DISCENDENTE da una stirpe di carpentieri, Marjorie, che si era rifatta da sola il tetto della sua villetta, ci ha dato una grossa mano a restaurare la villa del belvedere. Come se fosse la cosa più naturale del mondo, Alice le ha proposto di stabilirsi al secondo piano. Non c’era nulla che la trattenesse in Lorena. L’ex marito e la figlia avevano perso il furgone in seguito all’incendio di una raclette: in questo modo avrebbero potuto trovare rifugio sotto il suo tetto senza dover per forza vivere insieme. L’abbiamo anche convinta a tagliare i ponti con il suo passato di agente cinofilo. Così si è unita all’équipe pedagogica della scuola di Èze, dove fa pratica con Juliette e Victor.
Vedere la sua felicità è un piacere per gli occhi e ci stimola a esserlo altrettanto. Fred, a cui non sfugge nulla neanche a distanza, mi ha scritto per sms: «Casomai uno di voi due s’innamorasse di lei, ricordatevi che io sono qui». Non ho ben capito dove volesse arrivare, ma l’ho ringraziata per l’interessamento. Immagino che questo le dia uno scopo, o almeno una prospettiva. Ne ha bisogno. Malgrado la gigantesca mediazione che si è intascata quando la Phytogreen è stata assorbita dalla SolarPlant, la trovo sempre più spenta. Mi dice che il suo stato di salute è stazionario, ma da quello che ho capito passa i tre quarti del suo tempo al capezzale di Eric Vong.
Abbiamo festeggiato i sessant’anni del padre di Alice a Valberg, nel piccolo chalet dove lui alleva gatti da concorso. Ci ha fatto una sola raccomandazione: «Non portate regali, però venite da soli». Va detto che in occasione della sua ultima visita, Jules aveva giocato a bowling con due gattini birmani da mille euro l’uno. Marjorie è rimasta a Èze per fare compagnia ai cani.
Fino a oggi avevo trovato Pierrot Gallien piuttosto simpatico, avendolo potuto giudicare solo in base al suo talento di elettricista nel nostro cantiere. Ma qui, fra le sue cose, è così come Alice lo descrive: un egocentrico dall’aria socievole, un vedovo assai consolabile, che ha conservato il guardaroba della moglie solo per dissuadere le proprie amichette dal lasciare sul suo territorio qualcos’altro, a parte lo spazzolino da denti.
Apparentemente gli piacevo. Soprattutto avevo il vantaggio di essere un uomo, rispetto a quella Fred che non aveva mai potuto sbattere fuori, più per orgoglio che per omofobia: lei, a poker, lo stracciava regolarmente. Ex campione di discesa riconvertito allo sci di fondo, ha inaugurato i festeggiamenti di compleanno facendomi girare su e giù per i boschi per quattro ore, prima di riconsegnarmi alla figlia, senza fiato ma giudicato idoneo a diventare suo genero. Da parte mia, me l’immaginavo come suocero soprattutto nell’ottica di accasare mia madre, che aveva ricominciato a chiamarmi due volte al giorno, come faceva sempre quando si stufava di un amante: «Mi esaurisce. Misura tutto con il telefono: il ritmo cardiaco, la pressione degli pneumatici, il grado di umidità in camera, l’intensità dei miei orgasmi… Ma che ho fatto di male, perché mi capitino sempre dei rompipalle?»
«Ti passo il padre di Alice.»
Quando siamo rientrati a Èze, Victoire stava dormendo in mezzo ai cuccioli. Jules ha avuto una strana reazione. Appena Alice, sdraiata sul divano, si è accesa una sigaretta, lui le ha posato le zampe sulla pancia, ha brontolato, poi le ha leccato freneticamente il bordo della maglia.
«Che ti è preso, Julot?»
Rispondendo per lui ho detto: «Ti sta levando i peli dei gatti. Oppure sei incinta».
Sull’eco della mia frase, ci siamo guardati e, con un unico movimento, ci siamo girati verso Jules. Lui ha mosso la coda per riflesso, come ogni volta che si trova nel mirino di qualcuno. Poi, come per prepararsi alle seccature che probabilmente dovrà sopportare nei prossimi mesi, è andato ad acciambellarsi nella cuccia, testa al muro e orecchie sotto le zampe.
La cosa più difficile di una gravidanza è tenerla nascosta alla futura nonna. Soprattutto quando, come nel mio caso, ci si sforza di nascondere cose ben più rovinose per l’ego e la vanità dell’interessata… Sotto ogni punto di vista, il suo figlio adottivo a sua insaputa sta per «dare alla luce una creatura».
Ogni volta che chiama, mi sforzo di mantenere il solito tono burbero per non metterle la pulce nell’orecchio, ma da qualche settimana, per l’autrice di Zibal, figlio della pattumiera, provo ben di più che un’educata incompatibilità. Éliane de Frèges non riesce a credere che io interrompa le sue lamentazioni amorose interrogandola sui suoi problemi con i cambiamenti di stile, l’alternanza di voci narranti, i vuoti d’ispirazione. Anch’io mi sono messo a scrivere. Una cosa che non avrei mai pensato di fare. Quando nella vita si parte come eroe di un romanzo da sessantamila copie vendute, poi ci si sforza di far dimenticare la dimensione autobiografica tenendosi a distanza dalla letteratura; tanto più che, a oggi, io rimango il solo successo di pubblico e di critica della mia povera mamma, e lei non perde occasione per rimproverarmelo.
Ma è bastato che Fred mi mandasse centocinquanta pagine di annotazioni scritte a mano, accompagnate da un Post-it («A te concludere!») perché, in poche ore, tutti i miei preconcetti sparissero davanti al dovere della memoria.
«Eric non sopportava l’idea di morire lasciando un inedito nel cassetto. Allora, adesso tu gli dai una forma, lo finisci, lo consegni e io lo faccio pubblicare dall’editore di tua madre.»
Ho colto anche il secondo fine: trasformarmi in un angosciato della pagina bianca, intrattabile e chiuso, allergico al più piccolo rumore, a qualsiasi altro argomento. Fortuna che Alice si è rimessa a dipingere. Il solo modo per sopportare la vicinanza di un artista tormentato è essere ugualmente alle prese con un’opera. Ma la richiesta di Fred andava ben oltre il calcolo affettivo. Era la prima volta che sentivo la sua voce incrinarsi: «Sai, le poche persone che frequentava oltre agli animali… Nessuna si è mai accorta dei suoi problemi di salute. A parte io, una sconosciuta. Quando è stato ricoverato, tutti gli hanno voltato le spalle. Il medico che si ammala destabilizza, Zibal, mette paura. Era solo come un cane. Di conseguenza ha fatto quel che doveva fare. Mi ha chiesto di fargli l’iniezione, poi di cremarlo e spargere le ceneri al cimitero degli animali di Asnières; l’ho accontentato. E quindi, ecco. Mi ha nominato esecutrice testamentaria, affidandomi i diritti morali sulla sua opera, perciò io ti affido la bozza che tu e Jules gli avete ispirato. Sbrigati, ho venticinque editori sparsi nel mondo che aspettano la sua ultima pubblicazione: mio caro, siamo seduti su una miniera d’oro».
E così, mio malgrado, per dieci ore al giorno mi ritrovo a completare, correggere, rimaneggiare Il cane che vedeva per lei. Dieci ore al giorno a resuscitare per iscritto il veterinario comportamentale che aveva iniziato a raccontare la storia del nostro labrador.
Il manoscritto si interrompe con un interrogativo al quale io cercherò di rispondere pur non avendo né le sue conoscenze né le capacità. In viaggio verso sud, Jules ha cambiato direzione per condurre da lui Victoire come paziente? O perché a distanza, in quell’uomo che per due volte l’aveva salvato, scambiando con lui una quantità d’immagini, ha avvertito il propagarsi del tumore, la sofferenza, l’angoscia della morte? Forse in Jules l’urgenza di prestargli soccorso ha preso il sopravvento sul desiderio di ritrovarci. A meno che non abbia sentito il richiamo della propria immagine, della profondità con la quale Vong si concentrava su di lui per terminare, prima di morire, il libro di cui era protagonista… Nemmeno io ho la risposta. Ma ho tutto il tempo di cercarla.
Il mio eroe si stupisce che io lo fissi così spesso, la penna in mano, concentrato, come in attesa, quasi implorante; un po’ come lui quando vuole fare una passeggiata. Ma il mio scopo è trarre ispirazione dai suoi occhi. Cogliere un atteggiamento, una reazione, uno stato d’animo che mi permetta di descrivere al meglio il suo carattere, di condividere con lettori sconosciuti i suoi processi mentali.
Jules sostiene il mio sguardo. Si direbbe che capisca. Che voglia condurmi nella sua testa, nel suo modo di vedere… guidarmi.
La sua compagna, un po’ per gelosia, viene spesso a posarmi la zampa sulla coscia, e mi fissa con insistenza quasi a reclamare un posto nel mio racconto.
Come gli altri allievi, anche i nostri cuccioli sono stati affidati a una famiglia adottiva nelle ore in cui non sono impegnati al centro di addestramento. Per Jules e Victoire questa separazione ha spezzato qualcosa, pian piano, calmando l’istintiva tensione che li ha tenuti in allerta negli anni. Come se, assicurata la discendenza, potessero finalmente assaporare il gusto dell’indolenza, del sogno egoista, del gioco a tempo pieno. Due veterani, liberi dal peso della prole, che si godono la pensione senza rimpianti, al fianco di una coppia autosufficiente, al quarto mese di gravidanza.
Anche sul piano finanziario non ce la passiamo tanto male. Dopo aver venduto le mie quote della SolarPlant, ho ripartito il prezzo della libertà fra l’associazione dei cani guida e la Fondazione ESCAPE, rimasta priva di sovvenzioni dopo la guarigione della signora Bühler. Ormai sotto l’occhio vigile di un pastore tedesco meno dispersivo di Jules, la mecenate ha preferito devolvere la sua fortuna alla lotta contro l’Islam radicale, piuttosto che al benessere di altri epilettici. Il professor Schotz, che mi ha ringraziato con lo stesso fervore con cui un tempo mi aveva bacchettato, confida nello sviluppo della sua scuola. Spero che abbia ragione: i principali oppositori dei cani d’allerta epilessia, che ottengono risultati molto superiori a quelli dei farmaci e senza alcun effetto collaterale, ormai non sono più gli scettici bensì le case farmaceutiche. Qui a Èze la situazione è più semplice: dall’anno prossimo i miei fondi permetteranno di quintuplicare il numero dei cani guida affidati alle migliaia di non vedenti in lista d’attesa, e questo non disturba nessuno.
Quanto a Marjorie, insegnando l’amore e la dedizione a decine di cani civili sta rifiorendo di giorno in giorno. Da qualche settimana, con molta discrezione, fa coppia fissa con uno degli educatori che, a sentire Alice, è già riuscito a convincerla a rinunciare ai cerotti. Vivere sopra di noi, alla villa del belvedere, le piace sempre di più. Geniale tuttofare, ha installato a titolo precauzionale un ascensore per Jules, che comincia ad avere problemi alle zampe posteriori. Ci ha poi aiutato ad attrezzare una stanza supplementare nel sottotetto. Fred ha infine accettato di fare da madrina a nostro figlio, dopo avermi bombardato ogni giorno di messaggi perché suggerissi ad Alice di farle la proposta, alla quale poi per orgoglio ha impiegato quindici giorni a rispondere.
Il nostro piccolo avrà quindi due madrine. Saranno appena sufficienti per contrastare i nonni che, dopo aver saputo il risultato dell’ecografia, hanno deciso di farne, da una parte, un campione olimpico di discesa e, dall’altra, un alto funzionario del ministero degli Esteri.
Per adesso la vita scorre al ritmo tranquillo delle passioni che ci legano, fra le tele di Alice che tappezzano di affascinanti incubi le nostre pareti, il libro che le mie emozioni continuano a far lievitare e la nostra vecchia coppia di cani che, dopo tante difficoltà e dimostrazioni di devozione non sempre ricambiata, ha trovato la felicità vera al servizio di niente.