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Il pascolo che aiuta il
suolo
Se gli allevamenti industriali hanno una responsabilità enorme nell’attuale crisi climatica, un pascolo gestito adeguatamente può avere un importante effetto di mitigazione. Lo dimostra il piccolo allevamento abbarbicato sulla cima di una collina in mezzo alle valli dei fiumi Salto e Velino, in provincia di Rieti.
A gestire l’azienda sono Alessandra e Miguel, una giovane coppia che, dopo aver deciso di cambiare vita, ha lasciato la città per allevare bovini. Anche loro, come i proprietari delle Velette, hanno deciso di seguire la visione dell’agricoltura organica e rigenerativa. Lo fanno con il pascolo razionale, un metodo particolare derivato dagli studi di André Voisin40, un agricoltore francese autore, nel 1957, di Productivité de l’herbe.
Si tratta di una pratica grazie alla quale gli animali non solo pascolano liberamente, ma aiutano il terreno a rigenerarsi. «Il principio», mi racconta Matteo Mancini, «è quello di concentrare gli animali in un lembo di terra abbastanza circoscritto, per poi spostarli in un terreno adiacente subito dopo». Così, mi spiega, mangeranno l’erba senza però distruggere tutto, dando cioè alla pianta la possibilità di ricrescere, di «ricacciare». «Se lo lasciassimo sempre nello stesso posto, l’animale ritornerebbe più volte nel punto dove ha trovato l’erba più appetitosa, brucando fino a lasciare soltanto la terra». Invece i terreni di Tularù, l’azienda di Alessandra e Miguel, sono suddivisi in settori delimitati e gli animali vengono spostati di giorno in giorno da un luogo all’altro. «In un giorno le mucche fanno raso», racconta Miguel mostrandomi la copertura vegetale di uno dei terreni. «Per questo il giorno dopo le sposto e ricominciano a pascolare». Intanto sul terreno lasciato libero dopo il pascolamento le piante perenni recuperano le energie e «piano piano ritornano a crescere». Il risultato, mi dicono entrambi mostrandomi il terreno su cui pascolano le mucche, è che il terreno si arricchisce di sostanza organica e non viene compattato dal continuo calpestio degli animali.
Ma per capire fino in fondo un sistema di pascolo unico nel suo genere come quello praticato da Tularù, per comprendere la portata e i possibili effetti di mitigazione dei cambiamenti climatici, è necessario spostarsi in Sardegna, dove il pascolo – in questo caso di ovini – è un’attività centrale per tutta la regione.
La sveglia suona alle 3.30. Gavino Arca esce di casa quando è ancora buio, il suono dei campanacci in lontananza ricorda che il gregge è pronto per iniziare una nuova giornata. Aperto il cancello del cortile dove hanno passato la notte, le pecore si dirigono verso la sala di mungitura. Disposte una di fianco all’altra, iniziano a mangiare dalle apposite vasche, e intanto Gavino prende il connettore – una sorta di pompa meccanica che mima il ritmo di mungitura delle mani – e lo applica alle mammelle. Mentre si muove con naturalezza, cadenzando i movimenti da un animale all’altro, il latte, attraverso un sistema di tubi, finisce in una cisterna per poi essere trasportato al caseificio.
Quella di Gavino è un’attività quotidiana che inizia prima dell’alba e finisce a tarda sera, quando le sue duecentocinquanta pecore vengono riportate nel recinto dove passeranno la notte. Durante il giorno, invece, saranno libere di brucare nei pascoli dell’azienda: oltre sessanta ettari, di cui una parte dedicata alla produzione di foraggio e fieno, l’altra – più vasta – al pascolo. Non a caso, in Sardegna il 61% delle terre agricole è destinato a questo scopo, il triplo rispetto al resto dello Stivale41.
«Prima avevo il doppio delle pecore», mi racconta Gavino mentre prende in braccio un agnellino di pochi giorni che continua a seguirlo come fosse la mamma. «I costi però erano troppo alti perché dovevo comprare la maggior parte del mangime da fuori». Dimezzando i capi, invece, è diventato quasi autosufficiente e riesce a nutrirle grazie al frutto della sua terra.
Il suo è uno degli oltre diecimila allevamenti di ovini disseminati in Sardegna, precisamente nella Nurra, una vasta area a nord-ovest dell’isola. In lontananza si scorge Porto Torres, che per anni ha ospitato il petrolchimico. È sufficiente girare qualche ora per le strade sarde per rendersi conto che l’allevamento di pecore è parte integrante dell’economia isolana. Basta allontanarsi da Sassari, Cagliari, Nuoro o Olbia per trovarsi in aperta campagna e vedere greggi intente a brucare o a muoversi da un pascolo all’altro, magari attraversando una strada provinciale.
La presenza di ovini è così evidente che, in un libro illustrato sulle regioni italiane destinato alle scuole42, gli autori hanno pensato di utilizzare come simbolo distintivo della Sardegna proprio le pecore, mentre per le altre regioni hanno raffigurato dei monumenti, per esempio il Colosseo in corrispondenza del Lazio, o la Torre di Pisa in Toscana. Naturalmente questo ha fatto infuriare la popolazione locale, non tanto perché disconoscesse il legame con la pastorizia, ma perché quella rappresentazione non teneva conto della cultura e delle tradizioni della regione, a partire dai nuraghi.
Ma le radici dello stereotipo affondano nei numeri. Sull’isola, infatti, vivono tre milioni di pecore, più del doppio dei suoi abitanti. A dispetto di quanto possa far intendere il nome, è in Sardegna che si produce la maggior parte del pecorino romano e, con oltre un milione di forme di formaggio prodotte ogni anno, la regione è in assoluto il leader mondiale.
Quella del pecorino è una filiera che riesce a tenere insieme un modello industriale che si misura con il mercato mondiale, i dazi, l’export, e un sistema pastorale che in buona parte è ancorato alla tradizione. Sono allevatori che non esitano ad alzare la voce quando si sentono sopraffatti da un mercato che acquista il latte a prezzi stracciati. L’inverno del 2019 ha visto levarsi l’ondata di rabbia degli allevatori, il cui latte veniva pagato a fatica sessanta centesimi a litro. «Con questa cifra non arriviamo nemmeno a coprire i costi di produzione»43, denunciava Nenneddu Sanna, uno dei leader della rivolta che ha portato gli allevatori a gettare il latte in strada come gesto estremo.
La protesta ha ruotato intorno a tre attori principali: la Grande distribuzione organizzata che acquista il formaggio, gli industriali e le cooperative che lo producono a partire dalla materia prima, e i pastori che la forniscono. Come spesso accade, in questa partita a tre, l’ultimo anello della filiera è il più debole, è quello con il minore potere contrattuale. A un anno esatto di distanza, l’eco della rivolta è ancora presente anche se, mi raccontano gli allevatori, la situazione è migliorata.
Gavino mi accompagna a visitare l’azienda. Oltre alla sala di mungitura e alla casa dove vive con la famiglia, tutto intorno è una distesa di verde, interrotta solo da muretti a secco. Quando arrivo, le pecore stanno pascolando su un terreno distante, perché «ogni giorno vengono portate in posti diversi». Gavino Arca mi racconta dettagliatamente come le pecore si spostano da un pascolo all’altro in base alla vegetazione presente in quel momento, alla stagione e alla temperatura. Gli ettari di pascolo sono suddivisi in lotti diversi, alcuni sono seminati, altri naturali. Gavino li conosce molto bene e sa perfettamente quando un terreno è pronto per essere pascolato e quando deve stare a riposo.
«L’importante è fare in modo che le pecore abbiano sempre erba fresca e che non deteriorino il suolo», mi spiega Giovanni Galistu del Consorzio per la tutela del formaggio pecorino romano. Giovanni è l’anima del Consorzio, conosce gli allevatori, il territorio, e insieme al suo collega Gianfranco Gaias mi racconta tutto sui pascoli sardi: «La maggior parte sono naturali, anche se presentano alcune differenze». Lungo le strade che percorriamo per visitare alcune aziende, mi mostra le differenze tra pascoli e seminativi, quelli naturali e «quelli distrutti», dice indicandomi un terreno che si estende per diverse centinaia di metri. «Lì si vedono chiaramente gli effetti del sovrapascolo: è rimasto solo l’asfodelo, una pianta infestante che le pecore non mangiano». In base a come vengono trattati i terreni e a come sono gestiti gli animali – mi raccontano i due rappresentanti del consorzio interrompendosi a vicenda – si può avere un ottimo pascolo che fa bene al terreno o uno che arreca danni permanenti.
Perché il pascolo ha un ruolo importante per il suolo: le pecore brucano l’erba, calpestano il terreno, liberano le proprie deiezioni, ci camminano sopra facilitandone la degradazione e l’assorbimento. Questa continua interazione tra l’animale, le piante e il terreno genera una serie di reazioni che possono avere un impatto, positivo o negativo, anche sulla presenza di carbonio organico e, quindi, sulla possibilità di immagazzinare CO2 atmosferica.
«Se lasci un gregge di pecore per più giorni nello stesso punto, dopo un po’ al posto del prato troverai solo terra», sottolinea Giovanni. Le pecore tendono, infatti, a mangiare prima le piante preferite. Quando ne trovano una la brucano in parte, dopo un po’ ci tornano e finiscono di brucarla, strappando anche parte della radice. «Se invece lasci le pecore per il tempo sufficiente perché possano mangiare senza distruggere, allora sarà possibile aumentare la sostanza organica nel terreno, perché le piante ricresceranno e la radice si rafforzerà».
A raccontarmi questo meccanismo è Enrico Vagnoni, ricercatore del Consiglio nazionale delle ricerche (CNR) di Sassari che da anni si occupa proprio di pascoli. Negli incontri con diverse aziende, lui e il suo gruppo di ricerca mi accompagnano per mostrarmi come «i sistemi agro-silvo-pastorali si configurino come pratica ecologica, perché mantengono la produttività del terreno combinando colture erbacee, specie perenni e bestiame». Proprio in un’area dell’azienda di Gavino Arca, insieme al CNR, sono in corso lavori per migliorare la qualità dei terreni. «Abbiamo realizzato un pascolo ‘artificiale’ su una superficie di quattro ettari», mi racconta Enrico. Quando me ne parlano, l’immaginario corre subito all’idea di qualcosa di innaturale, asettico, sterile. Invece, quello che vado a vedere è un terreno ricco di vegetazione spontanea composta da piante autoctone perennanti, cioè che ricrescono negli anni.
«È sbagliato etichettarlo come artificiale», ammette Enrico, «perché questo in realtà è un pascolo rigenerato a cui abbiamo dato una nuova vita e che, d’ora in poi, non avrà più bisogno di essere riseminato». Ed è ancora più importante, mi dice, perché negli ultimi decenni i pascoli permanenti sono diminuiti.
«Dobbiamo migliorarci», dice candidamente Gavino, il quale nella sua azienda ha deciso di applicare pratiche più sostenibili che, tra le altre cose, gli hanno permesso di ridurre sensibilmente l’uso di sostanze chimiche.
Per spiegarmi quanto siano importanti i pascoli per mitigare le emissioni dannose, Enrico Vagnoni mi anticipa i risultati di una ricerca condotta in un’azienda misurando le emissioni a distanza di dieci anni. Inizialmente, questa realtà praticava un allevamento semi-intensivo: gli animali potevano utilizzare una piccola superficie di pascoli naturali, mentre il 90% dei terreni serviva per fornire il mangime, coltivato con ampio uso di fertilizzanti. Nel corso del decennio, l’azienda è stata convertita a pascolo estensivo così le proporzioni si sono invertite: le pecore hanno potuto utilizzare la maggior parte dei terreni per pascolare, mentre la superficie per foraggio si è ridotta, portando con sé un drastico calo della concimazione chimica. I ricercatori hanno quindi calcolato nuovamente le emissioni totali per confrontarle con quelle iniziali e i risultati dimostrano che un pascolo, se gestito in modo naturale, può ridurre il suo impatto climatico.
A guardare le tabelle che riassumono i risultati dello studio, non ci sono dubbi. La CO2 equivalente emessa in un ettaro coltivato in maniera estensiva è di circa quattro tonnellate, quella emessa in un allevamento semintensivo è del 50% in più44. Se poi da questo calcolo si sottrae il carbonio sequestrato, le differenze aumentano ulteriormente, perché in un terreno dove le pecore possono pascolare l’assorbimento di carbonio è maggiore rispetto allo stesso suolo coltivato a foraggio.
«Questi dati sono ancora più importanti perché diversi studi realizzati per misurare le emissioni di un chilo di prodotto hanno concluso che il metodo estensivo produce più emissioni», mi racconta Enrico Vagnoni. Questo avviene perché normalmente il calcolo segue il metodo del Life Cycle Assessment, che somma il totale delle emissioni e le divide per unità di prodotto, in questo caso il litro di latte. Per cui, a parità di input (uso del terreno, lavorazioni, mangimi, concimazioni), apparentemente si inquina di meno quando si produce di più, perché il totale delle emissioni è diviso matematicamente per il numero totale di litri prodotti. Se invece si considerano le emissioni non per unità di prodotto ma per ettaro, allora la situazione cambia.
Se poi si considerano quelle assorbite dai diversi tipi di terreno, il risultato si ribalta. «Il potenziale di assorbimento dei pascoli naturali è enorme», dice Enrico, sottolineando che il dibattito è molto acceso a livello internazionale. Da una parte c’è chi ritiene più utile contabilizzare le emissioni per unità di prodotto (un litro di latte, un chilo di prosciutto, un chilo di mele), dall’altra chi sostiene sia più corretto contabilizzarle per unità di superficie (un ettaro) perché, come sintetizza sapientemente una ricercatrice del CMCC, «sono quelle che l’atmosfera vede». Quello che è certo è che una gestione oculata dei pascoli può assicurare un aumento di assorbimento di carbonio nel terreno, strappando il velo di sostenibilità con cui alcuni metodi di calcolo hanno avvolto il sistema degli allevamenti intensivi.
Non va dimenticato che la pastorizia in Sardegna è un sistema articolato. Non è difficile trovare a poche decine di metri di distanza un allevamento tecnologico in cui tutto è gestito da computer che analizzano in tempo reale la quantità di latte prodotto, lo stato di salute della singola pecora e la percentuale di nutrienti da somministrare, e un allevamento gestito dal solo pastore, che munge ancora a mano, magari tra le montagne.
Nicola è uno di questi. Lo incontro nella sua azienda a pochi chilometri da Pattada, un piccolo comune in provincia di Sassari famoso per la produzione artigianale di coltelli. Per raggiungerla bisogna percorrere un breve tratto sterrato che conduce al cancello di ingresso. Nicola è un giovane pastore e alleva duecento capi, anche lui, come Gavino, principalmente su pascoli naturali, compreso il bosco. Perché nel bosco, mi spiega, il bestiame arricchisce di microflora e humus il terreno, ravviva la cotica erbosa, accelera il processo di decomposizione delle foglie cadute ed esercita un’efficace funzione di difesa del suolo. «Se non ci fosse lui qui, questa zona sarebbe in stato di abbandono», mi conferma Salvatore Palitta, il presidente del consorzio, enfatizzando l’importanza che hanno i pastori nella tutela del territorio.
Purtroppo quello della pastorizia in Sardegna è un caso emblematico, ma allo stesso tempo poco rappresentativo del modello con cui vengono allevati generalmente gli animali. «Il latte di pecora è una goccia in un mare di latte di mucca», sospira Giovanni mostrandomi i numeri della produzione mondiale. Le stime prevedono un aumento del 17%, e nei prossimi dieci anni si arriverà a superare i 147 milioni di tonnellate.
40 Per una disamina sul metodo messo a punto da André Voisin si legga Mancini, Agricoltura organica e rigenerativa cit.
41 Agris,
Report of the Characterization of Sardinian Dairy Sheep
Production Systems,
http://www.sheeptoship.eu/images/Report/A.1.3_Report%
20char.%20Sard.%20pr.%20systems.pdf.
42 M. Marcis, Mappa per bambini: a Roma il Colosseo, a Pisa la torre e in Sardegna? Non i nuraghi, ma le pecore, in «Vistanet», 19 novembre 2019, https://www.vistanet.it/cagliari/2019/11/19/libri-di-scuola-a-roma-il-colosseo-a-pisa-la-torre-e-in-sardegna-non-i-nuraghi-ma-le-pecore/.
43 S. Liberti, F. Ciconte, Le aste dei discount svalutano il latte dei pastori sardi, in «Internazionale», 27 febbraio 2019, https://www.internazionale.it/notizie/stefano-liberti/2019/02/27/discount-prezzo-pecorino-romano.
44 Chilogrammi di CO2 equivalente per ettaro: semintensivo = 5.903; estensivo = 3.797.