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Il disastro dell’industria della carne

Se il sistema della pastorizia rappresenta un importante fattore di mitigazione, gli allevamenti intensivi hanno un impatto enorme sulle emissioni di gas serra, soprattutto quando abbiamo a che fare con allevamenti industriali, ovvero con allevamenti dove gli animali sono costretti in capannoni chiusi, senza possibilità di pascolare.

Associare la parola ‘industriale’ all’espressione ‘allevamento di animali’ può giustamente far storcere il naso. E tuttavia si tratta proprio di una enorme industria, in cui l’animale rappresenta un input utile a produrre carne, latte, uova, latticini, formaggi, insaccati, salumi, prosciutti, cioè gli output.

Da sempre, sugli allevamenti intensivi le visioni sono diametralmente opposte e inconciliabili. Da una parte c’è chi sostiene che la carne fa parte dell’alimentazione umana fin dagli albori. L’associazione Carni sostenibili45, che riunisce operatori dell’industria della carne, in un opuscolo in cui chiede al lettore «quanto ne sai davvero?» si sofferma a raccontare il ruolo della carne nella storia per convincere il consumatore a non «farsi abbindolare dalle fake news» di chi sostiene che la carne non sia sostenibile. Per centinaia di migliaia di anni – si legge nel libretto – gli uomini hanno basato la loro sussistenza sui prodotti della caccia e sui vegetali che crescevano spontaneamente. Successivamente, la progressiva riduzione di pratiche naturali di caccia e raccolta ha gettato le basi per la nascita dell’agricoltura. Con essa l’uomo ha modificato il proprio stile di vita che da nomade è divenuto stanziale. Le pratiche di coltivazione – continua l’opuscolo – si accompagnano alle prime forme di allevamento di animali, selezionati per aiutare il lavoro nei campi e fornire cibo, lana e pellame. Col passare dei secoli e l’aumento della ricchezza, la carne diventa accessibile a (quasi) tutta la popolazione, si assiste alla crescita demografica e dei consumi alimentari e si intensifica la produzione, spingendo l’industria alimentare a far fronte all’incremento della domanda.

Dall’altra parte della barricata c’è invece chi sostiene che la civiltà attuale, per come si è evoluta, non abbia bisogno di mangiare carne perché i nutrienti possono arrivare anche da fonti vegetali. Anzi, sostengono che gli esseri umani non hanno il diritto di uccidere un altro essere vivente per nutrirsi o vestirsi. Tra loro ci sono i vegani. Il padre del termine fu l’inglese Donald Watson, che già nel 1944 – siamo ancora negli anni della seconda guerra mondiale – fonda la Vegan Society a Londra. Watson lo fa in contrapposizione alla Vegetarian Society, di cui era membro attivo e che decide di lasciare quando si vede rifiutare la proposta di inserire all’interno delle linee guida della dieta vegetariana il divieto al consumo di latticini, uova e derivati animali. Da qui vegan, una crasi della parola vegetarian, di cui rimangono le prime e le ultime lettere, per alcuni a simboleggiare «l’inizio e la fine del vegetarianesimo»46.

Come tutti i processi industriali, anche quello della carne produce scarti, in questo caso metano e biossido di azoto. A livello globale, del 23% di gas a effetto serra imputabili al settore agricolo, la maggioranza è rappresentata proprio da questi due.

Per capire di cosa di tratta, come si creano e che impatto hanno sul clima, dobbiamo fare un tour nella fisiologia dei bovini, animali tecnicamente definiti mammiferi poligastrici. Sì, perché a differenza dell’essere umano, che ha un sistema digestivo relativamente semplice dove il cibo, una volta ingerito, giunge allo stomaco e all’intestino per poter essere assorbito e, in parte, espulso, nella mucca gli stomaci sono quattro e hanno funzioni diverse.

Fin da bambini ci rappresentiamo la mucca sempre intenta a masticare. Muove la bocca costantemente per ore, anche se, apparentemente, non ha ingerito nulla. In realtà quello che normalmente fa è rimasticare qualcosa che ha già ingoiato. Il cibo, dopo una prima masticazione grossolana, va a finire nel rumine, una sorta di sacca che può contenere fino a 250 litri. Lì, il bolo alimentare si deposita per poi ritornare in bocca per una seconda masticazione. Quello che accade nel rumine è che il cibo grossolanamente premasticato tende a galleggiare e fermentare: i microrganismi attaccano la cellulosa per ricavarne sostanza nutriente e rilasciano CH4, ovvero metano, che viene eruttato.

Ora accade che il nostro animale, ingozzato per poter ingrassare in fretta e produrre tanta carne, libera nell’aria centoquaranta litri di metano al giorno. Che sommati a quelli di tutte le mucche allevate sul pianeta fanno una enorme quantità di gas a effetto serra rilasciato in atmosfera. Un gas che ha un potenziale di riscaldamento globale (global warming potential, GWP) venticinque volte superiore alla CO2. Per comodità di calcolo, i gas serra vengono conteggiati con la dicitura «CO2 equivalente», che esprime l’effetto serra di un gas rapportato all’anidride carbonica. A una tonnellata di metano, dunque, ne corrispondono venticinque di CO2. Il protossido di azoto viene invece prodotto dalla reazione di nitrificazione e successiva parziale denitrificazione dell’ammoniaca presente nelle deiezioni, che ha un potenziale di GWP di duecentonovantotto volte superiore.

Dunque, quanto è sostenibile la produzione animale intensiva e che ruolo gioca nell’attuale crisi climatica?

Secondo gli scienziati dell’IPCC, una dieta senza (o con scarsissimo) uso di carne ha un potenziale di riduzione di CO2 elevatissimo, molto più della dieta mediterranea, benché in quest’ultima il consumo di carne sia limitato se paragonato, ad esempio, a quello degli Stati Uniti.

Secondo la FAO47, gli allevamenti intensivi sono responsabili del 14,5% delle emissioni antropiche di gas serra, una percentuale che si avvicina molto a quella dei trasporti.

Per alcuni, questi dati sono addirittura sottostimati, perché non tengono conto, ad esempio, della CO2 non assorbita a causa della deforestazione che ha fatto posto a pascoli e cereali per la produzione di mangimi. Quel che è certo è che, al di là di ogni possibile dissertazione sui numeri, l’allevamento intensivo è un settore altamente energivoro. Per questo è importante sapere come si muove il mercato, come evolve di anno in anno, quali sbocchi commerciali sta individuando e se questo si traduce in richieste ancora maggiori di carne e derivati.

Un dato rassicurante è quello riportato nel National Inventory Report48, l’analisi annuale dell’Istituto superiore per la protezione e la ricerca ambientale, che registra un calo dei gas serra in Italia. Un dato analogo viene registrato per i prodotti che provengono dal settore degli allevamenti, e questo perché sono diminuiti i bovini allevati.

Ma cosa accade se si inverte la tendenza?

Il Centro ricerche produzioni animali (CRPA) non ci rassicura per il futuro, perché ritiene che la produzione mondiale di bovini sia in ripresa costante, con percentuali di crescita importanti49. Come sempre, sul podio dei grandi produttori troviamo Stati Uniti e Brasile, ma anche l’Europa non è da meno, attestandosi al terzo posto. Per dare qualche cifra, nel Vecchio Continente parliamo di otto milioni e trecentomila tonnellate di carne, mezzo milione in più rispetto a quattro anni fa. Mezzo milione in più che va a incidere sui cambiamenti climatici. In Italia vengono macellati oltre due milioni e mezzo di bovini l’anno e di questi il 3,5% sono importati. Uno studio pubblicato su «Environmental Research Letters» ha dimostrato che le emissioni nascoste e non contabilizzate, ovvero quelle dell’import, fanno aumentare sensibilmente la percentuale di emissioni dei prodotti analizzati50.

Consideriamo ad esempio i maiali. Quella presente in Italia è una gigantesca industria di suini che produce il prosciutto di Parma, il San Daniele e la carne che troviamo nei supermercati sotto forma di salsicce, bistecche, fettine e salumi. Ogni anno nel nostro paese vengono allevati dodici milioni di capi e se ne importano otto milioni, soprattutto da Danimarca e Olanda51. Hanno un ciclo di vita di pochi mesi, vivono in gabbie (spesso singole) all’interno di enormi capannoni sparsi principalmente in Lombardia. In provincia di Brescia, dove si concentra il maggior numero di allevamenti, c’è un rapporto di un maiale per abitante. Non è un caso che in Pianura Padana siano nati diversi comitati che si battono contro l’apertura di nuovi impianti. È successo a Schivenoglia, piccolo comune del Mantovano, dove grazie all’azione del comitato Gaeta nel 2017 è stato vinto un referendum che ha vietato la costruzione di nuovi allevamenti proprio lì dove sono già allevati ottomila suini.

Qual è l’impatto di questo processo industriale?

Per produrre un solo chilo di carne sono necessari quattro chili di mangime e seimila litri di acqua, una cifra enorme se pensiamo che per lo stesso quantitativo di pomodori ne bastano poco più di duecento.

E non è tutto. Oltre alla carne si producono anche molti scarti: undici chili di feci e dodici di CO2 che sale in atmosfera e si va a sommare a quei gas climalteranti che stanno aumentando la temperatura terrestre. Le feci, dal canto loro, vanno smaltite. Degli undici milioni di tonnellate di liquami e letame prodotti, una parte consistente va a finire nei campi limitrofi agli allevamenti mediante la pratica dello spandimento52; la restante viene conferita nei biodigestori, impianti che utilizzano il metano prodotto dalla fermentazione per generare energia elettrica.

Grazie a una generosa politica di sovvenzioni pubbliche, gli impianti di biogas stanno proliferando sul territorio italiano, soprattutto nel Nord del paese. Sono spesso a doppia alimentazione: usano cioè le deiezioni animali insieme a biomasse da produzione agricola. Se l’utilizzo del biogas riduce in parte il problema dell’inquinamento determinato dallo spandimento dei resti reflui, la sua diffusione e il suo uso integrato stanno provocando un fenomeno speculativo, con un crescente utilizzo di aree agricole per colture destinate alla produzione di energia. Le colture come sorgo e mais hanno infatti una produttività doppia rispetto alle deiezioni animali, e diventano interessanti per gli imprenditori agricoli innescando una competizione sui suoli fra il cibo (food) e il carburante (fuel).

E non è finita. Ci sono i mangimi: soltanto i dodici milioni di suini presenti in Italia ne consumano 3,5 milioni di tonnellate l’anno, principalmente soia e mais. Mentre il fabbisogno di mais è coperto per una parte consistente dalla produzione nazionale, la soia deve essere importata dal Sud America (Brasile, Argentina, Uruguay, Paraguay, Bolivia). Secondo l’Associazione nazionale cerealisti (ANACER), nei primi dieci mesi del 2018 l’Italia ha importato oltre quattro milioni di tonnellate di farine proteiche e semi oleosi53. L’Europa ne acquista 32 milioni ed è il secondo importatore dopo la Cina. Questo spiega perché un terzo delle terre arabili è utilizzato per la mangimistica, e le stime prevedono un aumento fino a due terzi nei prossimi anni. La produzione di soia, ad esempio, aumenta esponenzialmente per rispondere alle esigenze del mercato.

Vi starete chiedendo: qual è il problema? Per capirlo basta vedere cosa sta accadendo in Brasile, un paese che fin dagli anni Ottanta si è imposto come grande produttore di questo legume, convertendo una vasta area del suo territorio, il Mato Grosso, in una monocoltura di soia, la cui produzione aumenta senza freni: dal 2000 a oggi si è passati da tre a sette milioni di ettari. Ciò significa bisogno di nuove terre da coltivare, e così si è cominciato a utilizzare aree prima occupate dalla foresta amazzonica. Vasti tratti di foresta sono stati disboscati prima per far posto ai pascoli, poi per produrre soia. Per mettere un argine a questa pratica dissennata, nel 2006, su sollecitazione di varie organizzazioni ambientaliste, è stata firmata una moratoria che impone di non acquistare il prodotto proveniente da terre appositamente disboscate. Purtroppo la moratoria non impedisce di coltivare soia su terre precedentemente disboscate per altri usi.

Ora, con i suoi tredici milioni di ettari di foresta abbattuta ogni anno, la deforestazione è una delle principali cause dell’emergenza climatica globale, perché le foreste, quando bruciano, rilasciano in atmosfera enormi quantità di CO2 che prima trattenevano, e in più smettono di assorbirne. Per questo, in una lettera a «The Lancet Planetary Health», un gruppo di scienziati ha proposto di porre un limite alla produzione mondiale di carne54. Solo così, secondo gli autori della lettera – sostenuta tra gli altri da Pete Smith55, uno degli autori del rapporto IPCC –, sarà possibile liberare terre da riforestare, rimuovere CO2 dall’atmosfera e scongiurare quindi il rischio di superare la soglia di 1,5 °C. Secondo gli scienziati, non mettere questo limite porterebbe nei prossimi anni gli allevamenti intensivi a produrre, da soli, il 49% delle emissioni complessive.

45 https://carnisostenibili.it/chi-siamo/.

46 Vegano: che cosa significa? Definizione e storia, in «Vegolosi», https://www.vegolosi.it/diventare-vegetariani/vegano-significato/.

47 FAO, Tackling Climate Change through Livestock: A Global Assessment of Emissions and Mitigation Opportunities, Rome 2013, http://www.fao.org/
3/a-i3437e.pdf.

48 ISPRA, Italian Greenhouse Gas Inventory 1990-2017. National Inventory Report 2019, aprile 2019, http://www.isprambiente.gov.it/it/pubblicazioni/rapporti/italian-greenhouse-gas-inventory-1990-2017.-national-inventory-report-2019.

49 CRPA, Mercato e redditività della produzione di carne bovina in Italia e nel contesto internazionale, 13° Meeting PROGEO Bovini da carne, 12 ottobre 2018, https://www.progeo.net/bf/uploadfile/De_Roest_Boccarone_Progeo_12.10.18_20571.pdf.

50 D. Caro, A. LoPresti, S.J. Davis, S. Bastianoni, K. Caldeira, CH4 and N2O Emissions Embodied in International Trade of Meat, in «Environmental Research Letters», 9, 2014, https://iopscience.iop.org/article/10.1088/1748-9326/9/11/114005.

51 Le informazioni che seguono sono rielaborate dal rapporto Prosciutto nudo. I costi nascosti dell’allevamento industriale di maiali, a cura di F. Ciconte e S. Liberti, Terra!, Roma 2018, http://www.terraonlus.it/wp-content/uploads/2017/03/prosciutto_nudo.pdf.

52 Le dosi di liquame e letame che possono essere versate sulle colture sono fissate in termini di contenuto di azoto: 170 kg/ettaro/anno per le zone vulnerabili, 340 kg/ettaro/anno per le zone non vulnerabili. La materia è regolata dal d.lgs. 152/2006, che recepisce la direttiva UE sui nitrati, 91/676/CEE.

53 CIA Piemonte, L’Italia dipende sempre più dall’estero per soia e mais, 21 gennaio 2019, http://www.ciapiemonte.it/2019/01/in-aumento-le-importazioni-di-soia-e-di-mais/.

54 Scientists Call for Renewed Paris Pledges To Transform Agriculture, in «The Lancet Planetary Health», 4, 2020, https://www.thelancet.com/action/showPdf?pii=S2542-5196%2819%2930245-1.

55 D. Carrington, Reach ‘Peak Meat’ by 2030 To Tackle Climate Crisis, Say Scientists, in «The Guardian», 12 dicembre 2019, https://www.theguardian.com/environment/2019/dec/12/peak-meat-climate-crisis-livestock-meat-dairy?fbclid=IwAR1NB-ZYylF5IrzKQ0eEYsCsfuYKOce_o8QoBGoa5wvNQWHfUPZomGhaYog.