7.
L’insonnia delle
albicocche
Vi ricordate il 1973?
The Dark Side of the Moon è in uscita e si appresta a diventare uno degli album dei Pink Floyd che segneranno la storia della musica mondiale, restando in classifica per oltre due anni.
Mentre le radio trasmettono a raffica i brani della band britannica, il 6 ottobre dello stesso anno Egitto e Siria attaccano Israele, dando vita alla guerra del Kippur, un conflitto di poche settimane ma dalle conseguenze che andranno ben oltre i confini dei paesi coinvolti. I paesi arabi dell’OPEC79 decidono di bloccare le esportazioni di petrolio nei confronti dei paesi filo-israeliani, a partire dagli Stati Uniti.
Gli effetti non tardano ad arrivare. In pochi giorni il prezzo del carburante sale alle stelle e si apre quella che i libri di storia definiranno la crisi energetica del 1973.
Anche l’Italia corre ai ripari. Il governo presieduto da Mariano Rumor è costretto a varare misure eccezionali per contrastare la riduzione di greggio. In una sorta di coprifuoco energetico, si spengono i lampioni e si riduce l’orario di apertura dei negozi. Cinema, bar e ristoranti sono obbligati ad abbassare le saracinesche prima del solito. Persino i programmi televisivi terminano alle ventitré per risparmiare energia. È l’anno del primo stop alle auto private, che costringe migliaia di persone a muoversi a piedi o in bici nei giorni festivi. La misura riguarda tutti, finanche il presidente della Repubblica (all’epoca Giovanni Leone) e i ministri del governo, costretti a muoversi a piedi o, in casi eccezionali, con mezzi militari.
I giornali le chiamano «domeniche dell’austerity». Nulla a che vedere con le più recenti domeniche ecologiche istituite contro l’inquinamento. La preoccupazione ha a che fare principalmente con il modello di crescita, che inizia a destare non poche perplessità, tanto che il presidente americano Richard Nixon deve riconoscere che la domanda di energia sta aumentando così rapidamente da superare le risorse disponibili. Per la prima volta si mette in dubbio la sostenibilità del sistema di sviluppo.
Era solo di qualche mese prima il rapporto I limiti della crescita80, che tematizzava la questione dello sviluppo e le possibili conseguenze per il pianeta. La tesi sostenuta da un gruppo di esperti e industriali riuniti nel Club di Roma – fondato, tra gli altri, da Aurelio Peccei – era chiara: «l’inquinamento e il rapido esaurimento delle risorse energetiche rendono imminente quel disastro che un eccessivo ottimismo tecnologico rifiuta invece di prendere in considerazione. L’unica possibilità è quella di ridurre drasticamente l’aumento della popolazione e l’investimento industriale e agricolo, trasferendo risorse ai paesi meno sviluppati»81. Ed erano passati poco più di dieci anni dalla pubblicazione di Primavera silenziosa82, il libro di Rachel Carson considerato pietra miliare di una presa di coscienza ambientale, grazie alla sua potenza evocativa nel denunciare i danni sull’ecosistema e la salute derivanti dall’uso dei pesticidi.
Anche in Italia qualcosa iniziava a muoversi.
A Venturina, una piccola località in provincia di Livorno, in un fazzoletto di terra poco più grande di sei ettari, un gruppo di ricercatori dell’ateneo pisano e della Scuola Normale di Pisa lavora per selezionare le albicocche e recuperarne le antiche varietà. Nasce «l’oasi delle albicocche».
L’intuizione è del professor Rolando Guerriero, che decide di studiare anno dopo anno, stagione dopo stagione, la salute di questi frutti, rapportandola alle variazioni di temperatura nel corso del tempo. Quarant’anni dopo, i dati di questa minuziosa analisi vengono pubblicati su «Scientia Horticulturae»83, un’importante rivista scientifica, e sono la fotografia forse più efficace per spiegare quello che sta accadendo a livello globale e quanti e quali effetti hanno i cambiamenti climatici sulle produzioni agricole e, in definitiva, su ciò che finisce nei nostri piatti.
«Abbiamo osservato quello che è sotto gli occhi di tutti: i cambiamenti climatici ci sono e gli effetti si vedono», dicono Susanna Bartolini e Calogero Iacona, due dei ricercatori che hanno condotto lo studio. Li incontro sui terreni dell’università che si trovano ai piedi dei monti pisani, a pochi chilometri dalla torre pendente, dove si estende una vasta pianura coltivata con le diverse specie oggetto di studio. Ciascun albero, posizionato e classificato in maniera ordinata, ha una storia. Almeno un centinaio le varietà coltivate, alcune delle quali autoctone e oggi in commercio. È il caso della capostipite, la Pisana, dal frutto molto colorato, con la buccia rosso-arancio ricca di antiossidanti naturali, da cui sono nate, attraverso incroci con albicocchi europei ed extraeuropei, alcune varietà più recenti, come ad esempio la Claudia, la Bona o l’Ammiraglia. Ciascuna varietà è stata monitorata, osservata, studiata in ogni fase della crescita, da quando germoglia alla fioritura. Ed è proprio nella fioritura che i ricercatori hanno riscontrato delle anomalie.
«Quello che è accaduto è drammaticamente semplice», osserva la professoressa Bartolini. «A partire dagli anni Novanta, la temperatura media è aumentata di quasi due gradi». Il grafico che tiene in mano mostra la curva della temperatura che cresce di anno in anno, di mese in mese, in particolare tra gennaio e febbraio, mesi cruciali per questo tipo di piante. Già, perché in inverno la pianta va in ‘letargo’, le foglie cadono e le gemme a fiore, cioè quelle che daranno i frutti, si preparano per la schiusura in primavera. In questo periodo, apparentemente inattivo, gli alberi hanno bisogno di accumulare una certa quantità di freddo. Tecnicamente, le dosi che le piante devono assorbire durante la fase di ‘letargo’ invernale vengono chiamate unità di freddo. La quantità di freddo necessaria varia da specie a specie, perché ogni pianta si è evoluta per sopravvivere in uno specifico ambiente. Gli albicocchi, originari della parte nord-orientale della Cina, nel corso dei millenni si sono adattati a climi rigidi, per questo le unità di freddo di cui hanno bisogno variano da 800 a 1.400 a seconda della varietà. Conoscere precisamente la quantità necessaria è fondamentale per decidere dove piantarli. Alcune varietà si adattano bene anche ai climi caldi del Sud Italia, altre hanno bisogno di latitudini più miti.
Il fatto certo è che se le piante non accumulano tutto il freddo necessario, se non affrontano bene la fase del letargo, la riproduzione ne risentirà. È come per noi non dormire durante la notte per il troppo caldo: al mattino ci sentiamo stanchi e affaticati e tutto quello che dobbiamo fare durante la giornata sarà faticoso e poco produttivo. Esattamente ciò che è successo agli albicocchi in questi anni: hanno dormito male perché non sono riusciti ad accumulare abbastanza freddo. E così hanno prodotto meno.
I dati dello studio parlano chiaro: la fioritura è diminuita del 50% e di conseguenza anche la produzione di frutti. «Le piante sono organismi complessi e allo stesso tempo semplici», spiega Calogero Iacona volgendo lo sguardo a una delle piante di cui si prende cura da anni. «Per esempio, lei in questo momento non sta percependo che l’estate è finita». ‘Lei’, la pianta a cui si rivolge il ricercatore, dovrebbe prepararsi per la fase di dormienza, invece è in piena fase vegetativa.
È una giornata di fine ottobre, la temperatura esterna è di 27 gradi, le foglie sono ancora tutte sui rami e non si vede segno alcuno dell’autunno. «La fioritura è uno degli indicatori più usati per gli studi sui cambiamenti climatici», continuano i ricercatori, «perché le variazioni dell’ambiente esterno influenzano le fasi di crescita della pianta, a partire dalla fioritura». Infatti, dalla ripresa vegetativa fino alla caduta delle foglie, nella pianta si susseguono secondo un ordine preciso diversi fenomeni: crescono i frutti della stagione in corso e contemporaneamente ha inizio la crescita della nuova vegetazione e la preparazione delle gemme a fiore per l’anno seguente.
Cosa accadrà alle colture di albicocco è presto per dirlo. Probabilmente sarà necessario, come ipotizzato dallo studio dell’ateneo pisano, spostare la coltivazione di alcune varietà più a nord o individuare nuove varietà capaci di adattarsi a un clima mutato. Una cosa è certa: le piante selezionate in maniera naturale nell’università toscana fanno sempre più fatica a dare i loro frutti e questo mette a rischio un patrimonio incredibile di biodiversità.
«Questi dati ci danno indicazioni per il futuro, perché sarà necessario pensare al miglioramento genetico delle piante attraverso incroci virtuosi che permettano loro di adattarsi a questi cambiamenti», continua la ricercatrice. «Ma il problema non è circoscritto alle albicocche, visto che le stesse evidenze stanno emergendo a livello internazionale per altre specie fruttifere. Insomma», conclude, «le piante sono degli indicatori biologici indiscutibili che ci stanno dicendo che qualcosa sta cambiando, anzi è già cambiato».
79 È l’Organizzazione dei paesi esportatori di petrolio: https://www.opec.org/opec_web/en/.
80 D.H. Meadows, D.L. Meadows, J. Randers, W.W. Behrens III, The Limits to Growth, Universe Books, New York 1972.
81 B. De Marchi, L. Pellizzoni, D. Ungaro, Il rischio ambientale, il Mulino, Bologna 2001, p. 19.
82 R. Carson, Silent Spring, Houghton Mifflin, Boston 1962.
83 S. Bartolini, R. Massai, C. Iacona, R. Guerriero, R. Viti, Forty-Year Investigations on Apricot Blooming: Evidences of Climate Change Effects, in «Scientia Horticulturae», 244, 2019, pp. 399-405, https://www.sciencedirect.com/science/article/pii/S0304423818306885.