VENTITRÉ

«Sono Clarissa Siloni».

«La figlia del grande pittore Siloni? Marilivia Trovamala, sono contenta di conoscerla, signora. Ha visto gli altri dipinti e gli affreschi di suo padre? Venga…»

«No, lasci. Un’altra volta».

«Sì, oggi è una brutta giornata, mi scusiLa donna del ritratto che stava guardando era Donna Evelina, mia zia».

«Lo so»

«La ringrazio di essere venuta. Suo padre…»

«È morto da oltre dieci anni».

«Mi dispiace».

«Perché?» Stava fissandola con le labbra strette. «Lei non l’ha conosciuto».

«Non ero ancora nata quando ha dipinto quei quadri e quegli affreschi».

«Lei è mia sorella».

«Come ha detto, scusi?»

«Lei è mia sorella». Aveva alzato il tono di voce e se ne pentì. Abbassò il capo. «Lei è figlia di mio padre».

«Per carità, signora… Mio padre è quello». E alzò il braccio verso il ritratto quasi al centro della galleria, di Fortunato Trovamala. Aveva stampato in viso il sorriso che si regala ai malati.

«Suo padre è Juan Carlos Siloni, mio padre. E sua madre è quella». E indicò Donna Evelina. «Non si è mai chiesta come fa a essere figlia di una donna di colore ed essere bianca come me? Fortunato aveva cinquantotto anni quando lei è nata, mentre Donna Evelina ne aveva trentotto, come mio padre. Non ci credo che lei non l’abbia mai saputo. Mia madre ne è morta».

Marilivia, che aveva in mano uno strofinaccio da cucina, fece un gesto, premendosi la fronte. «Lei non sta parlando sul serio, vero? Lei vuole soltanto confondermi».

«No… e non so neppure perché glielo sto dicendo ora. Sono morti tutti, che importanza ha? Quando lei è nata, Donna Evelina non ha più voluto vedere mio padre. Mia madre è morta di rabbia e di dolore, quando l’ha saputo… Noi abbiamo lasciato la Spagna e siamo venuti a vivere qui, a Messina, nella casa dei nonni. Forse mio padre sperava di rivedere Evelina, credo che l’avesse molto amata… anche se non mi fiderei troppo degli amori di mio padre. Era un donnaiolo. EppureSi sente bene?»

Marilivia si era appoggiata con le spalle al muro. «M’è girata la testa… mi scusi. Sono frastornata, io non ho mai saputo… mai immaginato. Ho assistito zia Evelina sino all’ultimo respiro e non mi ha mai detto niente… chi altri sa questa storia?»

«Le importa? Sono passati sessant’anni: le importa, ora che sono tutti morti? Quando siamo venuti a vivere a Messina, io avevo nove anni. Mio padre mi ha condotto qui, io sapevo che qui abitavano la donna che lui aveva amato e mia sorella… l’avevo saputo dalle liti con mia madre. Siamo venuti qui, pioveva. Abbiamo bussato, mio padre ha detto chi era… Ha chiesto di vederla, di vedere lei… ci ha chiuso la porta in faccia e ci ha detto di andarcene. Io non dimenticherò mai quella pioggia dalla quale lui non mi riparava, io piangevo, avevo freddo e avevo fame. Ci ha scacciati come mendicanti. Io ti odio!»

Marilivia le mise una mano sulla spalla. «A che cosa serve, ora? Ti chiami Clarissa? Sono morti tutti, con i loro segreti, le loro debolezze, le loro passioni inutili. Perché vuoi odiare me? Io non ti ho fatto niente».

«Sì, certo… scusa. Non so chi ha scritto che è inutile soffrire due volte lo stesso dolore… Forse».

Stavano camminando vicine verso l’uscita sulla strada. «Torni a Messina?»

«Sì, vieni a trovarmi. Questa Evelina è stata la sua ossessione, l’ha ritratta molte volte. Spesso con cattiveria, facendone una puttana o una santa».

«Gli artisti… andrò a cercare i miei documenti. Vedrò se qualcuno che è ancora vivo conosce questa storia. Me la farò raccontare. Ora voglio sapere. Ti rendi conto? Un inganno durato una vita intera senza un solo sbaglio. Chissà se era odio o amore: zia Evelina è morta in silenzio».

Erano arrivate sulla porta spalancata verso la strada.

«Io non potevo immaginare che tu non lo sapessi. Pensavo che stessi fingendo di non riconoscermi, e ti ho odiato… scusa».

«Non andare, è presto».

«Mi dispiace, ho un collezionista che viene in galleria per un quadro».

«Voglio rivederti… hai la macchina?»

«Sì, è là, in mezzo alle altre. Non so come farò a uscire».

«Aspetta». Si sporse richiamando l’attenzione di un ragazzo vestito di nero che era appoggiato a una vettura e stava giocando con un cellulare.

«Tiziano… Ehi, Tiziano! Libera quella macchina rossa, che è della signora e deve andare… Tiziano, sbrigati». Si girò verso Clarissa e le sorrise. «Sono sempre stata sola con questa vecchia zia, molto stramba. Che era mia madre. Come ha potuto non tradirsi mai? Io l’avrei amata meglio, in un altro modo… Chissà. Mi fa piacere sapere che ora nella mia vita ci sarai tu. Ci conosceremo meglio».

«Ecco la mia macchina, grazie. Ti aspetto, sì». Era commossa mentre l’abbracciava.

Marilivia si morsicò il labbro inferiore e a mezza voce mormorò: «Quando tutta questa baraonda sarà finita, sì, Clarissa. Verrò. Certo che verrò a trovarti. Abbiamo tanto tempo da recuperare…»