Il 1° gennaio 1834 lasciai Mr. Covey e passai al servizio di un certo William Freeland, che abitava a tre miglia circa da St. Michael’s.
Ben presto mi accorsi che costui era tutt’altro tipo.
Sebbene non ricco, era quello che si chiamerebbe un gentiluomo colto del Sud. Come ho detto, Mr. Covey era un esperto “domatore e sorvegliante di schiavi”. Il primo (sebbene fosse un padrone) sembrava nutrire un certo rispetto dell’onore, una certa reverenza della giustizia, un certo riguardo dell’umanità; il secondo sembrava insensibile a ogni sentimento di tal fatta. Mr. Freeland aveva molti difetti comuni ai padroni, come quello d’essere passionale e facile all’ira, ma, per amor di giustizia, devo aggiungere che non aveva nessuno dei vizi degradanti ai quali Mr. Covey era costantemente proclive. L’uno era aperto e franco, sapevamo sempre dove trovarlo e come prenderlo; l’altro era un abile simulatore, che poteva comprendere solo chi fosse abbastanza furbo da scoprire la trama ben concepita delle sue frodi. Un altro punto di vantaggio era che il nuovo padrone non pretendeva d’essere, né si professava, religioso; il che, a parer mio, era una gran bella cosa. Non esito infatti a proclamare che la religione del Sud è solo una copertura dei più orribili delitti - la sanatoria della barbarie più indegna, la santificatrice delle frodi più ripugnanti - un turpe scudo sotto il quale trovano protezione gli atti più vili, malvagi, infernali e grossolani, dei proprietari di schiavi.
Se mai dovesse capitarmi d’essere ricondotto nelle catene della schiavitù, giudicherei la peggior calamità che mi possa colpire l’essere schiavo di un padrone religioso. Infatti, di tutti i proprietari in cui mi sono imbattuto, i peggiori sono i religiosi. Li ho sempre trovati i più vili e meschini, i più crudeli e bugiardi.
Destino volle, per mia disgrazia, non solo che appartenessi ad un proprietario religioso, ma che vivessi in una comunità di simili devoti, perché, a pochi passi dal Signor Freeland abitava il reverendo Daniel Weeden, e nella stessa zona risiedeva il reverendo Rigby Hopkins, tutti e due membri e ministri della Chiesa Metodista Riformata.
Il primo possedeva, oltre a tutto il resto, una schiava di cui mi sfugge il nome. Ebbene, la schiena di costei rimaneva letteralmente escoriata per settimane intere dalla frusta di quel malvivente “timorato di Dio“. Solito a arruolare giornalieri, la sua massima era che, si comportassero bene o male, è dovere del padrone frustare ogni tanto lo schiavo per ricordargli l’autorità di chi lo possiede.
Tale la sua teoria, e tale la sua pratica.
Peggio ancora era Mr. Hopkins. Il suo maggior vanto era di saper tenere a posto gli schiavi, e il tratto caratteristico del suo governo consisteva nel frustarli prima ancora che lo meritassero. Egli riusciva sempre a avere uno o più schiavi da scudisciare ogni lunedì mattina, e lo faceva sia per tenerne sveglie le paure, sia per seminare il terrore in quelli che risparmiava.
Il suo principio, per impedire che si commettessero peccati grossi, era di menar la frusta per punire i più piccoli. Trovava sempre una scusa buona per frustare uno schiavo.
Chi non conosce la vita nelle piantagioni si stupirebbe dell’incredibile facilità con cui un proprietario riesce a trovare il pretesto per fustigare la manodopera servile. Una parola, un gesto, uno sguardo - un errore, un caso, una debolezza - sono tutti argomenti per cui si può, in qualunque momento, assaggiare la frusta.
Lo schiavo ha l’aria imbronciata? Vuol dire che ha il diavolo in corpo, e bisogna cacciarglielo fuori a scudisciate. Risponde a alta voce quando il padrone gli rivolge la parola? Si è montato la testa, e bisogna rimetterlo al suo posto. Dimentica di scoprirsi all’avvicinarsi di un bianco? Manca di rispetto, bisogna raddrizzarlo. Si azzarda a difendere la sua condotta quando il padrone la censura? È colpevole di arroganza, uno dei peggiori crimini di cui lo schiavo possa macchiarsi. Si prende la libertà di suggerire un modo di fare diverso da quello ordinato dal padrone? È un presuntuoso, monta in cattedra; nulla, meno di una frustata, fa al caso suo. Arando rompe l’aratro - vangando spezza la vanga? Colpa della sua trascuratezza, delitto che significa nerbate.
Mr. Hopkins trovava sempre qualcosa del genere per giustificare l’uso del suo scudiscio, e di rado se ne lasciava sfuggire l’occasione. Non v’era, in tutta la contrada, uomo col quale gli schiavi non preferissero vivere, piuttosto che col reverendo. Eppure, per miglia e miglia intorno, non v’era uomo che si professasse più intensamente religioso o partecipasse attivamente ai revivals - uomo rispettoso delle diverse pratiche di culto, o devoto in famiglia - uomo che pregasse presto al mattino e tardi la sera, che pregasse forte e a lungo, come questo reverendo domatore di schiavi, Rigby Hopkins.
Ma torniamo al Signor Freeland e alle mie esperienze sotto di lui.
Come il Signor Covey, egli ci dava abbastanza da mangiare; diversamente da lui, ci dava tempo sufficiente per i pasti. Ci faceva lavorare sodo ma sempre fra l’alba e il tramonto. Esigeva che si sbrigasse una gran quantità di lavoro, ma ci riforniva di buoni utensili con cui lavorare. La sua fattoria era vasta, ma v’erano braccia sufficienti per coltivarla, e, in confronto a molte fattorie vicine, per lavorare con calma. Il mio trattamento in casa sua fu celestiale, paragonato a quello che mi aveva inflitto il Signor Edward Covey. Personalmente, il Signor Freeland non aveva in proprietà che due schiavi, di nome Henry Harris e John Harris. Tutti gli altri erano noleggiati, e comprendevano me, Sandy Jenkins [11] e Handy Caldwell.
Henry e John erano molto intelligenti, e bastarono pochi giorni dal mio arrivo perché riuscissi a trasmettergli un forte desiderio di imparare a leggere: desiderio che ben presto si comunicò a tutti gli altri. Quanto prima, misi nelle loro mani dei vecchi sillabari, e guai se non avessi accettato di tener scuola la domenica! Accettai, dunque, e spesi tutte le domeniche nell’insegnare a leggere a questi miei compagni di sventura. Nessuno di loro conosceva l’abbiccì, prima che arrivassi io. E quando, nelle fattorie vicine, si seppe che cosa accadeva nella nostra, un certo numero di schiavi colse subito al volo questa piccola occasione di istruirsi. Era inteso fra tutti che se ne dovesse fare il minor rumore possibile: era necessario tenere i nostri devoti padroni di St. Michael’s all’oscuro del fatto che, invece di passar la domenica in lotte, pugilati e sbornie di whisky, cercavamo di imparare a leggere la parola di Dio; perché essi preferivano vederci impegnati in quegli svaghi umilianti piuttosto che ansiosi di comportarci come esseri dotati di ragione, morali e responsabili.
Mi bolle il sangue, se penso come i Signori Wright Fairbanks e Garrison West entrambi capiclasse metodisti, e altri della stessa risma, si avventarono su di noi con pietre e randelli e - loro che si proclamavano cristiani, umilissimi seguaci di Cristo! - sciolsero la nostra prima e virtuosa scuoletta domenicale! Ma sto ancora divagando… Tenevo scuola in casa di un nero libero il cui nome credo prudente tacere, perché, se fosse conosciuto, potrebbe attirargli grossi fastidi, sebbene il crimine di dar lezione a dei neri sia stato commesso dieci anni fa. Avevo quaranta alunni per volta, e del tipo giusto, cioè ardentemente ansiosi d’imparare, e un po’ di tutte le età, anche se in prevalenza uomini e donne anziani. Ricordo quelle domeniche con una commozione difficile da esprimere. Erano, per la mia anima, giornate radiose. Il compito d’istruire i miei cari fratelli in schiavitù era il più dolce di cui mi si potesse far grazia. Ci volevamo tutti bene, e lasciarli alla fine della domenica era una vera croce. Quando penso che quelle anime gentili sono oggi rinchiuse nella prigione della schiavitù un nodo mi serra la gola, e son quasi tentato di chiedere: “È dunque vero che un Dio giusto governa il mondo? E perché tiene nella destra i fulmini, se non per abbattere il potente e liberare la vittima dagli artigli del suo oppressore?” Le care anime venivano alla mia scuoletta della domenica non perché il fatto fosse di moda, né io insegnavo loro perché occuparsi di faccende simili fosse oggetto di encomio. A ogni momento che passavano nella mia scuola, essi rischiavano la cattura e trentancinque frustate. Venivano perché desideravano imparare; perché i loro crudeli padroni ne avevano inaridito le menti, le avevano avvolte in una tenebra completa. Io li istruivo perché far qualcosa che sembrasse un contributo al miglioramento delle condizioni della mia razza era la gioia dell’anima mia.
Tenni lezione per quasi tutto l’anno che passai in casa Freeland; e, d’inverno, a parte la scuola della domenica, dedicai tre sere per settimana all’insegnamento privato. E ho la soddisfazione di sapere che i frequentatori della mia scuoletta hanno imparato a scrivere e che almeno uno è libero grazie al mio aiuto.
L’anno passò senza incidenti. Pareva solo la metà dell’anno che l’aveva preceduto - così, senza che subissi una nerbata! E certo devo riconoscere che Mr. Freeland era il miglior padrone fra quanti ne ebbi mai, finché non divenni padrone di me stesso; ma della serenità in cui l’anno trascorse fui soprattutto debitore alla compagnia dei miei fratelli schiavi. Erano anime gentili, e possedevano cuori non solo buoni, ma generosi. Eravamo legati a filo doppio. Io li amavo di un amore come non ne ho mai provato l’eguale per nessuno.
A volte, si dice che gli schiavi non si vogliano bene, o non abbiano fiducia uno nell’altro. In risposta a questa diceria, posso dichiarare che non volli mai bene e non ebbi mai fiducia in nessuno, più che nei miei compagni in schiavitù, specialmente in quelli coi quali vissi dal Signor Freeland. Credo che saremmo morti l’uno per l’altro: non facevamo mai nulla, di qualunque importanza fosse, senza consultarci a vicenda; non agivamo mai separatamente. Eravamo un tutto unico, non solo per temperamento e inclinazione, ma per le sofferenze alle quali la condizione di schiavo esponeva ciascuno di noi.
Alla fine del 1834, Mr. Freeland rinnovò per l’anno successivo il mio contratto di affitto. Ma ormai cominciavo a sognare di vivere in terra libera e non solo con Freeland (che vuole appunto dire “terra libera”), e non me la sentivo più di servire né lui né altri padroni. Dal principio dell’anno, cominciai a prepararmi a una lotta finale che decidesse in un modo qualunque il mio destino. Guardavo in alto. Eccomi vicino alla maggiore età; ma gli anni si erano susseguiti senza che cessassi di rimanere schiavo. Questo pensiero mi rodeva: bisognava far qualcosa! E decisi che il 1835 non sarebbe finito senza un tentativo da parte mia di liberarmi. Ma non volevo accarezzare da solo questo sogno. I miei fratelli mi erano cari: ardevo di renderli partecipi di una decisione che ci avrebbe dato la vita. Perciò, sebbene con molta cautela, presi a sondarne per tempo le idee e le impressioni sul loro stato, e a imbeverli di pensieri di libertà.
Mentre studiavo i mezzi e i modi della nostra evasione, non mi lasciavo sfuggire nulla per imprimere in loro il senso dell’inumanità e della grossolana frode, che ha nome schiavitù.
Andai prima da Henry, poi da John, infine dagli altri. In tutti trovai cuori saldi e spiriti generosi. Erano pronti ad ascoltare e, se si proponeva loro un piano attuabile, pronti a agire. Era proprio ciò che mi occorreva. Spiegai che, se accettavamo la schiavitù senza almeno un tentativo di affrancarci, non eravamo uomini. Ci incontrammo spesso, ci scambiammo le nostre speranze e paure, ripetemmo le difficoltà vere o immaginarie che saremmo stati chiamati a superare. A volte, eravamo quasi propensi a rinunziare a tutto accontentandoci del nostro destino sciagurato; a volte eravamo fermi come rocce nella decisione di evadere. Ogni qualvolta suggerivamo un piano, v’era come un brivido in mezzo a noi - le probabilità erano così scarse! Il nostro cammino era irto di ostacoli; se anche riuscivamo a raggiungerne la fine, il nostro diritto alla libertà restava discutibile - potevamo essere sempre ricondotti in schiavitù.
Di qua dall’Atlantico, non vedevamo posto in cui vivere liberi. Non sapevamo nulla del Canada. La nostra conoscenza del Nord non si spingeva oltre New York; ed arrivarci, ed essere continuamente assillati dall’eventualità orribile di tornare sotto il giogo - con la certezza d’essere trattati dieci volte peggio di prima - era un pensiero da far rabbrividire, e non facile da vincere.
A volte la situazione ci appariva così: a ogni cancello per il quale passavamo c’era un custode, a ogni traghetto una guardia, a ogni ponte una sentinella, in ogni bosco una pattuglia. Eravamo accerchiati da tutte le parti. Qui erano le difficoltà, vere o supposte - il bene da cercare, il male da evitare. Da un lato la schiavitù, una realtà che incombeva dura e fosca su di noi - le vesti già rosse del sangue di milioni d’uomini, le unghie avidamente affondate nelle nostre carni - dall’altro, lontano lontano in una terra nebulosa, sotto la tremula luce della stella polare, dietro chissà quale collina spoglia o montagna coperta di neve, una libertà dubbia - semicongelata - che ci chiamava a sé, che ci offriva ospitalità. Tanto bastava, a volte, per esaltarci; ma, se ci permettevamo di studiare il nostro cammino, spesso ne eravamo sgomenti. Vedevamo da ogni lato una cupa morte, che assumeva forme spaventose. Ora la fame ci costringeva a mangiare la nostra stessa carne - ora combattevamo con le onde, e affogavamo - ora eravamo raggiunti e fatti a pezzi da una muta di orribili mastini. Eravamo punti da scorpioni, inseguiti da belve feroci, morsi da serpenti, e infine, a pochi passi dalla meta - dopo aver superato a nuoto fiumi e corsi d’acqua, evitato sciacalli, dormito nei boschi, sofferto la nudità e la fame - eravamo presi dai nostri inseguitori e, per aver osato resistere, uccisi sul posto!
Ve lo dicò io che queste immagini, a volte, ci atterrivano inducendoci “piuttosto a sopportare quei mali che avevamo anziché correre ad altri che non conoscevamo” [12].
Giungendo alla ferma decisione di evadere, noi facevamo molto più di Patrick Henry quando si pronunciò sulla libertà e la morte. Nel caso nostro la libertà era dubbia e, se fallivamo, la morte quasi sicura. Ma, da parte mia, preferivo la morte a una schiavitù senza domani.
Un giorno Sandy, uno della partita, si tirò indietro, non cessando tuttavia di incoraggiarci; e la combriccola si ridusse a Henry Harris, John Harris, Henry Bailey, Charles Roberts e me. Henry Bailey era mio zio e apparteneva al mio stesso padrone. Charles, che sposò mia zia, apparteneva al suocero del mio padrone, Mr. William Hamilton. Il piano sul quale finimmo con l’accordarci era di prendere una canoa grossa, di quelle di Hamilton, e, la notte del sabato prima delle vacanze di Pasqua, risalire la Chesapeake Bay. Giunti al vertice del golfo, a settanta-ottanta miglia dal luogo in cui vivevamo, avremmo abbandonato la canoa alla deriva e proseguito a piedi, orientandoci sulla stella polare [13] fino a superare la frontiera del Maryland.
La scelta della via d’acqua dipendeva dal fatto che così rischiavamo meno il sospetto di un’evasione; speravamo di passare per pescatori mentre, prendendo la via di terra, ci saremmo esposti a ostacoli di ogni genere: ogni bianco poteva, se lo avesse voluto, fermarci e sottoporci a controllo.
La settimana prima del giorno stabilito, scrissi diversi lasciapassare, uno per ciascuno di noi. A quanto ricordo, essi erano così concepiti:
Certifico con la presente che io, sottoscritto, ho dato al latore, mio schiavo, piena libertà di recarsi a Baltimora per trascorrervi le vacanze di Pasqua. Scritto di mio pugno ecc., 1835. William Hamilton, presso St. Michael’s Talbot County, Maryland.
Noi, per la verità, non andavamo affatto a Baltimora; ma nel risalire il golfo puntavamo nella sua direzione, e i salvacondotti miravano a proteggerci entro i limiti della Chesapeake Bay.
Man mano che l’ora della partenza si avvicinava, la nostra ansietà crebbe. Per noi, era davvero una questione di vita o di morte. La fermezza della nostra decisione stava per essere messa alla prova. Io, in tutto questo tempo, mi affannai a rimuovere ogni dubbio, a spiegare ogni difficoltà, a disperdere ogni paura, a ispirare in tutti la decisione indispensabile al successo dell’impresa, assicurandoli che, fatta la prima mossa, metà della vittoria era in pugno; avevamo parlato abbastanza; bisognava agire, ora o mai; se non avevamo intenzione di partire adesso, tanto valeva incrociar le braccia, sederci e riconoscerci inadatti ad altro che a essere schiavi vita natural durante. Ma, questo, nessuno di noi era disposto a ammetterlo. Eravamo tutti fermamente decisi; e al nostro ultimo incontro ripetemmo il giuramento solenne di partire senza fallo all’ora e al giorno stabilito, verso la libertà.
Ciò accadeva alla metà della settimana la cui fine doveva assistere alla nostra evasione. Come al solito, ci recavamo ai campi nei quali eravamo dispersi; ma col cuore in tumulto al pensiero dell’impresa audace che ci stava dinnanzi. Cercavamo di nascondere il più possibile i nostri sentimenti; e credo che ci riuscimmo. Dopo un’attesa tormentosa, l’alba del sabato nella cui notte saremmo partiti spuntò. Io la salutai con gioia, per quanto portasse con sé un po’ di tristezza; avevo trascorso senza chiuder occhio la notte del venerdì. Probabilmente ero più in ansia di tutti gli altri perché, di comune intesa, la responsabilità direttiva della faccenda era stata affidata a me; da me dipendeva in massima parte il suo successo o il suo fallimento; mie erano insieme la gloria del primo o l’umiliazione del secondo. Le ore piccole di quella mattina furono come non ne avevo provate mai, né spero di doverne provare mai più. Alle prime luci andammo, come al solito, nei campi. Dovevamo spargere del letame; e d’un tratto, mentre si era così occupati, mi prese una sensazione indescrivibile, nella cui pienezza mi rivolsi a Sandy che mi era a due passi, e bisbigliai: “Siamo traditi!“. “Be’” rispose lui “lo stesso pensiero mi è venuto proprio ora”. Non dicemmo altro. Il nostro era più che un sospetto: era una certezza assoluta.
Al noto suono del corno, rientrammo per la colazione del mattino: io, più per la forma che per il desiderio di metter qualcosa sotto i denti. Stavo per entrare nel cortile, quando vidi dirigersi verso il cancello quattro bianchi con due uomini di colore: i primi a cavallo, i secondi dietro, apparentemente legati. Li osservai mentre, giunti al cancello, facevano tappa e legavano i negri al palo di sostegno; che cosa bollisse in pentola, non riuscivo a capire. Pochi minuti dopo, ecco Mr. Hamilton arrivare al galoppo con un impeto che tradiva una violenta emozione, e fermarsi davanti alla porta di casa. Chiese se Padron William era dentro; e quando gli fu risposto che no, era nel granaio, senza balzar di sella proseguì come un fulmine, e non più di cinque minuti dopo era di ritorno con Mr. Freeland. Intanto, i tre gendarmi si facevano avanti e, smontati, legavano i cavalli per raggiungere Padron William e il Signor Hamilton che tornava dal granaio; e dopo un breve conciliabolo vennero alla porta della cucina, in cui non si trovava nessuno all’infuori di me e John (Henry e Sandy erano anch’essi nel granaio). Mr. Freeland mise dentro la testa e mi chiamò per nome, dicendo che certi Signori volevano parlarmi. Io mi feci sulla soglia e chiesi che cosa desideravano: di colpo venni acciuffato e, senza curarsi affatto di rispondere, i cinque presero a legarmi costringendomi con la frusta a tener le mani unite. Invano insistevo che mi si spiegassero le ragioni di tutto quel trambusto: solo quando fui ben legato mi fu risposto che mi ero messo in “un pasticcio” e che dovevo subire un interrogatorio al cospetto del padrone; se le accuse risultavano false, non mi sarebbe stato torto un capello.
In un battibaleno, i cinque riuscirono a legare anche John; poi si rivolsero a Henry, che era tornato dal granaio, ordinandogli di unire le mani dietro la schiena. “No che non le unisco!” rispose lui, in un tono fermo denotante la disposizione a sopportare tutte le conseguenze del rifiuto. “Ah, non le unisci?” disse Tom Graham, il gendarme. “Non le unisco!” ripeté Henry, a voce ancor più alta. Allora due dei gendarmi tirarono fuori le loro lucenti rivoltelle e giurarono, per il Creatore, di farlo ubbidire o stenderlo a terra.
Impugnando l’arma col dito sul grilletto, gli si avvicinarono, dicendo nello stesso tempo che o si decideva a unir le mani, o gli avrebbero bruciato quel suo maledetto cervello.
“Sparatemi! sparatemi!” rispose Henry. “Potete uccidermi una sola volta. Sparate, dunque, che il diavolo vi porti! Non mi lascio legare!“. Lo disse in tono alto, di sfida; e con una mossa fulminea strappò le pistole dalla mano di ognuno dei gendarmi. Tutti allora gli si buttarono sopra e, dopo una gragnuola di botte, finalmente riuscirono a bloccarlo. Non so come, durante la zuffa, io riuscii a tirar fuori il mio lasciapassare e a gettarlo nel fuoco senza essere scoperto. Ora eravamo tutti legati e stavamo per essere condotti alla prigione di Easton, quando Betsy Freeland, madre di Mr. William, apparve sulla soglia con una manciata di biscotti e li distribuì a Henry e John. Poi, rivolgendosi a me, si sgravò della seguente filippica: “Tu, demonio! Tu, demonio giallo! Tu hai messo in testa a Henry e John il ghiribizzo di fuggire! Se non era per te, diavolo mulatto dalle gambe lunghe, Henry e John non ci sarebbero mai arrivati!”
Io non risposi e fui messo immediatamente in cammino. Solo un attimo prima della zuffa con Henry, Mr. Hamilton aveva proposto che ci perquisissero per trovare il salvacondotto che, a quanto si narrava, Frederick aveva preparato per sé e per tutti gli altri. Per buona sorte, mentre si disponeva a attuare il proposito, il suo aiuto si rese necessario per legare Henry, e l’eccitazione che accompagnò il tafferuglio glielo fece passar di mente, se non è che, date le circostanze, l’abbia ritenuto inopportuno. Così, finora, l’intenzione di evadere non era provata. A metà strada circa da St. Michael’s, mentre i nostri angeli custodi ci precedevano, Henry mi chiese che cosa dovesse fare del suo salvacondotto. Gli consigliai d’inghiottirlo e non confessare nulla, e la stessa parola d’ordine passammo agli altri. ” Non confessare nulla!” ripetemmo in coro. La nostra fiducia reciproca non era scossa: eravamo decisi, ora come prima della disgrazia, a vincere o a essere sconfitti insieme, e pronti a tutto.
Dopo quindici miglia percorse dietro i cavalli giungemmo a Easton, fummo sbattuti in prigione, e qui sottoposti a una specie d’interrogatorio. Tutti negammo di aver concepito l’idea di darci alla macchia: e negammo più per smontare l’accusa che per la speranza di evitare d’esser messi in vendita, cosa alla quale, come ho detto, eravamo già preparati. Il fatto è che camminavamo come un sol uomo, poco preoccupandoci di dove saremmo finiti: la separazione era ciò che temevamo più di tutto - di tutto, voglio dire, prima della morte. Ben presto apparve chiaro che l’accusa si basava sulle dichiarazioni di un unico teste; quale, il padrone non volle dirci; ma noi fummo unanimi nel decidere chi aveva cantato. Alla prigione ci consegnarono allo sceriffo Mr. Joseph Graham, che ci assegnò a due celle diverse: Henry, John e io in una, Charles e Henry Bailey nell’altra. Ci separavano, era chiaro, per impedirci di stabilire una linea di difesa comune.
Non eravamo in prigione da più di venti minuti, quando un nugolo di mercanti e agenti di mercanti di schiavi sciamò dentro a osservarci e assicurarsi che fossimo in vendita. Non avevo mai visto una congrega simile! Una banda di pirati non è mai stata così simile a suo padre, il diavolo; pareva d’essere all’inferno! Ridevano e ghignavano di noi, dicendo: “Ehi, ragazzi, vi abbiamo o non vi abbiamo?” E dopo averci scherniti in mille modi, cominciarono a esaminarci a uno a uno per stabilire quanto valessimo. Ci chiedevano, gli spudorati, se non ci sarebbe piaciuto averli come padroni! Noi non rispondevamo, lasciando che decidessero come meglio potevano; al che uscivano in orribili bestemmie, e dicevano che, se appena ci avessero avuti per le mani, in quattro e quattr’otto ci avrebbero cavato il diavolo di corpo.
Comunque, in prigione ci trovammo molto meglio di quanto non ci fossimo aspettati. Non che ci dessero molto cibo, né di quello buono; ma la cella era discreta e non sudicia, e dalle finestre potevamo vedere che cosa succedeva per le strade, il che era molto meglio che se ci avessero sbattuti in quelle tetre e umide guardine. Inoltre, tutto sommato, col carceriere ci trovammo discretamente.
Subito dopo la fine delle vacanze di Pasqua, contro ogni aspettativa Mr. Hamilton e Mr. Freeland vennero a Easton, liberarono Charles, i due Henry, e John, e li ricondussero alle rispettive fattorie, lasciandomi solo. Il distacco, che giudicavo ormai definitivo, mi addolorò più di qualunque altra cosa, perché ero pronto a tutto fuorché all’idea di lasciarci. Immagino che i padroni, dopo essersi consultati, avessero concluso che, il gran colpevole di tutto essendo io, era crudele far soffrire l’innocente alla stessa stregua del reo, e avevano deciso di riprendersi gli altri e vendere me come monito solenne ai rimasti. Ad onore del nobile Henry, va detto che parve non meno riluttante a lasciar la prigione per la casa, che, qualche giorno prima, la casa per la prigione. Ma sapeva che, se ci vendevano, con tutta probabilità saremmo stati divisi; e poiché era nelle loro mani, concluse di tornarsene a casa senza reagire.
Così venni abbandonato al mio destino, tutto solo fra le quattro pareti di una cella di pietra.
Appena qualche giorno prima ero stato pieno di speranze, mi ero illuso di giungere sano e salvo in terra libera: ora ripiombavo nel buio, schiacciato da una disperazione estrema. Addio libertà! pensavo. Fu quindi con mio grande stupore che, alla fine di un’altra settimana passata in queste condizioni di spirito, vidi il mio padrone, Capitan Auld, piombare a Easton e tirarmi fuori per mandarmi da un suo amico nell’Alabama, e poco dopo, invece che nell’Alabama, spedirmi - per una ragione o per l’altra - a Baltimora, affinché imparassi un mestiere, in casa di suo fratello Hugh. Così, dopo un’assenza di tre anni e un mese, mi si consentiva di tornare nella mia vecchia casa di città. Evidentemente, dalle nostre parti c’era una forte ruggine contro di me, e il mio padrone aveva creduto opportuno, prima che mi facessero la pelle, di darmi il largo.
Poche settimane dopo il mio arrivo, Padron Hugh mi noleggiò a Mr. William Gardner, proprietario di un grosso cantiere navale a Fell’s Point. Mi ci mandava a imparare l’arte del calafato; ma il posto, a questo fine, era il meno adatto. Quella primavera Mr. Gardner era tutto preso dalla costruzione di due grosse navi da guerra, che si voleva fossero state ordinate dal governo messicano e il cui varo doveva avvenire non più tardi del luglio dello stesso anno, in mancanza di che egli avrebbe perso una somma considerevole. Perciò, quando entrai nel cantiere si lavorava a rotta di collo, e non c’era tempo di insegnare nulla. Ognuno doveva fare il lavoro che conosceva, e basta. Così, appena assunto, Mr. Gardner mi comandò di attenermi rigorosamente agli ordini dei carpentieri, che era un altro modo di consegnarmi mani e piedi legati all’arbitrio di settantacinque lavoranti, ognuno dei quali dovevo considerare un mio padrone, e le cui parole, per me, dovevano essere legge.
La situazione era delle più sgradevoli.
Certi giorni, avrei dovuto possedere non due, ma una dozzina di braccia. Nel giro di un minuto ero chiamato dieci volte. Tre o quattro voci mi apostrofavano nello stesso tempo: “Fred, dammi una mano a calafatare questo pezzo di legno“, “Fred, vieni a tenere quest’asse“, “Fred, portami quel cilindro“, “Fred, va a prendere un altro secchio d’acqua“, “Fred, aiutami a segare questa punta di legno“, “Fred, sbrigati, c’é bisogno della leva“, “Fred, reggimi questa trave“, “Fred, va dal fabbro a procurarti un altro punzone“, “Urrah, Fred, corri a prendere uno scalpello“, “Ehi, dico, Fred, quando ti decidi a accendere il fuoco sotto la caldaia?“, “Olà, nigger; vieni un po’ a girare questa macina“, “Su, in fretta, muoviti! Spingi avanti questo legno!“, “Bé, moretto, che ti prenda un colpo, scalda della pece!“, “Hallo! Hallo! Hallo! (tre voci in una volta). Vieni qua, va là, resta dove sei! In malora, se ti muovi ti faccio a pezzettini!“.
Fu questa, per otto mesi, la mia scuola; e ci sarei rimasto di più se non avessi avuto una dannata rissa con quattro apprendisti bianchi, dove per poco non ci rimisi l’occhio sinistro senza contare le ammaccature in altre parti del corpo.
La faccenda andò così: fino a pochissimo tempo dopo il mio arrivo, carpentieri bianchi e neri lavoravano d’amore e d’accordo, e nessuno sembrava trovarci nulla di strano. Tutti i lavoranti sembravano soddisfatti, anche perché, fra i carpentieri di razza nera, molti erano liberi. Insomma, pareva un idillio. D’un tratto, i bianchi incrociarono le braccia e dichiararono di non voler più lavorare insieme con gli operai di colore, adducendo come pretesto che, se gli si dava spago, quelli avrebbero finito per rubargli il mestiere e i poveri bianchi sarebbero rimasti disoccupati. Perciò, dissero, sentivano di doverla far finita. E, approfittando della necessità in cui si trovava Mr. Gardner di non perdere un minuto, smisero di lavorare, giurando che non avrebbero ripreso se prima non si licenziavano i negri. Ora, sebbene formalmente la cosa non si estendesse a me, di fatto ne risentii anch’io. Ben presto i miei compagni apprendisti trovarono che lavorare con me era una vergogna; cominciarono a darsi delle arie e a dire che i niggers si stavano impadronendo del paese e meritavano d’essere fatti fuori in blocco; e, incoraggiati dai lavoranti fissi, si misero a rendermi dura la vita molestandomi e, a volte, anche picchiandomi.
Io, fedele al voto fatto dopo lo scontro con Mr. Covey, restituivo la pariglia incurante delle conseguenze che potevano derivarne; e, finché riuscii a tenerli divisi, ebbi la meglio, perché ero in grado di batterli tutti, presi uno per uno. Ma alla fine si misero d’accordo e mi aggredirono tutti in una volta, armati di pietre, bastoni e mazze. Ne avevo davanti uno con mezzo mattone in mano, uno a ogni lato e un altro dietro, e mentre cercavo di tenere a bada il primo e gli altri due, il quarto mi assestò una terribile mazzata sulla testa. Caddi a terra tramortito, e loro addosso, a pugni chiusi. Io per un po’ non reagii cercando di raccogliere le forze, poi d’improvviso diedi un violento scrollone e mi levai in ginocchio. Fu allora che uno di loro, col suo pesante stivale, mi vibrò una pedata nell’occhio sinistro. Fu come se il globo mi schizzasse via. Comunque, vedendomi con l’occhio chiuso e tutto pesto, quelli mi lasciarono, e io, afferrata una mazza, per un po’ li rincorsi. Ma qui intervennero i carpentieri e, non potendo tener testa a tutti insieme, conclusi che mi conveniva abbandonar l’inseguimento. In realtà, sebbene il fatto si fosse svolto sotto gli occhi di almeno cinquanta operai bianchi, nessuno ci aveva messo una buona parola: anzi, qualcuno aveva gridato: “Ammazzalo, quel dannato negro! Ammazzalo! Ha colpito un bianco!“.
L’unica speranza di salvezza era dunque nella fuga.
Infatti riuscii a mettermi in salvo senza colpi supplementari, ma solo per un pelo; giacché colpire un bianco significa morte per linciaggio - tale era la legge nel cantiere di Mr. Gardner, e non è che fuori ne esistesse una molto diversa, a quanto sembra.
Corsi direttamente a casa e narrai l’accaduto a Padron Hugh. Godo di poter dire che, irreligioso come era costui, la sua condotta fu angelica in confronto a quella di suo fratello Thomas in circostanze analoghe. Ascoltò punto per punto i fatti che avevano portato al triste episodio e mostrò in vario modo d’esserne profondamente indignato, mentre il cuore della mia padrona, già così tenero, si scioglieva di nuovo in compassione, e il mio occhio pesto e il volto rigato di sangue le strappavano le lacrime. Si sedette accanto a me, mi lavò la faccia insanguinata, e con tenerezza materna mi bendò la testa coprendomi l’occhio ferito con una sottile fetta di carne fresca. Assistere a una rinnovata manifestazione di bontà in quella donna già così affettuosa, bastò quasi a ripagarmi di ogni sofferenza.
Intanto Padron Hugh, arrabbiatissimo, sfogava la piena dei suoi sentimenti scagliando maledizioni sugli autori di un simile misfatto. Appena mi sentii un po’ meglio e le ferite si furono rimarginate, mi portò da un legale, Mr. Watson, che teneva studio in Bond Street, per discutere sul da farsi. Mr. Watson domandò chi avesse assistito alla baruffa. Padron Hugh rispose che questa era avvenuta nel cantiere Gardner e a mezzogiorno, quando le maestranze erano al completo. “Il fatto è avvenuto, quanto a questo” disse “e chi sia stato l’aggredito e chi l’aggressore non v’è dubbio.” La risposta di Mr. Watson fu che egli non poteva fare nulla, se un bianco non si faceva avanti a deporre in mio favore: muovere causa soltanto sulla mia parola era impossibile. Fossi stato ucciso in presenza di un migliaio di negri, le loro testimonianze messe insieme non sarebbero bastate a provocare l’arresto dell’assassino. Una volta tanto, Padron Hugh dovette riconoscere che era uno stato di cose deplorevole.
Naturalmente, trovare un bianco che si offrisse di deporre a mio favore e contro i giovani della sua stessa pelle era escluso: neppure chi, forse, avrebbe simpatizzato per me si sarebbe sentito di farlo. Era, in verità, un passo che richiedeva un grado eccezionale di coraggio, perché proprio in quei giorni la più piccola manifestazione di umanità verso un uomo di colore era bollata come abolizionismo, e questo nome esponeva il suo portatore a rischi terrificanti. Da quelle parti e in quell’epoca, le parole d’ordine delle teste calde erano: “All’inferno gli abolizionisti!” e: “A morte i niggers!” Così non se ne fece nulla, e probabilmente non se ne sarebbe fatto nulla nemmeno se fossi rimasto ucciso. Tale era, e tale è, lo stato di cose nella cristiana città di Baltimora.
Non potendo ottener riparazione, Padron Hugh si rifiutò di rimandarmi da Mr. Gardner. Mi tenne con sé, e sua moglie mi curò finché non mi fui ristabilito. Poi mi presentò al cantiere di Mr. Walter Price, dove era capo-officina. Qui mi misero a calafatare le navi e ben presto imparai così bene l’uso dei ferri e della mazzuola, che nel giro di un anno da quando avevo lasciato Mr. Gardner potevo chiedere il salario massimo dovuto ai più esperti calafati.
Ora, per il mio padrone, avevo una certa importanza, perché gli portavo da sei a sette dollari la settimana, a volte anche nove: il mio salario era di un dollaro e mezzo al giorno. Più tardi, imparato il mestiere, cercai lavoro per conto mio contrattando il prezzo e incassando direttamente il salario, e la mia strada divenne molto più piana, la mia situazione molto più agiata. Quando non trovavo impiego, mi concedevo un po’ di riposo, e nelle ore d’ozio le antiche idee di libertà tornavano a serpeggiarmi nelle vene.
Sotto Mr. Gardner, tenuto com’ero in moto perpetuo e in eccitazione continua, non potevo quasi pensare a nulla, salvo alla vita; e pensando alla vita, dimenticavo la libertà.
Ho notato questo, nella mia esperienza di schiavo: ogni qualvolta le mie condizioni miglioravano, invece di rendermi più soddisfatto del mio stato, esse accrescevano soltanto il mio desiderio d’esser libero, e mi suggerivano piani per riuscirvi; per tener buono uno schiavo bisogna renderlo incapace di pensare, annebbiarne le facoltà intellettuali e morali e, se possibile, privarlo dell’uso della mente. Bisogna indurlo a non trovare nulla di anormale nella schiavitù; anzi, fargli sentire che è una cosa giusta. E ciò può attenersi solo se egli smette di essere un uomo.
Come ho già detto, guadagnavo un dollaro e cinquanta centesimi al giorno. Era la mia tariffa; la guadagnavo io; era pagata a me; era mia di diritto; eppure, ogni sabato sera, rincasando dovevo consegnarla, un centesimo sull’altro, a Padron Hugh. E perché? Non perché egli l’avesse guadagnata, o avesse contribuito in qualche modo a guadagnarla, o io gliela dovessi, o potesse rivendicarla in tutto o in parte, ma solo perché aveva il potere di farsela consegnare.
Il diritto di un pirata dalla faccia truce in alto mare, è esattamente lo stesso.