VENTI
Confrontò il numero civico che aveva di fronte con il biglietto che aveva in mano. Il portone era quello. Di legno chiaro, lucido, restaurato da poco, con le maniglie di bronzo dorato e le due teste di leone che reggevano il balcone di pietra del primo piano.
Aveva lasciato la macchina a metà sul marciapiede, la strada gli sembrava tranquilla. A un uomo che stava passando, camminando lento con il bastone, domandò se rischiava la multa.
«Che volete… qui non ci passa nessuno. Andate dai Siloni? ’Sta gloria nazionale» aggiunse con disprezzo nella voce. E continuò a camminare senza aspettare risposta.
Gilardi andò al portone successivo. Un cancello di ferro a linee geometriche all’interno rivestito da una lamiera, in modo che non si potesse vedere quello che c’era oltre. Accanto al cancello un portone più basso di legno e ferro. Due lampioni laterali e al centro la scritta dipinta su ferro: Collezioni Juan Carlos Siloni. Indeciso, tornò indietro e suonò il campanello al primo portone.
«Chi è?»
«Massimo Gilardi».
«Ah… Aspettate, scendo».
La voce arrivava da un microfono appeso al muro. Tempio dell’arte, non certo della tecnologia.
Del portone si aprì soltanto una porta stretta e bassa.
«Entrate». Ancora una voce.
Quando fu sotto il portico retto da quattro colonne di pietra, vide finalmente la persona che lo stava salutando: una donna minuta, vestita di nero.
«La ringrazio, signora. Sono Gilardi…»
«Sì, certo. Entrate». Al di là del portico un giardino chiuso tra i quattro lati del palazzo. Due grosse piante che facevano ombra, un tavolino e alcune poltroncine di vimini con cuscini sbiaditi, due cespugli rossi di fiori.
«Non stiamo qua, fa caldo. Entrate».
Gli fece strada. Tre gradini a sinistra del portico, una vetrata, un corridoio. e a destra, appena dentro, una specie di bungalow con i vetri colorati, un tavolino tondo e un divanetto circolare tutto intorno alla vetrata. «Accomodatevi». E prima che prendessero posto, uno di fronte all’altra, gli tese la mano. «Scusate, sono Clarissa Siloni».
«Siloni?»
«Sì, era mio padre».
«Non sapevo che avesse figli».
Lei restò un attimo a guardarlo, come se studiasse quello che aveva appena sentito. «Lo conoscevate?»
«No, naturalmente. Quando vostro padre è stato a palazzo Trovamala io non ero ancora nato».
«Certo, sì… scusate. Da bere? Siete siciliano pure voi?»
«Napoletano».
«Sì, certo. Un caffè per cominciare?»
Una ragazza molto scura di pelle e di capelli si materializzò davanti a loro, sbucata da non si capiva dove. Sull’abito a fiorellini aveva legato un grembiulino bianco.
Poche parole tra di loro seguite da un lungo silenzio fatto di occhiate, sorrisi, gesti. E arrivò il carrello con i caffè, i bicchieri e le spremute, il ghiaccio e i biscotti. Offerti non in quest’ordine.
«Vai, va’… non ci sono per nessuno. Vai».
Bevvero il caffè in silenzio. Gilardi ebbe tutto il tempo di guardarla con la sensazione di averla già vista. Una ciocca di capelli bianchi che si partiva dalla fronte, come una freccia. Capelli castano dorati con molti fili bianchi. Fronte spaziosa attraversata da una ruga diritta e perpendicolare. Colore degli occhi indefinibile, avrebbe detto verdazzurro. Naso diritto, aristocratico. Bocca lievemente carnosa, denti forti e regolari.
Quando deposero le tazzine, Clarissa incrociò le mani sul grembo: termine appropriato perché indossava un semplice abito nero, diritto. Senza maniche. E aveva le gambe nude.
«Conoscete l’opera di mio padre?»
«In parte, credo. So da internet che è stato un pittore novecentista, ha aderito ad alcune scuole dell’epoca. Credo, e la prego di correggermi se sbaglio, che il suo maggior talento sia stato il ritratto».
«Infatti sbagliate. Un errore che commettono persino i critici più accreditati. Faceva ritratti per i soldi, gli affreschi, i ritocchi di quadri antichi… Ma la sua vera passione è stata la pittura, colta e istintiva. È stato amico dei più grandi pittori del Novecento, ha subito influenze dalle quali si è liberato con uno stile personalissimo. Se vi interessa…»
«Grazie, anche se temo di non essere all’altezza. Voi sapete che vostro padre è stato a palazzo Trovamala. Noi conserviamo gli affreschi che ha restaurato e arricchito, e molti ritratti di famiglia. Almeno di quelli che erano già adulti a quell’epoca».
«Come Donna Evelina».
«Sapete chi era?»
«Sì, lo so».
La risposta gli sembrò eccessivamente dura. «Donna stupenda» disse. E aggiunse in fretta: «L’unica zia che non si è mai maritata».
Clarissa Siloni restò a fissarlo e poi si alzò. «Venite» gli disse. «Forse siete venuto fin qui per questo».
Nel lungo corridoio che fiancheggiava la vetrata e riceveva luce dal giardino interno, una serie di quadri ben disposti, cornici identiche, allineati anche se non tutti delle stesse dimensioni. Donne, uomini, ragazzine, vecchi. Al centro, uno stupendo ritratto di zia Evelina.
«La riconoscete?»
«Difficile non riconoscerla, è identica alla zia che ricordo. Quando sono nato era già sulla quarantina, quindi io l’ho conosciuta meno giovane di così…»
«Qui aveva trentasette anni».
«Come fate a saperlo?»
Strinse le labbra e guardò altrove. «Lo so».
«Scusate, perché ho l’impressione che non parliate volentieri di mia zia? Come se vi avesse fatto un torto. Non ha pagato il lavoro commissionato a vostro padre?»
«Venite con me».
Attraversarono due stanze semivuote, una era certamente un ripostiglio. Clarissa aprì una porta pesante con serratura e chiavistelli, e si trovarono nel cortile alle spalle del cancello che aveva visto dalla strada.
«Questa» disse aprendo una porta, «è la galleria di mio padre. Qui al pianoterra c’è il suo laboratorio, lo studio, il magazzino dove teneva colori, tele, legni… è stato anche scultore. Al primo piano c’è la galleria che mostriamo ai visitatori. L’abbiamo appena riordinata».
«Vostra madre…»
«È morta prima di lui. Questa è tutta opera mia. Quella è mia madre…» aggiunse, mostrandogli un ritratto a grandezza naturale in una cornice nera. Al fianco un ritratto maschile delle stesse dimensioni. «Quello era mio padre».
«Bell’uomo. Un viso molto interessante. Se me lo consentite, vostra madre è bellissima».
«Catalana purosangue. Sì, era bellissima. E mio padre l’ha riportata in tutti i quadri che ha dipinto. Come Guttuso, che ripeteva sempre lo stesso viso in tutti i quadri anche di temi diversi, mio padre ripeteva il viso e il corpo di mia madre. Come un’ossessione. E credo che la bellezza di mia madre l’abbia davvero ossessionato sino alla sua morte. Ormai non aveva più bisogno di farla posare, era la sua memoria e la sua ispirazione». Si girò verso la parete d’angolo: altro quadro ovale per una giovinetta con i capelli crespi e gli occhi sorridenti. «E quella sono io».
«Riconoscibilissima e molto bella».
«Un complimento?»
«Non credo ne abbiate bisogno, poche volte ho avuto la sensazione di trovarmi di fronte a una persona profondamente consapevole di se stessa, come ora di fronte a voi».
«Accidenti! Ma vostra moglie vi manda in giro da solo?» Stava ridendo e aveva gli occhi lucidi.
«Si fida con molte ragioni».
Fece di sì con la testa. «Sì, credo anch’io. Bisognerebbe sempre non tradire la fiducia che gli altri ci regalano. Venite…»
La mostra dei quadri, degli affreschi e dei ritratti si svolgeva in più locali consecutivi, uno dopo l’altro: alcuni grandi e occupati da un affresco, altri con quadri moderni o ritratti. Spesso gli capitava di cogliere il viso di zia Evelina, confuso in una folla di donne al mercato o in un nudo un po’ volgare. Fu capace di non tradire i suoi pensieri; guardò in silenzio, mormorando a tratti parole di ammirazione e compiacimento. In un quadro, unico in una stanza dipinta in un color rosa salmone, due donne nude e stupende per carnalità e sfumature in un atteggiamento che poteva essere di sensualità o di odio. La moglie, che ormai riconosceva, e zia Evelina. Mai tanto bella e viva.
«Sono sorpreso» disse. «Non me l’aspettavo».
«Che cosa, avvocato? L’eccezionalità pittorica di mio padre o il viso e il corpo di vostra zia, in questi quadri?»
«Volete parlarmene?»
Clarissa lo guardò sorpresa. «Torniamo di là?»
Riattraversarono le stanze in silenzio. Si rimisero a sedere ai loro posti. Clarissa versò una spremuta d’arancia in due bicchieri, e gliene porse uno.
Quando Gilardi depose il suo bicchiere sul tavolino che era in mezzo a loro, si accorse che sul tavolo c’era l’immagine che avevano distribuito in chiesa al funerale di zia Evelina.
«C’eravate anche voi?» domandò.
«È lì che mi avete vista. Alla fine della cerimonia ci siamo salutati stringendoci la mano. Eravamo tutti in fila e non avete badato a me».
«Avevo l’impressione che il vostro viso non mi fosse nuovo, ma davvero non avrei mai saputo collocarvi all’uscita della chiesa al funerale di zia Evelina».
«Mia sorella…» Restò a fissarlo per coglierne le reazioni. Ma Gilardi restò impassibile. «Mia sorella» ripeté. «Apprezzo il vostro silenzio, siete un gran maestro. Ma lo sapevo. Sì, e ho voluto vederla».
«Dalle vostre parole cerco di immaginare la storia». Non voleva dirle di averla già saputa dal notaio Scandicci. Preferiva sentirla raccontare da lei. «Posso sapere che cosa vi legava a Marilivia?»
«Non siate ingenuo, non ci riuscite. Marilivia era figlia di mio padre e di Donna Evelina. Una relazione durata due anni, più o meno. Che ha ucciso mia madre. Io ero nata da due anni. Ve l’ho raccontata come nel peggior romanzo, ma la storia è tutta qui. Una brutta storia di corna. Mio padre era irresistibile: nel senso che non resisteva a nessuna donna che lo adulasse. Non era una gran conquista» aggiunse, abbassando il tono di voce con una evidente nota di disprezzo.
«Vi siete chiesta perché oggi io sono qui?»
«Sì, ma non ho trovato risposte. Ho immaginato che sapeste la storia e che voleste parlarne con me. Invece?»
«Guardando i ritratti che Siloni ha fatto di zia Evelina non è difficile immaginare che tra loro fosse scoppiata la passione…» Ora stava ridendo. «Sul cattivo romanzo vi sto seguendo anch’io. Capisco che sia imbarazzante parlarne come se fosse successo ad altri. Penso invece alle parole che mi avete appena detto, che questa relazione ha ucciso vostra madre».
«Sì… gliel’ha rinfacciata tutta la vita, breve, che ha vissuto, perché lui è stato così debole e sciocco da confessargliela. Per tradire bene una moglie bisogna essere geniali: mio padre era un debole molto vanitoso. Che sapeva dipingere». Un sorso di spremuta d’arancia, poi depose il bicchiere. «Non le disse della figlia. Mia madre lo seppe in seguito, che era nata questa figlia e che somigliava a me…»
«In parte è vero» la interruppe. «E ora che vi guardo, mi sembra proprio di avervi vista a palazzo, il giorno del funerale. Non fuori della chiesa, ma in casa. Eravate vestita di nero, come ora, con una giacchettina leggera sulle spalle e gli occhiali scuri. Eravate in piedi e in disparte in veranda. Non ricordo di avervi salutato quando siete andata via».
«Che cosa fate, lo scrittore?»
«No, sono stato commissario di polizia prima di essere avvocato. Un bell’esercizio per la memoria».
«Accidenti, che vita! Mi piacerebbe ascoltarvi per ore. Invece so che siete venuto qui per sentirmi dire se odiavo Marilivia. È questo? Mia madre si è separata da lui, poi l’ha ripreso in casa perché era disperato, non dipingeva più e si stava ammalando. Un brutto matrimonio, rovinato da una brutta storia di letto… che vergogna».
«Conoscete storie di letto migliori di questa? Lui bell’uomo, affascinante, talentuoso… lei bella, ricca e sola. Poteva non succedere? Il peggio è capitato dopo. Mi dispiace per vostra madre».
«È morta per infarto. Urlando contro mio padre… gli è morta davanti agli occhi, maledicendolo. Lui non si è più ripreso. Ha tentato di rivedere Donna Evelina, che gli ha chiuso la porta in faccia. Vede…» Fece una pausa, poi dopo un lungo respiro riprese: «Io ero già grandicella, sono venuta a palazzo con lui, ma Donna Evelina non ci ha neppure ricevuti. Ci ha lasciati dietro la porta chiusa, per amore?» E alzò il viso verso di lui, la sua espressione era mutata. «Per amore, credete? No. Ormai aveva raccontato la sua storia e non voleva smentire la reputazione che si era guadagnata. Di chi è figlia Marilivia? Di suo zio, che aveva quasi sessant’anni e una moglie africana? Ci ha lasciati dietro una porta chiusa, con quella serva che ci guardava da un angolo e tremava. Mio padre piangeva. C’è amore, in tutta questa faccenda? Ce lo trovate, voi che siete stato commissario?»
«L’amore ha tante facce, difficili da riconoscere. Ma voi?»
«Io? Tiriamo avanti con questa baracca messa in piedi da mio nonno per il figlio molto speciale. Ogni tanto vendiamo un quadro. Il plurale intende la donna che ha visto, siamo soltanto noi due. Nessun uomo è entrato da quella porta, che non fosse un compratore o un fattorino. Oggi, eccezionalmente, voi. Io vivo sola, amareggiata dai miei ricordi che mi hanno distrutto la vita. Non ne parlavo da anni».
«Mi dispiace. Volevo solo conoscervi».
Clarissa scosse leggermente il capo. «Mentite male, avvocato. Voi volevate sapere se io conoscevo la storia. Ecco, ora lo sapete: ma non l’ho uccisa io».
«Vi chiameranno a rispondere dei fatti di cui siete a conoscenza».
«Non basta quello che ho detto a voi?»
«Io non ho alcuna autorità per interrogarvi. Né per riferire alla polizia quello che ho saputo da voi, oggi. Questo è a ogni effetto un colloquio assolutamente privato. Voi potrete anche cambiare…»
«Perché dovrei?»
«Infatti. Ma se vi sembrasse conveniente, io non potrei oppormi. Questa voleva essere e resterà una visita assolutamente privata».
«Mi solleva…» Era tornata serena e stava sorridendo. In quella luce era ancora bella.
Gilardi si alzò mentre le stava dicendo, con un tono asciutto: «Voi odiavate Marilivia?»
«Che cosa ve lo fa credere?»
«Il fatto che non avete risposto alla domanda». Si chinò a baciarle la mano. «Non vi incomodate, ricordo la strada. Mi ha fatto piacere conoscervi. E un po’ mi preoccupa».
Le girò le spalle e uscì.