QUATTORDICI
Il giorno seguente, Siloni recuperò auto e valigia. Disse di essere pronto a partire, ma prima volle vedere il famoso salone che combinava matrimoni.
«Venga, ci troverà un po’ di polvere… venga».
Il salone degli affreschi occupava in lunghezza e in larghezza l’intera parte centrale del palazzo, ed era alto quanto due piani; le finestre, infatti, erano soltanto in alto, orizzontali, avendo come panorama il cielo. Poco sotto, si affacciavano alcuni graziosi balconcini e un balcone più vasto, per l’orchestra.
«Noi ci mettevamo a sedere i genitori, perché usavamo i dischi. Ma quando è stato pensato, lì ci doveva stare l’orchestra per lasciare spazio ai ballerini».
Gli affreschi partivano da un cornicione di legno, all’altezza delle terrazze, e arrivavano a coprire interamente le pareti sino al lambrit dipinto colore dell’agata verde a macchie. Tutt’intorno sedioline dorate e poltroncine nello stesso stile, dalle fodere di seta un po’ trascurata. Qualche tavolino, un paio di sgabelli. Sembrava la scena che segue a una festa, dove tutto rimane come viene lasciato al momento di spegnere le luci. L’unica vera bellezza di quel salone: i tre lampadari di Murano, ancora capaci di emozionare per scintillio e colori.
«Ecco» disse Evelina. «Questo è il salone rimasto com’era».
Siloni stava guardando i dipinti da vicino, tastandoli con la mano, poi allontanandosi per vederne l’insieme. «Suggestivi… certo».
Erano piante in un groviglio di rami e di fusti. Uccelli esotici ma anche semplici rondini con le ali aperte nel volo. Un cavallo bianco con due zampe alzate e pronto a saltare in mezzo alla stanza. Un cane.
«Come le pare?»
Siloni sorrise. «Molta buona volontà e un discreto uso dei colori. Non è tutto della stessa mano, chi ha dipinto i fiori non è lo stesso del cavallo e di quegli ésprit… andrebbe aiutato a resistere».
«Cioè? Andrebbe restaurato? Quanti anni ci vorrebbero?»
«No… basterebbe poco. Guardi quei fiori sotto il balcone, l’umido li ha quasi cancellati. E questo vuoto al centro…» Le prese una mano e la condusse verso il punto che aveva indicato. «Qui ci starebbe per esempio una figura di donna…» Evelina quel mattino aveva indossato una lunga tunica bianca di seta pesante. «Una figura di donna come lei, con questo vestito bianco… A me piacerebbe, sarebbe stupenda». Abbassò le mani e le girò le spalle. «Anche in quella camera di nozze, manca la cosa più importante, accidenti».
«Cioè?»
«Un nudo di donna, in mezzo a quei cavalli e a quei fiori. Un nudo di donna, perfetto come…»
Erano uno di fronte all’altra. Si guardarono con attenzione, come a chiedersi se quello che stava succedendo fosse davvero possibile. Se stesse davvero capitando che le braccia di lui si avvicinassero adagio al suo corpo. E la bocca alla sua bocca.
Si stavano baciando.
Dopo un tempo che nessuno dei due riuscì a calcolare, Siloni fece un passo indietro. «Mi scusi… mi perdoni… Non so che cosa sia successo… io…»
«Ci siamo baciati». Dei due Evelina sembrava la più sicura. Stava sorridendo. «Non è un peccato, baciare una donna».
«No, certo… da quando ti ho vista, ieri sera, non ho pensato ad altro… Non mi è mai successo».
«Così grave?» Era ancora con il viso vicino al suo. Allungò il collo, spinse la bocca verso la bocca di lui. E si baciarono nuovamente, con più dolcezza. Con la consapevolezza che fosse davvero una cosa importante.
Quel mattino, sdraiati sugli scogli mentre il mare bagnava i loro corpi nudi, fecero progetti. Sapevano che non tutti si sarebbero realizzati, ma era fantastico crederci. Non si sarebbero sposati, ma avrebbero vissuto tra il palazzo e la tenuta in Spagna, facendo l’amore.
Evelina si era concessa spontaneamente, senza timori. Aveva aperto il suo corpo a quell’uomo perché le insegnasse le emozioni più segrete, più intime. Le insegnasse quella felicità a cui non aveva mai ceduto.
Le piaceva gridare, sapendo che nessuno li stava ascoltando. Le piaceva quell’uomo per il quale posò nuda per la camera degli sposi. Ogni tanto interrompendosi per avere quelle mani sul suo corpo, sul seno, tra le gambe. In terra o sul letto massiccio. Gridando insieme di felicità e di timore.
«Ti amo».
«Sì, ti amo anch’io».
«Non potrò più rinunciare a te… sarò tua per sempre».
«Dillo, dillo ancora…»
Su quegli scogli levigati da secoli di onde sempre disuguali. Su quegli scogli, amandosi, si erano giurati un amore che forse non sarebbe stato eterno ma certo diverso da tutti gli amori degli altri che si amavano.
Una sera, mentre la baciava accarezzandola con mani leggere dal seno alle cosce facendola rabbrividire, le disse che era sposato.
«Ma non vivo con mia moglie. Potrai perdonarmi, Elvi? Non volevo perderti».
«Lo sapevo. Me l’aveva detto il brigadiere che ha ritrovato le tue valige e i tuoi documenti. Anch’io non volevo perderti».
Furono ancora capaci di ridere. Capaci di fare l’amore con la passione dei primi giorni. Furono ancora capaci di mentirsi.
Sino al giorno in cui…
Un mattino, verso mezzogiorno. Evelina era andata per commissioni a Catania ed era rientrata un po’ confusa, distratta.
Siloni stava dando gli ultimi ritocchi agli affreschi del salone. In mezzo ai fiori, accanto a quel cavallo di straordinaria forza espressiva, aveva inserito il ritratto a figura intera di Evelina, con quella tunica di seta bianca che le lasciava un po’ scoperto il seno. La pelle appena rosata, lo sguardo perso in un sogno che non si sarebbe mai realizzato.
«Finito?» domandò. Come se fosse importante.
«Sì, lasciamolo asciugare». Le diede un bacio dietro l’orecchio. «E tu?»
Si tolse i guanti, un gesto che piaceva a Siloni perché le scopriva le mani, quelle sue bellissime mani che lui aveva ritratto in più punti dell’affresco, a cogliere un fiore, a lasciar volare una farfalla, a far scivolare l’acqua di una fonte. Lui amava quelle mani. «Ho finito anch’io» disse piano.
«Che significa?»
«Che sono incinta».
«Dio mio, che cosa facciamo ora?»
«Non so che cosa farai tu, io lo so. Aspetterò mio figlio per nove mesi. Anzi, ormai per sette, due sono passati». Si voltò per andarsene, ma Siloni le mise una mano sulla spalla per fermarla. «Sì, io voglio questo figlio» disse risoluta.
«Ma Elvi, ragiona. Sono sposato e anche se non vivo come marito, vicino a lei, è pur sempre mia moglie… Come farai?»
«Non ti preoccupare. Qualcosa farò. Tu puoi tornartene da tua moglie quando vuoi, io non rinuncio a mio figlio. Questo figlio sarà soltanto mio».
E lo guardò, fissandolo, perché capisse che non sarebbe mai più tornata indietro. Mai più gli avrebbe riaperto la porta della sua camera né quella, più segreta, del suo cuore.
La loro storia era finita e lei portava in seno la certezza di averlo molto amato.