Un classico americano
Frederick Douglass (1818-1895) è uno dei protagonisti della storia del diciannovesimo secolo [1]. Contemporaneo dei classici del «rinascimento americano», prende posto accanto a Melville e Hawthorne, a Whitman, Emerson e Thoreau non solo in virtù dell’espansione multiculturale del canone letterario, ma come loro pari. Corrispondente e polemico interlocutore di Harriet Beecher Stowe, propone un discorso sulla schiavitù e sull’America alternativo alla Capanna dello zio Tom. Primo fra pari e contemporanei come David Walker, Henry Highland Garnet, William Wells Brown, Sojourner Truth, Harriet Jacobs, è capostipite della tradizione intellettuale e politica da cui scaturiscono Booker T. Washington e W.E.B. DuBois, Martin Luther King e Malcolm X, e della tradizione letteraria di Charles Chesnutt, Richard Wright, Toni Morrison.
Nato schiavo («diplomato della scuola della schiavitù, col diploma scritto a frustate sulla schiena») [2], Frederick Douglass trova nella passione per la libertà, nel desiderio di conoscenza, e nell’aiuto della comunità nera di Baltimora la forza per liberarsi. Ma non resta a godere nell’ombra i frutti modesti di una condizione di proletario di seconda classe sui moli di New Bedford (dove, mentre lui rotolava barili nelle stive, Herman Melville cercava imbarco su una baleniera).
La forza della sua parola ne fa prima un «esortatore» nella chiesa metodista, poi eloquente oratore antischiavista, fra i più ammirati della cosiddetta «età dell’oro» dell’oratoria americana, infine scrittore e giornalista indipendente. Nella prima assemblea del movimento per i diritti delle donne (Seneca Falls, 1848), è l’unico delegato di sesso maschile che si esprime inequivocabilmente per il voto alle donne. Sconsiglia il tentativo di John Brown di suscitare un’insurrezione di schiavi in Appalachia, ma gli porta soldi e cibo. Durante la guerra civile, attacca Lincoln per le sue esitazioni, lo appoggia per le sue azioni, recluta soldati neri per il fronte. Si batte, in gran parte invano, per garantire i diritti politici e una base economica indipendente ai neri precariamente liberati; ottiene incarichi politici, diventa ambasciatore degli Stati Uniti presso la repubblica nera di Haiti, trascorre gli ultimi anni in una dura campagna contro la nuova piaga del linciaggio. E scrive: tre autobiografie, infiniti discorsi, centinaia di articoli ed editoriali.
Di tutto questo, il libro che abbiamo sotto mano — Narrative of the Life of Frederick Douglass, an American Slave, Written by Himself — pubblicato nel 1845, narra la prima fase: la formazione di una coscienza, la costruzione di sé come passaggio ineludibile per una liberazione spirituale e materiale insieme. Non è un documento umano, i patetici ricordi di un fuggiasco e di una vittima, ma l’orgogliosa affermazione di una irriducibile coscienza intellettuale che crea se stessa attraverso la voce e la scrittura, svelando i paradossi dell’identità personale e nazionale. Più tardi, Douglass continuerà a scrivere l’unico libro di cui è capace e che gli interessi veramente, il libro della sua vita: My Bondage and My Freedom (1855) rilegge l’esperienza di schiavo nel contesto della lotta per l’emancipazione; Life and Times of Frederick Douglass (1881, rivisto nel 1892) è il consuntivo, deluso e orgoglioso, di una vita che ha segnato il suo tempo.
Frederick Douglass non è del tutto ignoto ai lettori italiani. La pionieristica: traduzione di Bruno Maffi (Milano, il Saggiatore), risale al 1962: la ripresentiamo qui accompagnata all’introduzione scritta allora. Nel 1978 usciva una traduzione parziale di Life and Times (Savelli, 1978), tradotto da Serena Pelaggi e curato da Carole Beebe Tarantelli. Ma forse solo oggi siamo in grado di leggerlo con occhi nuovi, con alle spalle anni cruciali di auto-ricostruzione della storia culturale afro-americana. Oltre alla denuncia, possiamo leggere oggi più nitidamente l’affermazione; oltre alla fuga dall’America schiavista, possiamo riconoscere la rivendicazione di un’America diversa che non esiste ancora.