Capitolo XI

Vengo ora alla parte della mia vita, durante la quale meditai e riuscii finalmente ad attuare la fuga dalla schiavitù.

Ma, prima di narrarne le peculiari circostanze, ritengo opportuno notificare l’intenzione di non esporre tutti i fatti connessi a quest’avvenimento. Si potranno capire i motivi determinanti di questa linea di condotta da quanto segue. Per prima cosa, se fornissi un resoconto minuto di ogni fatto, è non solo possibile, ma oltremodo probabile, che altri ne verrebbe messo in difficoltà molto serie. In secondo luogo, tale resoconto indurrebbe i proprietari di schiavi a una vigilanza maggiore di quella che hanno esercitato fino a oggi e quindi a montare la guardia alla porta dalla quale è possibile che uno dei miei fratelli in schiavitù sfugga alle sue catene tormentose.

Sono profondamente addolorato della necessità che mi costringe a sopprimere qualunque cosa importante relativa alla mia esperienza di schiavo. Se fossi libero di soddisfare una curiosità, che so esistere nella mente di molti, con l’esposizione circostanziata di ogni fatto riguardante la mia felice evasione, ciò non solo mi farebbe un piacere immenso, ma accrescerebbe l’interesse pratico del mio racconto. Tuttavia, devo privare me stesso del piacere, e i curiosi della soddisfazione, che ne deriverebbero. Preferisco espormi alle peggiori accuse che persone malevole possano rivolgermi, piuttosto che discolparmi correndo il rischio di chiudere il più esile spiraglio a un mio fratello schiavo che aneli di sciogliersi dai ceppi e dalle catene della schiavitù.

Non ho mai approvato il modo eccessivamente pubblico col quale alcuni dei miei amici del West conducono quella che chiamano la ferrovia sotterranea [14], ma che, in seguito alle loro rivelazioni pubbliche, è divenuta nel grado più esplicito una ferrovia di superficie. Onoro l’audacia di questi uomini e donne di buon cuore; plaudo alla fermezza con la quale volontariamente si espongono a persecuzioni sanguinose confessando di aver favorito la fuga di schiavi; ma non vedo come un simile atteggiamento possa giovare sia a loro che ai fuggiaschi, mentre, all’opposto, vedo e sono certo che queste confessioni aperte fanno un gran male agli schiavi che tentano di liberarsi. Esse non servono a illuminare le vittime, mentre giovano assai a illuminare i carnefici: li stimolano a una maggior vigilanza, aumentano il loro potere di catturare gli evasi. Noi siamo in debito con gli schiavi a sud come a nord della linea Mason-Dixon, e, nell’aiutare sulla via della libertà i secondi, dobbiamo aver cura di non far nulla che possa ostacolare la fuga dei primi. Vorrei, quindi, che si lasciasse lo spietato schiavista in un buio profondo circa i mezzi di evasione adottati dagli schiavi; che lo si lasciasse immaginarsi circondato da torturatori invisibili, sempre pronti a strappare alla sua morsa infernale la preda tremante. Fate che cerchi da sé la via nelle tenebre; che un’oscurità pari al suo delitto cali su di lui; che, a ogni passo fatto nell’inseguire l’evaso, senta di correre il terribile rischio d’essere soverchiato e ucciso da una potenza misteriosa! Non fornite aiuto al tiranno; non tenete alta la lucerna grazie alla quale egli possa distinguere le orme del fratello che si emancipa!

Ma basta di ciò.

Narrerò i fatti relativi alla mia fuga, la cui responsabilità è soltanto mia, e per i quali nessun altro possa venir condannato a soffrire.

Nella prima parte del 1838, divenni terribilmente irrequieto. Non riuscivo a capire perché mai, alla fine di ogni settimana, dovessi versare il premio delle mie fatiche nella borsa del padrone. Quando gli portavo la mia settimana, dopo aver contato il danaro egli soleva guardarmi in faccia con l’ingordigia di un bandito, e chiedermi: “È tutto?” Non si accontentava di meno che dell’ultimo centesimo; ma a volte, quando gli portavo sei dollari, per incoraggiarmi mi regalava sei cents. Essi avevano l’effetto opposto. Li consideravo una specie di ammissione del mio diritto alla somma completa. Il fatto che me ne desse una parte, qualunque fosse, era ai miei occhi una prova che avrei avuto ragione di tenermela tutta. E il fatto di ricevere un dono aggravava le mie condizioni di spirito, perché temevo che, dandomi pochi centesimi, egli si mettesse a posto la coscienza e finisse per credersi un tipo piuttosto distinto di briccone.

Di giorno in giorno il mio scontento cresceva.

Ero sempre con le orecchie tese alla scoperta di mezzi di evasione; e, non trovando mezzi diretti, decisi di cercare di vendere liberamente la mia forza-lavoro per mettere assieme i quattrini necessari allo scopo.

Nella primavera del 1838, quando Padron Thomas venne a Baltimora per certi acquisti di stagione, colsi il momento buono e gli chiesi di lasciarmi cedere in affitto [15]. Egli respinse senza esitare la mia richiesta, dicendo che era un altro stratagemma per tagliare la corda; che non sarei mai andato in nessun posto, senza che lui mi potesse riacciuffare; e che, se mai fuggissi, non avrebbe tralasciato nessun mezzo per riprendermi. Mi esortò a contentarmi del mio stato, e ad essere ubbidiente. Mi disse che se volevo esser felice non dovevo far piani per l’avvenire: se mi comportavo bene, avrebbe avuto cura di me. Anzi, mi consigliò di non pensare minimamente all’avvenire e, quanto alla felicità, di contare unicamente su di lui.

Sembrava consapevole dell’urgente necessità di ottundere le mie capacità di comprensione per adattarmi a subire passivamente la schiavitù. Eppure, malgrado lui e perfino malgrado me stesso, io continuavo a ragionare, e a ragionare sull’ingiustizia della mia condizione di schiavo, e sul modo di uscirne.

Circa due mesi dopo, chiesi a Padron Hugh di accordarmi il privilegio di vendere liberamente la mia forza-lavoro. Egli non sapeva che avevo già fatto la stessa domanda a Padron Thomas, e mi ero sentito opporre un rifiuto. A tutta prima, anch’egli parve incline al rifiuto ma, dopo di averci ripensato, rispose di sì, proponendomi il seguente patto: io avrei avuto tutto il tempo libero di contrattare con quelli pei quali lavoravo, mi sarei trovato un impiego da solo; in cambio di questa libertà gli avrei portato tre dollari alla fine di ogni settimana, restando a mio carico le spese degli utensili del vestiario e dell’affitto. Di affitto avrei pagato due dollari e mezzo la settimana: aggiunto l’uso del vestiario e l’usura degli utensili, le mie spese correnti potevano ammontare a sei dollari circa. O mettere insieme questa somma da consegnare a lui, o rinunziare al privilegio richiesto. Pioggia o sole, lavoro o no, alla fine della settimana il danaro doveva arrivare a destinazione: altrimenti, nulla. Era chiaro che questa sistemazione andava a tutto vantaggio del padrone. Lo sollevava dalla necessità di provvedere a me. Il suo danaro era sicuro. Egli riceveva tutti i benefici del possesso di uno schiavo, senza gli inconvenienti connessi; mentre io pativo tutti i guai della schiavitù, e tutte le ansie della libertà.

Era, lo vedevo bene, un patto da strozzino.

Ma, duro o meno, era meglio del vecchio modo di tirare avanti. Ottenere il permesso di assumersi le responsabilità proprie dei liberi era un passo avanti verso la libertà, e io ero deciso a compierlo. Mi adattai alla dura bisogna di raggranellare soldi. Pronto a lavorare di notte come di giorno, con tenacia e industriosità instancabili guadagnai abbastanza da coprire le spese, e mettere da parte qualche cosa ogni settimana. Così proseguii da maggio a agosto, quando Padron Hugh cambiò idea. Causa di questo mutamento fu che, un sabato sera, non potei versargli la settimana. E se non potei, era perché mi ero recato a dieci miglia circa da Baltimora a un camp meeting [16].

Durante la settimana, fra amici si era rimasti d’accordo di lasciare la città nelle prime ore del pomeriggio di sabato; e io, trattenuto più del previsto dal mio datore di lavoro, mi ero trovato nell’impossibilità di passare a casa da Padron Hugh senza deludere gli amici. D’altra parte, sapevo che quella sera Padron Hugh non aveva un particolare bisogno di soldi: quindi, avevo deciso di andare direttamente al meeting e versargli i tre dollari al ritorno. La permanenza durò ventiquattro ore di più; ma, appena in città, mi affrettai a correre da Padron Hugh per consegnargli ciò che, a parere suo, gli era dovuto. Lo trovai con un diavolo per capello; era tanto se dominava l’ira. Disse che aveva una voglia matta di darmi una bella frustata, e che gli sarebbe tanto piaciuto sapere come avessi osato andarmene senza il suo permesso. Risposi che vendevo la mia forza-lavoro e, finché gli pagavo il prezzo che mi aveva imposto, non vedevo perché dovessi chiedergli dove e quando andare. Questa risposta gli diede da riflettere; e, dopo qualche minuto di meditazione, mi disse che non dovevo più lavorare a tempo; ché la prossima cosa che avrebbe saputo sarebbe stata che ero scappato. Per la stessa considerazione, mi ordinò di riportargli immediatamente gli utensili e il vestiario. Così feci; ma, lungi dal cercare lavoro come ero solito fare prima di vendere liberamente la mia giornata, passai l’intera settimana a braccia conserte.

Era una rappresaglia bella e buona.

Il sabato sera, egli mi chiamò perché, come di consueto, gli versassi la settimana. Risposi che non avevo nulla: non avevo lavorato affatto. Qui per poco non venimmo ai ferri corti: lui inviperito, sacramentando che era deciso a mettermi le mani addosso; io zitto, ma altrettanto deciso, se mi torceva un capello, a restituire colpo per colpo. Non me le diede, tuttavia, e si limitò a dire che in futuro voleva vedermi permanentemente occupato.

Rimuginai la questione per tutto il giorno dopo, che era domenica, e infine stabilii al 3 settembre la data di un secondo tentativo di fuga. Avevo tre settimane per prepararmi al viaggio.

Alle prime luci di lunedì, prima che Padron Hugh avesse il tempo di assumere impegni per conto mio, e per risparmiargli il disturbo di trovarmi lavoro, presi impiego al cantiere del signor Butler, nelle vicinanze del ponte mobile, in quello che si chiama il “City Block“.

Alla fine della settimana portai al mio Padrone da otto a nove dollari.

Egli ne sembrò soddisfatto, e mi chiese perché mai non avessi fatto altrettanto la settimana prima.

Non sospettava quali fossero i miei piani. Se lavoravo sodo, era per togliere anche l’ombra di un sospetto sulle mie intenzioni; e ci riuscii a meraviglia. Credo che non mi ritenne mai tanto soddisfatto delle mie condizioni, come quando mi disponevo a lasciarlo. La seconda settimana passò; ancora una volta gli portai l’intero salario, ed egli se ne rallegrò tanto che mi diede venticinque centesimi, una somma quale è ben raro che un proprietario regali a uno schiavo, e mi raccomandò di fame buon uso. Risposi che l’avrei fatto senz’altro. Esternamente, tutto filava liscio; ma dentro di me c’era tempesta. Mi è impossibile descrivere che cosa sentissi, man mano che l’ora stabilita per la partenza si avvicinava. Avevo a Baltimora un certo numero di amici di buon cuore - amici che amavo quasi come la mia stessa vita, e il pensiero di separarmene per sempre mi pesava più che non possa dire. Sono convinto che migliaia di schiavi rimasti tali spezzerebbero le loro catene, se forti vincoli di affetto non li unissero agli amici. Decisamente, l’idea di lasciare le persone care fu la più dolorosa fra quante mi toccò di vincere. L’affetto per loro era il mio punto debole, e turbava la mia decisione più di ogni altra cosa. Ma a parte ciò, il timore e l’apprensione per un insuccesso superavano quelli che avevo provato ai tempi del mio primo tentativo di fuga. La terribile disfatta allora patita riprese a tormentarmi. Mi rendevo conto che, se non riuscivo questa volta, il mio caso sarebbe divenuto senza speranza, cioè avrebbe suggellato per sempre il mio destino di schiavo. Non potevo sperare di uscirne con meno che la pena più dura, e tagliato fuori da ogni mezzo di salvezza. Non occorreva una fantasia alata, per immaginare le scene terribili attraverso le quali, se avessi fallito, sarei dovuto passare.

L’infamia della schiavitù; e la dolcezza della libertà, mi erano sempre davanti agli occhi. Per me era una questione di vita o di morte.

Ma non mi persi d’animo, e, come avevo deciso, il terzo giorno di settembre del 1838 mi liberai dalle catene, e riuscii a raggiungere New York senza il più piccolo ostacolo. Come ce l’abbia fatta, che sistema abbia adottato, che direzione abbia preso, di quale mezzo di trasporto mi sia servito - tutto questo, per le ragioni già dette, non sarà spiegato.

Spesso mi sono sentito chiedere quali sensazioni provai nel trovarmi in uno Stato libero. È una domanda alla quale non sono mai riuscito a rispondere in modo per me soddisfacente. Fu un attimo di eccitazione incredibile. Il mio stato d’animo era, suppongo, un po’ quello in cui possiamo immaginare si trovi un marinaio quando una nave da guerra amica lo salva dall’inseguimento di un pirata.