Capitolo III

Il Colonnello Lloyd possedeva un grande e ben coltivato giardino, che forniva occupazione quasi in permanenza a quattro uomini oltre al giardiniere-capo (il Signor M. Durmond), ed era, probabilmente, la maggior attrattiva del luogo.

Nei mesi estivi, molti venivano a ammirarlo da vicino e da lontano - da Baltimora, da Easton, da Annapolis - poiché abbondava in frutti di quasi tutte le specie, dalle rustiche mele del Nord fino alle delicate arance del Sud. Nella piantagione, questo giardino non era la minor fonte di guai. La sua frutta deliziosa rappresentava una tentazione irresistibile per gli sciami famelici dei ragazzi e per gli stessi anziani, pochi dei quali avevano la virtù o il vizio di resisterle.

Non passava giorno, d’estate, senza che qualche schiavo, per averne rubata, dovesse assaggiare la frusta.

Il Colonnello doveva ricorrere a ogni sorta di stratagemmi per tenere i suoi schiavi al largo dal giardino. L’ultimo e il più riuscito consistette nell’incatramare il recinto tutt’intorno al frutteto; dopo di che, se si pescava uno schiavo con un po’ di catrame addosso, lo si considerava prova sufficiente ch’era penetrato nel giardino o aveva cercato di penetrarvi, e, nell’uno e nell’altro caso, era frustato a sangue dal giardiniere-capo.

Il piano funzionò bene; gli schiavi finirono per temere il catrame come la frusta. Sembravano convinti dell’impossibilità di toccare catrame senza buscarle.

Inoltre, il Colonnello manteneva una splendida scuderia. Stalla e rimessa avevano tutta l’aria di certe stazioni di noleggio delle grandi città: i cavalli erano della forma più perfetta e del sangue più nobile; quanto alla carrozzeria comprendeva tre splendidi cocchi e tre o quattro calessi, oltre a vetture leggere e biroccini all’ultima moda.

Il complesso degli edifici era affidato alle cure di due schiavi - il vecchio e il giovane Barney, padre e figlio. Essi non si occupavano d’altro - ma non si creda che fosse un’occupazione di tutto riposo, perché in nulla il Colonnello era così schizzinoso, come nel governo dei suoi cavalli.

La minima mancanza di riguardo, in materia, era imperdonabile, e costava la pena più rude a chi vi incorreva; non v’era scusa che tenesse, se il Colonnello aveva anche soltanto il sospetto di scarse attenzioni verso i suoi beniamini - sospetto al quale di frequente indulgeva e che, naturalmente, rendeva molto pesante il compito del vecchio e del giovane Barney. Essi non sapevano mai quando l’avrebbero passata liscia, non di rado erano frustati quando se lo meritavano di meno, e sfuggivano alla frusta quando se la meritavano di più. Tutto dipendeva o dall’aspetto esterno dei cavalli, o dallo stato d’animo del padrone quando glieli portavano perché se ne servisse.

Se un cavallo non aveva il passo abbastanza veloce, o non teneva la testa abbastanza eretta, la colpa era, in un modo o nell’altro, dei suoi custodi.

Era uno strazio trovarsi nei pressi della scuderia e sentire il rosario di lamentele quando i poveri diavoli tiravano fuori un cavallo: questo non è stato trattato come si doveva, non lo si è strigliato e spazzolato abbastanza; oppure non lo si è nutrito a sufficienza; il cibo era troppo umido o troppo asciutto; l’ha ricevuto troppo presto o troppo tardi; era troppo caldo o troppo freddo; gli si è dato troppo fieno e non abbastanza biada, o troppa biada e non abbastanza fieno, invece di badargli, il vecchio Barney ha lasciato indebitamente che lo custodisse suo figlio, e così via. A tutti questi rimproveri, non importa se ingiusti, lo schiavo non doveva rispondere nemmeno una parola. Il Colonnello Lloyd non tollerava che lo si contraddicesse in nessun punto. Quando parlava lui, lo schiavo doveva restare in piedi, ascoltare, tremare; come appunto, alla lettera, faceva.

L’ho visto costringere il vecchio Barney, un uomo fra i cinquanta e i sessanta, a scoprirsi la testa calva, inginocchiarsi sul terreno umido e freddo, e ricevere sulle spalle nude e torturate più di trenta colpi di staffile per volta.

Il Colonnello Lloyd aveva tre figli - Edward, Murray e Daniel - e tre generi, i Signori Winder, Nicholson e Lowndes. Costoro abitavano tutti assieme alla Great House Farm, e si concedevano il lusso di frustare gli schiavi quando meglio piaceva loro, dal vecchio Barney giù giù fino a William Wilkes, il cocchiere.

Ho visto coi miei occhi Winder mettere uno dei domestici a distanza conveniente per fargli assaggiare la punta dello scudiscio e, a ogni colpo, rigargli la schiena di pesanti giogaie.

Descrivere le ricchezze del Colonnello Lloyd sarebbe un po’ come descrivere le ricchezze di Giobbe. Aveva da dieci a quindici domestici, e si diceva possedesse un migliaio di schiavi, calcolo che credo rispondente al vero. Tanti ne possedeva che, vedendoli, non li riconosceva neppure; né tutti gli schiavi delle fattorie secondarie conoscevano lui…

Si narra che un giorno, mentre andava a cavallo, s’imbatté in un negro e gli si rivolse nel modo in cui, sulle strade maestre del Sud, usa rivolgersi alla gente di colore: “Be’, ragazzo, di chi sei, tu?

“Del Colonnello Lloyd.”

“Ti tratta bene, il Colonnello?”

“Signornò” fu la pronta risposta.

“E troppo duro?”

“Signorsì.”

“Be’, non ti dà abbastanza da mangiare?”

“Signorsì, me ne dà abbastanza, per la roba che è.”

Accertato di chi fosse lo schiavo, il Colonnello tirò dritto, e anche lo schiavo se ne andò pei fatti suoi, non sognandosi neppure di aver parlato col padrone. E non ci pensò, non ne parlò, non ne seppe più nulla, fino a due o tre settimane dopo, quando il povero diavolo venne informato dal sovrintendente che, per aver trovato da ridire sul padrone, sarebbe stato venduto a un mercato georgiano. Fu quindi immediatamente incatenato e ammanettato, e così, senza un attimo di preavviso, una mano più spietata della morte lo strappò e divise per sempre dalla sua famiglia e dai suoi amici.

È questo il prezzo della verità, la verità nuda e cruda, detta in risposta a una serie di comuni domande.

Questi fatti spiegano in parte perché mai, interrogati sulla loro vita e sul carattere dei loro padroni, gli schiavi, quasi invariabilmente, rispondano che sono contenti, e che i padroni sono cortesi. Si sa che questi sguinzagliano le loro spie fra la manodopera servile per controllarne le opinioni e i sentimenti circa il proprio stato: e la frequenza di questo controllo finisce coll’introdurre fra gli schiavi la massima che una lingua muta fa una testa savia. Essi celano la verità piuttosto che sopportare le conseguenze dell’ammetterla; e così agendo si dimostrano parte della famiglia umana. Se mai hanno qualcosa da dire sui padroni, in genere è a loro favore, soprattutto se parlano con uno sconosciuto.

Quando ero schiavo io, mi sono spesso sentito domandare se avevo un padrone cortese e non ricordo di aver mai dato risposta negativa; né credevo, tenendo questo atteggiamento, di dire cosa assolutamente falsa, perché misuravo la cortesia del mio padrone sul metro di cortesia instaurato dagli schiavisti nei nostri paraggi.

Inoltre, gli schiavi sono uomini come tutti gli altri e si imbevono di pregiudizi comuni al genere umano: ognuno giudica il proprio destino migliore dell’altrui; e, in forza di questo preconcetto, molti pensano che i loro padroni valgano più di quelli di altri, anche se, in molti casi, è vero esattamente l’opposto.

Non solo, ma spesso accade che discutano e si bisticcino sul tema della relativa bontà dei padroni, ciascuno affermando le superiori virtù del proprio. Nello stesso tempo, presi uno per uno, tutti esecrano colui del quale sono proprietà.

Era così anche nella nostra piantagione.

Quando gli schiavi del Colonnello Lloyd s’imbattevano negli schiavi di Jacob Jepson, di rado si lasciavano senza una diatriba sui rispettivi padroni; gli schiavi del Colonnello Lloyd sostenevano ch’era il più ricco; gli schiavi del Signor Jepson ch’era il più in gamba, e il più autorevole. I primi vantavano la sua capacità di imbrogliare Jacob Jepson; i secondi, la capacità di costui di bastonare l’altro. Queste liti finivano quasi sempre in una zuffa vera e propria, e chi pestava di più passava per chi aveva più ragione. Si sarebbe detto che, per loro, la grandezza dei padroni fosse trasmissibile ai servi. Essere schiavi era di per sé un grosso guaio, ma essere schiavi di un povero era addirittura una disgrazia!