chiese, i bei palazzi, i giardini ben tenuti e gli altri segni di un grado di benessere, di conforto, di gusto e di civiltà, che in nessuna parte dello schiavista Maryland avevo mai notato. Tutto sembrava nuovo, pulito, attraente. Poche o nessuna casa diroccata con inquilini in miseria; nessun bambino seminudo o donna scalza, come ero abituato a vederne a Hillsborough, Easton, St. Michael’s e Baltimora. La gente aveva un’aria più sana, forte, sveglia e serena, che nel Maryland.

Per la prima volta godevo lo spettacolo di una grande ricchezza, non turbato da quello parallelo di un’estrema miseria. Ma la cosa insieme più interessante e più sbalorditiva era la condizione della gente di colore, in gran parte rifugiatasi a New Bedford, come me, per salvarsi dai cacciatori di selvaggina umana.

Ne trovai molti che si erano liberati dalle catene da non più di un settennio, e tuttavia vivevano in case più decenti e godevano di maggiori conforti che la media dei proprietari di schiavi nel Sud. Oso affermare che il mio amico Mr. Nathan Johnson (di cui posso dire con cuore grato: “ebbi fame e mi diede da mangiare, ebbi sete, e mi diede da bere, fui forestiero, e mi accolse”) viveva in una casa più linda, mangiava a una tavola migliore, comprava e leggeva più giornali, capiva meglio il carattere morale, religioso e politico della nazione, che nove decimi dei proprietari di schiavi della contea di Talbot, nel Maryland.

Eppure, Mr. Johnson era un lavoratore: le sue mani erano indurite dal lavoro, e non soltanto le sue, ma anche quelle di sua moglie.

Trovai i miei fratelli di colore molto più svegli di quanto avessi immaginato che fossero. Vidi in loro la decisione di proteggersi l’un l’altro dal cacciatore di schiavi assetato di sangue, a qualunque costo.

Subito dopo il mio arrivo, seppi di un fatto che ne illustrava gli umori. Un nero e uno schiavo fuggiasco erano in rapporti poco amichevoli: il primo fu sentito minacciare il secondo di rivelarne il nascondiglio al padrone. Un comizio fu immediatamente convocato fra gli uomini di colore, con l’annunzio stereotipo: “Faccende importanti!”, e l’invito al traditore di assistervi. All’ora stabilita tutti accorsero e elessero presidente della riunione un vecchio religiosissimo, il quale, suppongo, prima recitò una prece, poi si rivolse al pubblico con queste parole: “Amici, abbiamo portato qui quest’individuo, e io vorrei raccomandare ai giovani di buttarlo fuori, e ucciderlo!” Al che, un certo gruppo gli si buttò addosso, ma intervennero altri più timidi, e il traditore sfuggì alla vendetta e non fu mai più visto a New Bedford.

Credo che non vi siano più state minacce simili e, se ci fossero, non dubito che la conseguenza sarebbe la morte.

Il terzo giorno dopo il mio arrivo, trovai lavoro. Si trattava di sistemare un carico d’olio nella stiva di un battello. Era un lavoro nuovo, sudicio e faticoso, per me; ma lo sbrigai con animo sereno e mano pronta. Ero finalmente padrone di me stesso. Fu un momento radioso, la cui beatitudine può capire soltanto chi abbia vissuto in schiavitù. Per la prima volta, il premio delle mie fatiche era interamente mio. Non c’era più in agguato un Padron Hugh a depredarmi del danaro appena guadagnato. Quel giorno, lavorai con un piacere che non avevo mai conosciuto in vita mia. Lavoravo per me e per la mia giovane sposa: era il punto di partenza di una nuova vita. Quando il lavoro finì, andai a offrirmi come calafato; ma tra i bianchi di questa categoria il pregiudizio del colore era così forte [25], che si rifiutavano di lavorare con me, e non riuscii a trovare lavoro. Visto che il mestiere non mi era di vantaggio immediato [26], lo misi da parte e mi preparai ad accettare qualunque occupazione mi fosse offerta.

Gentilmente Mr. Johnson mi prestò il suo cavalletto e la sua sega e, ben presto, ebbi lavoro da vendere. Non c’era per me fatica eccessiva, non c’era nulla di sporco: ero pronto a segar legna, sbadilare carbone, portare secchi, spazzare camini, rotolare fusti d’olio, come feci per tre anni circa a New Bedford, prima di farmi conoscere nell’ambiente antischiavista.

Suppergiù quattro mesi dopo che ci eravamo stabiliti a New Bedford, un giovane venne a trovarmi e mi chiese se non desiderassi comprare il Liberator. Gli risposi che l’avrei desiderato certo; ma, essendo appena sfuggito alle catene, non avevo di che pagarlo. Tuttavia, infine mi abbonai; e leggevo quel foglio con sentimenti che sarebbe ozioso cercar di descrivere. Esso divenne il mio cibo e la mia bevanda, il nutrimento del cuore. La sua simpatia verso i miei compagni di sventura, i suoi roventi attacchi ai proprietari di schiavi, la sua rappresentazione fedele della schiavitù, la sua poderosa offensiva contro i sostenitori di quell’istituto, mi davano un brivido di commozione e di gioia!

Bastò un po’ di lettura del Liberator perché mi facessi un’idea chiara dei principi, delle proposte e dello spirito della campagna antischiavista, e ne abbracciassi la causa. Poco ero in grado di fare, è vero; ma quel che potevo feci con cuore commosso, e non mi sentii mai più felice che in un comizio antischiavista. Di rado avevo molto da dire, perché c’erano altri a parlare, e molto meglio, anche per me. Tuttavia, a una riunione tenutasi a Nantucket l‘11 agosto 1841 [27], sentii il forte impulso di prender la parola e, nello stesso tempo, vi fui incoraggiato da William W. Coffin, un signore che mi aveva ascoltato durante un comizio di gente di colore a New Bedford. Fu una dura croce, e l’accettai con riluttanza. La verità era che mi sentivo ancora uno schiavo e l’idea di parlare a un pubblico di bianchi mi intimidiva. Parlavo da pochi minuti, quando mi sentii più libero e dissi con notevole scioltezza tutto ciò che mi stava sul cuore.

Da allora, mi son dedicato alla causa dei miei fratelli, con quale successo, e con qual devozione, lascio decidere a chi abbia seguito i miei sforzi.