2.
Il respiro di cui ha bisogno la terra

Per avere un’idea chiara di quanto sta accadendo, provate a immaginare un’area grande come la Grecia ricoperta di terreno fertile. Immaginate che, ogni anno, tutta quella terra venga prelevata fino a riempire un treno di 192 milioni di vagoni e fatta sparire nella notte. È quel che succede ogni anno sul nostro pianeta, dove 24 miliardi di tonnellate di suolo vengono perse per sempre26.

Per comprendere fino in fondo qual è l’impatto sull’ambiente di questo lunghissimo treno ladro di terra, è necessario riconoscere le funzioni ecosistemiche del suo prezioso carico.

Sulla terra camminiamo, costruiamo case, palazzi, capannoni, industrie, strade, ponti, autostrade. Utilizziamo la terra per coltivare il cibo che mangiamo, ci allestiamo sopra dei parchi dove i bambini possono giocare, delle piste dove gli aerei possono atterrare o decollare. È il suolo che sostiene i nostri passi, le piante, le foreste, le strade su cui scorrazzano le macchine.

Paola Adamo è la presidente della Società italiana della scienza del suolo (SISS). La incontro alla facoltà di Agraria dell’Università di Napoli insieme alla sua collega Maria Rao. Dalla grande finestra del suo studio si intravede il Vesuvio. Sulle librerie che corrono lungo le pareti del suo ufficio sono sistemate rocce, minerali e reperti di ogni genere, catalogati con un cartellino che riporta il nome scientifico e una breve spiegazione. Sembra di essere nella sala di un piccolo museo di storia naturale e, del resto, tutta l’università, tra teche che conservano gli antichi strumenti agronomici e pareti affrescate, porta con sé una storia centenaria.

«La terra è viva, respira», mi spiega Paola Adamo. «Non dobbiamo immaginarla come un corpo inerte sul quale camminiamo, perché al suo interno c’è vita che interagisce anche con l’atmosfera circostante». Parliamo a lungo delle diverse funzioni del suolo, di come spesso sia sottovalutata la sua importanza e di quanto, al contrario, sia fondamentale per la mitigazione dei cambiamenti climatici.

«Il suolo è il secondo sink di carbonio dopo gli oceani», mi dicono le due studiose quasi all’unisono. Un sink, ovvero un deposito che trattiene carbonio e lo rilascia nell’atmosfera. E questa funzione, cruciale nella gestione delle emissioni di CO2, la possiamo comprendere – mi spiegano – solo se abbiamo chiaro il ciclo del carbonio.

Questo elemento chimico è presente in natura in diverse forme: si trova nell’anidride carbonica dell’atmosfera, in quella ‘C’ che compone la CO2, ed è un elemento fondamentale delle molecole organiche degli esseri viventi e di alcune molecole inorganiche presenti nelle rocce e nell’acqua. Più semplicemente il carbonio è ovunque e passa continuamente da una forma all’altra grazie all’azione degli esseri viventi che lo riciclano impedendone l’esaurimento.

In ogni istante della nostra vita il carbonio si trasforma, muta, cambia forma, si lega ad altre molecole, si stabilizza, si ossida, si disgrega. Tutta la vita terrestre dialoga con l’ambiente tramite scambi di carbonio. Gli esseri umani, ad esempio, immettono CO2 in atmosfera attraverso la respirazione.

Un processo inverso a quello seguito dalle piante, gli alberi, le foreste, che attraverso la fotosintesi rilasciano ossigeno, assorbono CO2 e la utilizzano per fare radici, steli e foglie: in una parola, biomassa. Così la CO2 entra nella pianta, il suo atomo di carbonio diventa parte integrante degli zuccheri e quindi della sua sostanza organica. Attraverso la catena alimentare, la sostanza organica prodotta dai vegetali, e composta appunto da catene di carbonio, diventa cibo per gli animali e gli esseri umani, che a loro volta la trasformano in energia necessaria per le proprie funzioni vitali.

Anche il suolo, a suo modo, ‘mangia’.

Quando una pianta muore, infatti, viene trasformata in materia organica da miliardi di batteri, in collaborazione con funghi, lombrichi, nematodi, protozoi e altri microrganismi. In questo modo il carbonio presente nel vegetale viene fissato nel terreno. Quella materia organica diventa cioè il deposito del carbonio che prima si trovava in atmosfera sotto forma di CO2.

Pensate che solo in Europa sono stoccati 75 miliardi di tonnellate di carbonio organico, una quantità enorme rispetto ai 4,5 miliardi di tonnellate di CO2 emessi nel 2017 in tutto il Vecchio Continente27. Se spostiamo lo sguardo verso un orizzonte globale, scopriamo invece che sono 1.500 miliardi le tonnellate di carbonio organico immagazzinate nel suolo, buona parte delle quali nei primi trenta centimetri. Un grande serbatoio che, invece di preservare, continuiamo a svuotare.

Secondo uno studio pubblicato sulla rivista «Nature»28, a partire dalla rivoluzione industriale circa il 50% delle terre coperte da vegetazione è stato trasformato in altro, contribuendo a rilasciare in atmosfera una quantità di carbonio che si aggira tra i 200 e i 260 miliardi di tonnellate. Se pensiamo che, nello stesso periodo di tempo, l’uso di combustibili fossili ha immesso in atmosfera circa 270 miliardi di tonnellate di CO2, possiamo farci un’idea più chiara di come quel treno da 192 milioni di vagoni abbia avuto – e continui ad avere – un ruolo rilevante nell’attuale crisi climatica.

Ma non è tutto.

Questo processo si intensifica con l’aumentare del riscaldamento globale, perché l’innalzamento della temperatura stimola il rilascio di carbonio nell’atmosfera: le stime prevedono che lo stock potrà diminuire addirittura di 203 miliardi di tonnellate per ogni grado di riscaldamento29, perché con l’aumento della temperatura e la diminuzione delle precipitazioni i terreni diventano sempre più desertici rilasciando ulteriore CO2. È come se ci trovassimo in una spirale in cui il cattivo uso del suolo contribuisce ad aumentare il riscaldamento globale che, a sua volta, intensifica il rilascio di CO2 dal terreno.

In Italia vengono persi 55 chilometri quadrati di suolo l’anno30. Per capirci, «è come se ogni anno costruissimo una nuova città grande quanto Bologna, fatta di case, chiese, palazzi e strade», mi dice Michele Munafò, ricercatore dell’Istituto superiore per la protezione e la ricerca ambientale (ISPRA), che ogni anno cura il prestigioso rapporto sul consumo di suolo. Michele studia il fenomeno da tempo e si occupa con attenzione maniacale della ricerca, la sente come una sua creatura ed è stato tra quelli che negli anni ha insistito – «non senza difficoltà», mi confessa – perché venisse fatta una mappatura organica della situazione in Italia. Attraverso l’uso di sofisticati software, di cartografie e di immagini satellitari, Michele e i ricercatori del centro raccolgono ogni anno le informazioni per darne poi un quadro complessivo: «Parliamo di strade, case, palazzi, nuovi fabbricati che hanno preso il posto di campi agricoli, alberi, giardini, parchi». Aree verdi di ogni tipo, ricoperte di cemento. «Tutto questo ha un impatto enorme sui servizi ecosistemici, e anche sulla produzione di cibo», prosegue con un velo di amarezza sul volto. A partire dal 2012, dice Michele, «in Italia abbiamo una perdita potenziale di circa tre milioni di quintali di prodotti agricoli». La stessa valutazione è stata fatta sul sequestro di carbonio, spiega mostrandomi i dati che affollano le pagine del rapporto. Utilizzando la cartografia prodotta per la Global Soil Part­nership della FAO – l’organizzazione delle Nazioni Unite che si occupa di agricoltura e nutrizione –, lui e il suo team hanno stimato che negli ultimi anni, solo a causa del consumo di suolo, siano stati persi due milioni di tonnellate di carbonio31. Come dire che una parte di quei vagoni pieni di terra fertile è stata riempita in Italia. Per fare spazio a nuove costruzioni.

Ovviamente non stiamo parlando di un fenomeno inedito. Nella sua storia, l’uomo ha raso al suolo colline, scavato montagne per estrarre minerali, fatto sparire interi tratti di costa, creato laghi artificiali, dighe, gallerie, ha abbattuto foreste per fare posto a pascoli e campi. Ha creato nuovi paesaggi e modificato parte di quelli esistenti, piegando il corso della natura alle proprie necessità. Per farlo ha generato degrado, ovvero perdita di produttività economica e biologica dei terreni e, nei casi più estremi, condizioni irreversibili di desertificazione. Non è un caso se quasi la metà dei paesi europei ha dichiarato di essere stata colpita da questi fenomeni32.

Del resto, anche i dati prodotti dal Joint Research Centre (JRC) della Commissione europea nel World Atlas of Desertification33 non lasciano spazio a interpretazioni: negli ultimi vent’anni oltre il 75% della superficie terrestre è stata degradata e questa percentuale è destinata ad aumentare. In Italia, circa 80 mila chilometri quadrati di suolo hanno subito un aumento di degrado negli ultimi sei anni. In altre parole, un quinto della superficie italiana è stato degradato.

Il dato è ancora più preoccupante se si considera che il suolo, visti i tempi lunghi con cui si rigenera, deve essere considerato una risorsa limitata, sostanzialmente non rinnovabile.

Come se non bastasse, accanto alle case costruite, alle nuove autostrade, ai ponti e alle colate di cemento, a contribuire fortemente al degrado del suolo è il cibo che mangiamo. L’agricoltura industriale è riuscita a garantire una produzione massiva perché ha eroso i terreni, rendendoli sempre meno fertili.

Negli ultimi cinquant’anni abbiamo triplicato la produzione di cibo per nutrire – in molti casi più del necessario – la popolazione in costante aumento. Ma il dato interessante è che questa crescita è stata sostenuta estendendo le superfici coltivate solo del 12%: questo vuol dire che abbiamo raddoppiato la resa, ossia la capacità produttiva dei terreni. Laddove cresceva un broccolo ora ne crescono due, se non tre. Dove cresceva qualche quintale di pomodori per ettaro, ora se ne ottengono quasi una tonnellata. E così per tutta la frutta, la verdura, i tuberi, gli ortaggi.

Non senza conseguenze, però. Per incrementare in modo così esponenziale la produzione di un numero molto basso di varietà è stato necessario – e lo è ancora – sostenere i terreni con un uso massiccio di fertilizzanti e di concimazioni chimiche che, se nel breve periodo hanno garantito un picco della produttività, nel lungo termine hanno impoverito i suoli di sostanza organica, rendendoli sempre meno fertili.

L’Italia è ancora tra i maggiori utilizzatori di quelli che comunemente vengono chiamati pesticidi, con un impiego di oltre cinque chili per ettaro contro una media europea che sfiora i quattro34. Ciò è potuto accadere anche perché, molto spesso, il suolo è considerato un elemento inerte, semplice terra su cui seminare, arare, impiantare, raccogliere, secondo l’equazione per cui se aumento gli input, migliora la produzione. Mentre «se vogliamo fare in modo che il suolo continui a svolgere la sua funzione di deposito di carbonio organico», sottolinea Paola Adamo, «dobbiamo mantenere la terra viva».

Non solo. «I terreni sono stanchi», dice Corrado Bottai sintetizzando efficacemente quello che si sta verificando in agricoltura.

Corrado gestisce l’azienda di famiglia, che da oltre un secolo produce vini nella zona di Orvieto, uno splendido borgo abbarbicato su una rupe di tufo in Umbria. Con dei modi che alternano un’eleganza quasi nobiliare alla praticità di imprenditori che devono dirigere un’azienda di oltre duecento ettari, Corrado Bottai e il figlio Giulio ci accompagnano fra i campi: una lunga distesa di vigneti, interrotta da alcuni tratti di bosco e intervallata da oltre seimila piante di ulivo e diversi ettari di seminativi. «È una delle aziende vitivinicole più grandi del territorio», mi racconta con un certo orgoglio mentre camminiamo lungo i filari. «Ed è quella con la storia più antica». Con il volto adornato da una barba bianca ben curata, mi racconta di quando, nel 1877, il Comune di Orvieto decise di vendere all’asta quei terreni e i diversi manufatti di pregio, il cui valore crebbe ancora quando, anni dopo, vennero impreziositi con affreschi commissionati al pittore marchigiano Mariano Piervittori.

Una storia, quella dell’azienda Le Velette, che ha vissuto di fasi alterne fino a quando il padre di Corrado, agronomo fiorentino, non diede una spinta produttiva. «Inizialmente si riuscivano a ricavare sì e no seicento quintali di vino», continua l’agricoltore, ripercorrendo la storia della famiglia. «Oggi arriviamo a diecimila, una bella differenza». Poi, aggiunge con un velo di amarezza, «quando ti accorgi che la terra non ce la fa più, allora ti fai qualche domanda».

Mi ripete che la soluzione non è più quella di inondare i terreni con «autotreni di concime», perché i tempi sono cambiati. Lo dice mentre guarda il figlio poco più in là, intento a confrontarsi con il tecnico che ha preso il posto del vecchio fattore. Giulio ha poco più di trent’anni ed è appena rientrato in pianta stabile in azienda dopo gli studi a Milano. «Volevo dare una mano ma ho capito che bisogna cambiare qualcosa», dice con un sorriso solo apparentemente ingenuo. Così ha deciso di seguire corsi, di approfondire nuove tecniche agronomiche, convinto che l’agricoltura debba cambiare approccio, smettendola di sfruttare le risorse naturali come se non ci fossero conseguenze. Fra le tante iniziative, ha frequentato un corso sull’agricoltura organica e rigenerativa (AOR), una pratica che promette di aiutare l’agricoltura a rigenerarsi partendo proprio dal suolo. «È così che abbiamo deciso di cambiare», confessa Corrado. Le metamorfosi prendono corpo grazie all’incontro con Matteo Mancini, organizzatore del corso e ora consulente aziendale, perché – ripetono padre e figlio – «abbiamo bisogno di scrivere una nuova storia nel capitolo dell’azienda e della nostra famiglia».

Matteo è un esperto di suoli. È l’agronomo di DeaFal, una ONG milanese che per vent’anni ha lavorato nella cooperazione internazionale per poi rafforzare le proprie attività in Italia, a partire dall’agricoltura organica e rigenerativa, una disciplina che «combina le pratiche tradizionali con le moderne conoscenze scientifiche»35.

È proprio Matteo che mi accompagna a conoscere l’azienda, convinto che sia una «testimonianza importante di come anche l’agricoltura super-intensiva possa trasformarsi e rigenerarsi». Quando saliamo in macchina mi racconta di quanto sia stato difficile il primo anno di lavoro alle Velette, parla di disastro, e lo fa con un tono quasi divertito perché, mi spiega, «era prevedibile». «Quando un terreno è abituato a essere inondato di sostanze chimiche sistemiche, quando la pianta non è più in grado di difendersi da sola, è chiaro che cambiare sistema di coltivazione, modificare le tecniche agricole, è difficile, perché la pianta e il suolo si devono riabituare».

Lungo l’autostrada che da Orte ci porta verso Orvieto mi illustra i principi dell’agricoltura organica, il cui obiettivo è aumentare la fertilità naturale del suolo senza per questo venir meno alle esigenze produttive. «Ma prima di tutto», mi dice con una certa fermezza, «bisogna partire dall’agricoltore: deve mettersi in gioco, altrimenti non funziona». Come è successo inizialmente nell’azienda orvietana, dove il vecchio fattore, il tuttofare che per decenni ha governato i terreni, ha più volte messo i bastoni tra le ruote perché ancorato a un modello di produzione agricola intensiva.

Per visitare l’azienda, è necessario muoversi in macchina, così con Matteo, Corrado, Giulio e Gigi, il nuovo tecnico, ci addentriamo fra i diversi appezzamenti per osservare il lavoro di rinnovamento sui primi trenta ettari di vigne. «Quando abbiamo fatto le analisi dei terreni, c’era pochissima sostanza organica, praticamente un terreno desertificato», racconta Matteo confermando un dato che effettivamente accomuna buona parte dei terreni agricoli36.

Mentre camminiamo, gli agricoltori e i consulenti si confrontano sulle prossime attività da mettere in campo. Ad un tratto, Matteo scava una piccola buca nel terreno, accanto a un filare dove hanno fatto una copertura erbacea. La zolla che ora tiene nel palmo della mano ha il colore scuro della terra umida: sulla superficie si intravedono residui di radici avvizzite, grumi più consistenti saldamente ancorati tra di loro e qualche filamento d’erba che conserva il suo verde brillante. Matteo setaccia la zolla come se stesse sgranando il couscous. «Quello che stiamo facendo qui è restituire sostanza organica a un suolo che in questi anni ha visto solo anticrittogamici sistemici».

È proprio partendo dall’osservazione di una zolla di terra che hanno iniziato il lavoro di rigenerazione, per capire cioè il grado di aggregazione tra le diverse frazioni del terreno.

Un terreno, in condizioni normali, è fatto per metà di minerali solidi e per l’altra metà di vuoti, pori dove l’acqua filtra e si rimette in circolo, dove le radici trovano lo spazio per crescere. Dentro questa architettura complessa si trova la sostanza organica, il prezioso carbonio così centrale nelle dinamiche di cambiamento climatico. Quello che succede però è che, nella maggior parte delle aziende agricole, il suolo si ossida per le arature profonde, si compatta a furia di passarci sopra con le enormi macchine agricole e si degrada per il continuo uso di sostanze di sintesi. Così, sempre più spesso, ci si trova davanti a terreni compattati dove la percentuale di vuoto – la porosità, lo spazio disponibile perché l’acqua possa filtrare – è scarsissima e i suoli non hanno più sostanza organica.

«Guarda qui», mi dice mostrandomi le radici di due piante che ha appena sradicato dal terreno. Una è quella di favino, una leguminosa la cui radice scende in profondità, l’altra è una graminacea le cui radici si muovono più superficialmente. «Combinarle insieme», mi spiega, «permette di creare più spazi, di rendere poroso il terreno», e in più sono colture adatte al sovescio, una tecnica che aiuta il terreno a rigenerarsi.

Ma sapendo che questa azione, da sola, non basterebbe a risolvere il problema, alle Velette hanno iniziato a utilizzare quelli che fino a qualche tempo prima erano scarti di lavorazione, come le potature, e che invece adesso possono essere trasformati in compost utile per nutrire ulteriormente il terreno.

A pochi chilometri di distanza dall’azienda dell’Orvietano, in un’area collinare ai confini tra Lazio e Umbria, ce n’è un’altra che già da anni ha adottato pratiche agricole tutte improntate alla sostenibilità, a partire dall’uso del suolo. Ludovico Maria Botti è l’anima dell’azienda biologica Trebotti, il cui nome nasce dall’unione dei tre fratelli, Bernardo, Clarissa e, naturalmente, Ludovico Maria. Mi accompagna tra i sedici ettari acquistati più di quindici anni fa e racconta dettagliatamente come lavorano, mi mostra i diversi vigneti, le varietà più pregiate, di cui una selezionata da lui stesso quando si stava laureando in Agraria all’Università della Tuscia.

«Lungo i vigneti abbiamo lavorato per aumentare la fertilità», dice indicandomi una serie di filari appaiati in cui negli anni hanno fatto inerbimento naturale, senza cioè seminare e, soprattutto, senza aggiungere sostanze chimiche. E così, attraverso varie pratiche come l’utilizzo del compost derivato dagli scarti di lavorazione e l’inerbimento naturale, sono riusciti ad aumentare la sostanza organica che diciassette anni prima, al tempo dell’acquisto dei terreni, era a livelli molto bassi.

Per capire se quelle pratiche stessero dando benefici reali, hanno deciso di misurare scientificamente i flussi di CO2. I risultati, raccolti in un paper pubblicato sul «Journal of Cleaner Production»37, me li racconta l’autrice, Maria Vincenza Chiriacò. Cinzia – è così che la chiamano tutti – è una ricercatrice del Centro euro-mediterraneo sui cambiamenti climatici (CMCC), che da anni studia rigorosamente il fenomeno ed è punto di riferimento italiano dell’IPCC. «Volevamo quantificare l’impatto climatico di pratiche sostenibili nei vigneti», spiega. Da esperta di flussi di CO2, Cinzia ne studia gli andamenti, le quantità, le pratiche di mitigazione. Per farlo, mi racconta, hanno utilizzato diverse tecniche, a partire dall’eddy covariance, una sorta di torretta impiegata generalmente per misurare i flussi di CO2 nelle foreste. La torretta è stata posizionata sopra il livello delle viti «per calcolare i flussi biogenici di gas serra dal sistema vigneto, quelli cioè che vengono emessi dalla naturale respirazione delle piante e dei microrganismi del suolo e quelli assorbiti da suolo e piante per effetto della fotosintesi, ma che vengono condizionati dalle lavorazioni del terreno e dalle pratiche agricole».

La novità dello studio è l’aver accoppiato i flussi biogenici, influenzati dalla gestione agricola, alle emissioni antropogeniche, quelle cioè prodotte dall’attività umana e che solitamente si misurano attraverso l’LCA (Life Cycle Assessment). L’LCA contabilizza tutte le emissioni dalla produzione alla trasformazione del prodotto, inclusi l’uso del trattore, i consumi energetici, i trasporti e l’utilizzo di materie prime, in cui, di solito, i flussi biogenici non vengono contabilizzati. «Ma se si fanno arature profonde che liberano CO2 o, al contrario, si preserva il terreno favorendo l’assorbimento di anidride carbonica, c’è una grande differenza in termini di emissioni totali», mi spiega per sottolineare l’importanza delle sue conclusioni.

I risultati, spiega mostrandomi i grafici, dimostrano che pratiche agricole sostenibili portano a un bilancio del carbonio vicino allo zero, cioè per quante emissioni vengono prodotte, tante ne sono riassorbite. «Un risultato importante», conclude la ricercatrice, «che ci dimostra peraltro che un terreno non trattato è più ricco di microrganismi capaci di stabilizzare la sostanza organica».

A supporto di questa tesi c’è lo studio pubblicato dalla rivista «Nature»38, secondo cui un corretto uso di pratiche agronomiche – concimazione organica, colture di copertura, pacciamatura e poca lavorazione del terreno – può aumentare sostanzialmente il sequestro di CO2 dall’atmosfera. Con un enorme potenziale: aumentando fino allo 0,5% la quantità di sostanza organica nei primi trenta centimetri di suolo, si potrebbe arrivare a stoccare fino a 1,85 milioni di tonnellate di carbonio in più ogni anno e altrettante potrebbero essere sequestrate nei venti anni successivi.

Ovviamente non tutti i terreni hanno la stessa capacità di stoccaggio: questo varia al variare delle condizioni atmosferiche, del tasso di umidità, del tipo di coltura e di come l’agricoltore gestirà i terreni. Gli stock di carbonio sono più elevati nei climi umidi e in alcuni tipi di colture. I vigneti, ad esempio, hanno un contenuto di carbonio più basso rispetto ai frutteti o agli oliveti39, mentre un uso del suolo più naturale ha contenuti più elevati, come nel caso dei pascoli.

26 Putting Carbon Back Where It Belongs: The Potential of Carbon Sequestration in the Soil, Foresight Brief n. 013, maggio 2019, http://wedocs.unep.org/handle/20.500.11822/28453?show=full.

27 EEA, Land and Soil in Europe. Why We Need To Use These Vital and Finite Resources Sustainably, 2019, https://www.eea.europa.eu/publications/eea-signals-2019-land.

28 R.J. Zomer, D.A. Bossio, R. Sommer, L.V. Verchot, Global Sequestration Potential of Increased Organic Carbon in Cropland Soils, in «Nature», 7, 2017, https://www.nature.com/articles/s41598-017-15794-8.

29 T.W. Crowther et al., Quantifying Global Soil Carbon Losses in Response to Warming, in «Nature», 540, 2016, pp. 104-108, https://www.nature.com/articles/nature20150.

30 Consumo di suolo, dinamiche territoriali e servizi ecosistemici, a cura di M. Munafò, Report SNPA n. 8/2019.

31 http://www.fao.org/global-soil-partnership/en/.

32 EEA, Land and Soil in Europe cit.

33 https://ec.europa.eu/commission/presscorner/detail/it/IP_18_4202.

34 FederBio, Cambia la terra. Così l’agricoltura convenzionale inquina l’economia (oltre che il Pianeta), Rapporto annuale, 2018, https://www.cambialaterra.it/rapporto/.

35 M. Mancini, Agricoltura organica e rigenerativa, Terra Nuova, Firenze 2019.

36 Putting Carbon Back Where It Belongs cit.

37 M.V. Chiriacò, C. Belli, T. Chiti, C. Trotta, S. Sabbatini, The Potential Carbon Neutrality of Sustainable Viticulture Showed Through A Comprehensive Assessment of the Greenhouse Gas (GHG) Budget of Wine Production, in «Journal of Cleaner Production», 225, 2019, pp. 435-450, https://www.researchgate.net/publication/331871319_The_potential_carbon_neutrality_of_sustainable_viticulture_showed_through_a_comprehensive_assessment_of_the_greenhouse_gas_GHG_budget_of_wine_production.

38 Zomer, Bossio, Sommer, Verchot, Global Sequestration Potential cit.

39 MediNet, Ciclo del carbonio in Agricoltura, https://www.lifemedinet.com/copia-di-agriculture-c-cycle.