NON ci posso fare niente, sono come Jules: se mi tolgono la possibilità di aiutare qualcuno, sono morta.

Com’è bello resuscitare, dimenticare… Andarsene seguendo un impulso improvviso, tirare una riga su ciò che abbiamo perso. Buttare a mare i rimproveri che ci logorano, i sensi di colpa che ci bloccano. Scordare la nostra sofferenza a beneficio di una causa più disperata della nostra. Scoprire quanto ci sia bisogno di noi altrove. È ciò che racconto nella clip in cui presento il mio lavoro con gli elefanti. Quando oggi dico «noi», lo dico solo in senso generale.

Quand’è che la nostra felicità ha iniziato a sbiadire? Credo il 5 settembre, al ritorno da Trouville. Zibal e io avevamo trascorso il weekend dai Bourdaine, per mantenere vivo il legame con Jules. Ogni volta lui ci accoglieva con la stessa gioia spensierata, il suo peluche in bocca, e appena scesi dalla macchina ci portava a giocare sulla spiaggia, sotto lo sguardo infuocato dei villeggianti. A ognuna delle loro invettive – tipo: «È una vergogna!» – rispondevamo «Grazie» con tono garbato, per troncare sul nascere le lezioni di morale. Motivo dell’indignazione era il nuovo gioco che Jules aveva trovato nella sabbia con la bassa marea, davanti al club velico: un vibratore. Un grosso pene rosa pallido scolorito dall’acqua, che lui ci obbligava a lanciare ogni dieci metri, e che poi andava a offrire alle famigliole che mangiavano sulla spiaggia per avere un morso di sandwich. Con maligno piacere, Zibal aveva messo le pile nuove; e se il cane azionava il vibratore, i denti serrati sul membro che si agitava ronzando, io spiegavo ai bagnanti che era in assoluto il sistema migliore per eliminare il tartaro.

Jules era un vero toccasana per il piccolo Oscar, sia perché lo faceva ridere a crepapelle, sia perché vegliava su di lui senza mai abbassare la guardia. A forza di annunciargli con mezz’ora di anticipo le crisi epilettiche, queste si erano prima diradate, per poi sparire del tutto. Le crisi erano acuite non solo dall’angoscia che fossero improvvise, ma anche dal fatto che le medicine avevano davvero efficacia solo se somministrate alla comparsa dei primi sintomi. Il medico non ci poteva credere: il bambino era guarito. E quindi Jules aveva cominciato ad annoiarsi. Senza più il timore di cadere, perdere conoscenza e avere le convulsioni, il ragazzino poteva giocare liberamente con i suoi coetanei, e la sua guardia del corpo disoccupata ormai non si divertiva nemmeno più con il vibratore trovato nella sabbia. Quella domenica sera, mentre Zibal caricava le valigie, Jules si era acquattato in macchina, sul sedile posteriore, sotto il plaid, e noi avevamo finto di scoprirlo solo in autostrada.

I Bourdaine si erano mostrati comprensivi. Certo, il labrador gli mancava, ma il suo compito era finito. Il bambino finalmente poteva frequentare la scuola come gli altri e, due settimane dopo la partenza di Jules, gli avevano comprato un cane «normale». L’aggettivo mi aveva disturbato. Come fosse un presentimento.

Per ragioni fiscali, Fred aveva obbligato Zibal ad aprire la sua società in Belgio. Ci eravamo trasferiti nelle Fiandre, a De Haan, graziosa stazione balneare dove Jules non si sentiva troppo spaesato, fra il mare del Nord, la caccia ai gabbiani e le dune tra cui rincorrere le cagnette in calore. Ma non era soddisfatto di quella vita «normale». Aveva ricominciato a importunare i vecchi con il bastone, a inseguire i ciechi soli, a offrire i suoi servigi a ogni sedia a rotelle della città. Pieno di speranza – sempre delusa – il sabato mattina restava in attesa del minibus con i ragazzi Down di Gand, che venivano a respirare un po’ di aria buona al mare. Ogni volta gli accompagnatori lo scacciavano lanciandogli la sabbia, dal momento che le sue prodezze in acqua da soccorritore esperto seminavano il panico tra i ragazzi.

Non c’era nessuno da aiutare su quella costa fiamminga dove non esistevano senzatetto o handicappati lasciati a se stessi. La solidarietà della gente, poi, aggravava il suo senso di esclusione. Aveva smesso di mangiare, come all’indomani della mia operazione, quando non avevo più avuto bisogno dei suoi occhi. Nel caso di Jules – lo so per esperienza – lo sciopero della fame è il segno premonitore di una depressione profonda, alla quale nessuno che non abbia un handicap fisico può porre rimedio. Non si sarebbe mai ripreso dalla mia guarigione, se non avesse indirizzato i suoi sforzi su quel poveraccio che era Zibal al momento del nostro incontro.

Lo vedevo peggiorare di giorno in giorno. Usciva solo per fare i suoi bisogni, non giocava più. Quando gli lanciavo la palla, la guardava passare con stanca indifferenza. Dormiva quasi tutto il tempo, non era più allegro.

Era colpa nostra? Zibal, totalmente preso dalle sue invenzioni e dalle strabilianti prospettive che Fred prometteva, passava quindici ore al giorno sui suoi batteri interattivi, sulla plastica naturale prodotta dalle sue alghe, sulle sostanze anticancro che ricavava dalla gramigna, sul caucciù bio che estraeva dalla radice dei denti di leone. Io mi dedicavo a progetti di nuove trasmissioni, che spedivo per e-mail ai responsabili di RTL, che poi impiegavano un sacco di tempo a rifiutare. Non ero più la loro «voce simbolo», Miss Traffico, la loro radioguida cieca. Non ero più la mascotte portatrice di handicap, per la quale tutti i colleghi si erano autotassati quando il servizio sanitario aveva rifiutato di accollarsi la spesa per le cornee artificiali. Ormai rientravo nell’ordinaria amministrazione. I miei progetti dovevano seguire la procedura standard: obiettivi di redditività, fattore d’impatto, audience per fascia oraria e tipologia del bacino d’utenza. Stessa musica anche nelle altre radio. Avevo fatto il mio tempo, non ero più sul posto, e nemmeno sul pezzo.

E poi c’era il nuovo socio, che Zibal aveva sistemato nella villa vicina. Il geniale botanico che aveva preso sotto la sua ala con la moglie violoncellista che aveva appena messo al mondo una bambina, in un clima coniugale così felice da decuplicare il mio desiderio di maternità. Zibal voleva intensamente un figlio, purtroppo il suo sperma no. Motilità degli spermatozoi insufficiente e calo di fertilità dovuto all’età, gli aveva diagnosticato l’endocrinologo. A me non l’aveva confessato, ma si era confidato con Fred, che si era premurata di riferirmi tutto. Per non mortificare il suo ego maschile obbligandolo a ricorrere alla fecondazione assistita, Fred mi aveva consigliato di dirgli che avevo difficoltà a restare incinta per via di un blocco psicosomatico dovuto a quello che mi era successo a diciassette anni, quando i tre che mi avevano violentato mi avevano bruciato gli occhi con uno spray per autodifesa. Zibal aveva accolto questa spiegazione di comodo con stupore e compassione senza lasciar trapelare in alcun modo il suo sollievo.

Bisogna dire che la ridotta motilità degli spermatozoi in sé non era grave, e l’inseminazione artificiale avrebbe potuto risolvere il problema. Quanto al progressivo calo di fertilità, Zibal si premuniva congelando la maggior parte dei prelievi, che archiviava nel suo laboratorio per evitare eventuali errori a livello ospedaliero. Però questa procedura aveva alterato la nostra libido, e le prime ovulazioni non avevano dato esito positivo.

Zibal si prendeva tutta la colpa. A un certo punto mi aveva confessato la verità. Be’, la sua verità, come se la raccontava. Le condizioni particolari della sua nascita, sosteneva, gli impedivano di riprodursi, cioè di proiettarsi nel futuro. Ed era convinto di esercitare inconsciamente un’influenza negativa sui suoi spermatozoi, rallentandoli. Anche a distanza, nella siringa per l’inseminazione. Per dimostrare questa baggianata, si rifaceva alla sua teoria dell’interconnessione dei batteri, basata sui lavori che il suo idolo Cleve Backster aveva pubblicato su Science, teoria che aveva voluto illustrarmi, tutto serio, nel corso di un esperimento dimostrativo. Dopo aver collegato degli elettrodi alla provetta contenente il liquido seminale che aveva raccolto un’ora prima, aveva collegato se stesso a un secondo elettroencefalografo. Poi, con la testa infilata in un casco dai fili multicolori, si era scrupolosamente masturbato davanti a me. Al momento dell’orgasmo i due tracciati dell’EEG, il suo e quello dello sperma nella provetta, avevano avuto lo stesso picco di attività elettrica.

«Vedi», aveva osservato con tono contrito, indicando la provetta. «L’interconnessione dei batteri funziona anche a livello degli spermatozoi.»

«E quando li congeli ti viene il raffreddore?»

Era stata l’ultima volta che avevamo riso insieme. Il mio ultimo atto d’amore per l’incredibile dolcezza con la quale, pur nei suoi vaneggiamenti, tentava di distogliermi dall’angosciosa idea di essere sterile che mi ero inventata per placare i suoi sensi di colpa.

Jules, che aveva preso come un’offesa personale questa nostra ritrovata complicità, ci aveva tenuto il muso per quindici giorni. Mi ci è voluto del tempo per ammetterlo, ma la nostra ossessione di avere un figlio lo irritava particolarmente. Avevamo un bel daffare a dimostrargli con il nostro comportamento che sarebbe sempre stato al centro del nostro universo, ma lui doveva affrontare una sfida che non rientrava nelle sue competenze, e la viveva male, ogni giorno di più. Una mattina, mentre eravamo fuori, in un accesso di gelosia aveva aperto il congelatore e gettato sul pavimento, mandandole in frantumi, le provette del suo padrone; difficile imputare questa dichiarazione di guerra al caso o a un dispetto. Il nostro cane stava andando fuori di testa.

Per trovargli un diversivo, Zibal aveva risposto a un’offerta di lavoro per lui. Una scuola cinofila che aveva appena aperto in Lorena, sotto l’egida della Fondazione francese per la ricerca sull’epilessia, faceva test di reclutamento.

Il colloquio di lavoro era cominciato molto male. Messo di fronte a una ragazza epilettica, Jules le era saltato al collo, causandole una storta alla caviglia. Il professor Jérôme Schotz, un omone entusiasta che supervisionava il progetto, aveva cacciato il candidato a forza di insulti. Neurologo al Centro ospedaliero universitario di Nancy, aveva messo a rischio la sua reputazione quando aveva deciso di sfruttare le facoltà psichiche dei cani – molti colleghi giudicavano la sua teoria una bufala – e non voleva certo avere tra i piedi un animale isterico. Umiliato, Jules si era messo in salvo fuggendo tra le corsie dell’ex fabbrica trasformata in centro d’addestramento. Prima che Zibal lo acchiappasse, era balzato addosso a un altro epilettico, che stava infilando una moneta nella macchinetta del caffè, e gli aveva abbaiato contro costringendolo a sedersi. I segni precursori della crisi si erano manifestati cinque minuti dopo. A quel punto, dopo aver sentito al telefono le testimonianze dei genitori di Oscar, il professor Schotz aveva reclutato Jules per un periodo di prova.

Zibal era tornato a casa da solo, tutto contento di farmi questa sorpresa. Data l’illogica generosità che lo contraddistingue, aveva creduto in assoluta serenità che sarei stata felice di perdere il mio cane un’altra volta. Avevo finto di esserlo per non dargli un dispiacere. Per Jules era di vitale importanza trovare un nuovo impiego. Ne bastava uno di disoccupato in famiglia.

Dopo tre settimane di test supplementari, il tirocinante era stato reclutato: avrebbe continuato l’apprendistato di soccorritore professionista e alloggiato nella sede della scuola insieme a una ventina di colleghi di ogni razza, in attesa di essere poi assegnato stabilmente a un epilettico. Io o Zibal andavamo a trovarlo una volta alla settimana. Ci faceva festa, ma si dimenticava subito di noi. Era la prima volta che lo vedevo così ben integrato tra i membri della sua specie. Su un piano di parità, di emulazione reciproca. Lui, che non si era mai interessato ai suoi simili se non per accoppiarsi, ecco che faceva squadra. La scoperta fondamentale che stava per trovare conferma in questa scuola lorenese è che un cane in grado di anticipare la crisi di un epilettico può «insegnare» a farlo, per imitazione, a un compagno che fino ad allora si è dedicato solo a sordi, ciechi, paraplegici, autistici.

Il compito educativo della ESCAPE era duplice: non solo insegnare al novellino a migliorare le tecniche di percezione, di comunicazione e di soccorso che aveva imitato in modo spontaneo, ma raccogliere dati teorici per fornire basi scientifiche ai risultati pratici ottenuti e conseguentemente giustificare le sovvenzioni di cui l’associazione aveva assoluto bisogno. Una delle priorità della ricerca era stabilire in che modo i cani captavano l’approssimarsi di una crisi: un odore particolare del malato, scariche elettromagnetiche nel suo cervello, «sintomi indicatori» forniti da impercettibili modifiche nel comportamento. Così i tirocinanti lavoravano a turno con caschi muniti di elettrodi, annusando le magliette intrise del sudore dei pazienti volontari nel corso di una crisi, il tutto ripreso da telecamere, per analizzare le loro reazioni.

Non solo Jules si divertiva a prendersi cura di ogni malato che gli venisse messo a disposizione, ma era stato incaricato anche di formare gli apprendisti. Era ringiovanito di dieci anni. E, ciliegina sulla torta, si era innamorato di una femmina di bracco di Weimar, Victoire, ex cane da ricerca antiesplosivi della polizia che l’agente a cui era stata affidata aveva deciso di sottoporre ai test. Ero felice per lui. Ma ormai neanche più mi vedeva.

Ed era stato proprio a questo punto che Zibal aveva iniziato a dimenticare i suoi problemi di fertilità fra le braccia della direttrice finanziaria. Ero stata informata da un sms anonimo: una SIM prepagata con un numero che non era già più rintracciabile quando l’avevo digitato. Considerato il tono e i dettagli, avevo dedotto che il messaggino venisse dalla troia stessa, determinata a sgombrare il campo. Zibal era stato patetico nel negare la relazione. Avevo evitato di mostrargli l’sms, perché conservasse un minimo di dignità. Non avevo alcuna voglia di vederlo annaspare per inventare grottesche smentite. Non è l’infedeltà che gli rimprovero, è la mancanza di fiducia che ha dimostrato rifiutando di ammetterla.

Fred, che era passata per presentargli nuovi investitori, aveva tentato di farmi parlare. Perspicace quasi quanto Jules, sa sempre cogliere le emozioni che io cerco di nascondere.

«Qual è il problema con Zibal?»

«Sei tu. La pressione finanziaria alla quale lo sottoponi.»

Non aveva colto l’allusione. Né quanto fosse stato ingiusto il rimprovero: lei non aveva fatto altro che raccomandare a Zibal la manager più competente. Però non era stato con Fred che mi ero confidata. Ma con il sottufficiale Marjorie Ménières.

Ci eravamo incontrate per le formalità di ammissione dei nostri cani. Stessa età, lei tanto bruna e rigida quanto io bionda e flessibile; avevamo simpatizzato subito. Come me, anche lei viveva molto male la depressione di questi «professionisti» che non accettano di essere congedati, ma la situazione di Victoire era ben più grave di quella del mio Jules. Addestrata per tre anni nel Centro nazionale di educazione cinofila della polizia, era stata poi arruolata nell’Unità antiterrorismo. Insospettabile e raffinata con quella sua eleganza da cane da concorso di bellezza, i begli occhi gialli, il mantello marron glacé, operava in un contingente di cani da pastore belga, di cui surclassava le capacità. Durante gli Europei del 2016, assegnata al rilevamento di cinture esplosive allo Stade de France, aveva fiutato un sospetto. Come le era stato insegnato, lo aveva segnalato sedendosi tranquillamente ai suoi piedi. Prima che Marjorie e i suoi uomini si precipitassero a neutralizzarlo, il kamikaze era fuggito per farsi saltare in aria. Non c’erano state vittime, grazie ai cordoni di sicurezza, ma alcune schegge di ossa avevano perforato il naso di Victoire, che aveva perso l’odorato.

Dopo il congedo, la depressione del cane aveva contagiato la padrona. Assillata dagli psicologi della polizia, che la sottoponevano continuamente a test comportamentali nel timore che rabbia e desiderio di vendetta le sottraessero energie rendendola meno efficace nella lotta al crimine, alla fine Marjorie aveva mandato tutti a quel paese e si era presa un periodo di malattia, come peraltro i suoi superiori auspicavano. Congedati, agente e cane per tre mesi erano rimasti rintanati nella villetta di periferia, come due pensionati di cui nessuno ha più bisogno. Fino all’annuncio su Le Républicain lorrain. La prospettiva che Victoire potesse ritrovare uno scopo nella vita anche senza il suo fiuto, captando le onde cerebrali che annunciano una crisi epilettica, ormai era diventata la sola speranza e il solo obiettivo di Marjorie.

Istintivamente, Jules era andato ad annusare la graziosa femmina di bracco e le aveva insegnato le regole del gioco con gli epilettici. Appena inviavano un segnale con il viso, bisognava abbaiare, dargli l’ordine di sdraiarsi e poi stendersi sopra di loro. Durante l’open day, mentre Zibal era occupato in una riunione di lavoro, Marjorie e io avevamo assistito, impressionate, al corso accelerato che l’ex cane guida faceva all’ex ausiliaria della polizia, per poi balzarle addosso nell’eccitazione dell’insegnamento. Inevitabilmente la situazione aveva creato fra l’agente e me, se non un legame, almeno un certo turbamento.

Eravamo andate a berci un bicchiere insieme. Era una ragazza molto spiccia, che non si perdeva in preamboli, dallo sguardo blu ghiaccio e il tono franco. Divorziata da uno stronzo pieno di debiti – che lei gli stava ancora pagando – aveva chiuso con gli uomini, ma si era mostrata stranamente comprensiva quando le avevo confidato il tradimento di Zibal. Mi aveva confessato di aver classificato subito il tipo il giorno in cui aveva accompagnato Jules per il test di reclutamento, ma mi aveva consigliato di essere indulgente: «Meglio uno carino, anche se lo devi dividere con un’altra, che un idiota che sta con te solo per i soldi. Però fai come lui: scopa in giro, pensa solo a te stessa, altrimenti non resterai uno schianto ancora per molto». Mi era suonato strano sentire quella graziosa ragazza, più matura dei suoi anni, consigliarmi di andare a letto con altra gente per rimanere bella. Mi era venuta quasi voglia di tornare a essere bisessuale. Il mese dopo, alla consegna dei diplomi della ESCAPE, quando ci eravamo scambiate il bacio di rito, la mia bocca era andata verso le sue labbra. Lei mi aveva bloccato con una smorfia complice, indicando con il sopracciglio Zibal, impegnato a discutere con il direttore della scuola.

Nel corso del buffet che ne era seguito, avevamo distolto gli occhi da Jules e Victoire, che avevano deciso di festeggiare le medaglie… l’uno sopra l’altra. Marjorie, in bustino nero, aveva un seno da urlo, sul quale cercavo invano di cogliere lo sguardo di Zibal. Eppure era infinitamente più sexy della sua contabile caraibica, rigida di botox come un cadavere. Mi dicevo: Sbaglierò, ma avendo gli stessi gusti… Eppure, in mia presenza, lui fingeva di non notare nessun’altra donna. Fra i cani, l’amore è più semplice.

«Spiacente, ma sarò costretto a separarli», aveva sospirato il professor Schotz, unendo con le sue manone la mia spalla a quella di Marjorie. «La signora Bühler ha scelto Jules.»

Il tono era definitivo. Il neurologo, con il fisico da rugbista e la barba incolta, filava dritto, remissivo come un agnellino, davanti alla vecchietta in jeans e maglione dolcevita che finanziava le ricerche. Ex delegato sindacale della Caravanes Rosine, l’azienda numero due nella produzione di roulotte in Francia negli anni Sessanta, Antoinette Bühler nel 2004 aveva vinto quaranta milioni di euro alla Lotteria. Aveva riscattato il castello del suo ex datore di lavoro cedendone l’usufrutto al comune di Oberheim perché lo destinasse a opere di assistenza sociale, e viveva con il nipote orfano in una delle case coloniche della proprietà, a trecento metri dalla fabbrica in disuso, che aveva messo a disposizione della ESCAPE. Ammalatasi di epilessia in seguito allo shock nervoso dovuto alla vincita milionaria, la sindacalista si era aggiudicata come assistente personale il più meritevole dei neodiplomati.

Jules era smontato da Victoire e si era precipitato verso di noi, quando aveva visto il professor Schotz presentarmi la sua benefattrice.

«Si è ambientato molto bene in casa», aveva assicurato la signora, con il tono perentorio con cui doveva aver sedato più di uno sciopero. «In sei giorni ha anticipato nove mie crisi: non mi muovo più senza di lui.»

Accarezzandolo con la delicatezza di un muratore che maneggia la cazzuola, aveva concluso: «Non credo ai miracoli, però lui ha trasformato radicalmente la mia vita. Vero, il mio cagnolone?»

L’interpellato aveva mosso la coda educato, ma concentrato sul cervello della paziente.

«Sto bene, vero?» gli aveva subito chiesto l’anziana donna, allarmata dal suo sguardo fisso.

Jules aveva fatto dietrofront per tornare ad annusare Victoire. Non aveva rivolto neanche uno sguardo né a me né a Zibal, come un adolescente che si sforza di ignorare i genitori, quando sta con gli amici. La signora Bühler invece si era sentita pienamente rassicurata.

«Abbiamo un codice, noi due», mi aveva spiegato, dandomi una pacca. «Quando non fa attenzione a me, vuol dire che sto bene.»

Avrei tanto voluto poter dire lo stesso. Marjorie non aveva occhi che per il suo cane, che, indifferente ai suoi richiami quanto alle avance di Jules, passava da un epilettico all’altro, offrendo i propri servigi come un mendicante.

Zibal, invece, era impegnato a discutere con Jérôme Schotz. C’era una forte sintonia fra l’inventore compulsivo che faceva dialogare i batteri e il ricercatore ossessionato dalla telepatia epilettica.

«Non è solo il fiuto a individuare i segnali precursori della tempesta cerebrale: Victoire ne è la prova. Ma non sono neanche le onde elettromagnetiche: i cani avvertono l’arrivo delle crisi anche se li metto in una gabbia di Faraday. No, le uniche onde che possono penetrare la barriera di Faraday sono le onde scalari…»

«…che avanzano a spirale», aveva concluso Zibal. «Le stesse che trasportano le informazioni fra i vegetali. Le stesse che permettono, e l’ho dimostrato, scambi fra le cellule del nostro corpo e quelle che ci sono state prelevate in provetta. Le stesse che sono all’opera nella magnetoterapia.»

«Che ne dice di fare una pubblicazione insieme su Science

«Certo, e posso anche presentarle i partner cinesi che la nostra direttrice finanziaria ha riunito per la prossima settimana. Concedono fondi illimitati a qualsiasi programma di ricerca che riguardi le onde scalari.»

Avevo raggiunto al buffet Marjorie, che si stava lasciando rimorchiare dal barman per dimenticare la separazione dalla sua cagnetta. Per discrezione, ero andata a bere un po’ più in là.

Era stato al quinto bicchiere di vino bianco che avevo preso la decisione.

Sono andata via, ma non ho lasciato nessuno. Il mio cane e il mio uomo hanno deciso di vivere la loro vita; il loro amore è altrove, e io sono troppo orgogliosa per accettare il ruolo della donna abbandonata. Avevo due scelte: perdermi cercando di riprendermeli, o ritrovarmi, accettando che fossero felici senza di me. E nel contempo riannodare i fili con il mio universo di prima. Con quella passione, che pure mi aveva tradita.

Quando ero cieca, solo la pittura mi aiutava a mantenere un mio punto di vista. Jules mi sceglieva i colori, componeva la tavolozza allungandomi i tubetti con il muso, e io avvertivo le tinte in base al calore che liberavano sotto le mie dita. Ero convinta di fissare sulla tela una visione del mondo allegra, stimolante, fedele all’immagine che le mie scollature e le minigonne attillate dovevano dare di me. Nel momento in cui le cornee artificiali mi avevano restituito la vista, avevo scoperto i ritratti ansiogeni, i paesaggi tetri che avevo dipinto per i miei famigliari e per il pubblico. Avrei tanto voluto che ammirassero il mio solare spirito di adattamento; invece avevano potuto soltanto commiserarmi in silenzio per quella finestra aperta sulla mia notte interiore. Avevo svuotato lo studio, portato in strada quadri, cavalletto e cornici e chiamato la nettezza urbana. Era necessario che il mio nuovo mondo crollasse e il mio amore si spezzasse, perché tornassi ai pennelli. Ma non miei, questa volta.

Il giorno in cui Fred mi ha parlato della Thailandia, di questa scuola di pittura per elefanti, che cercava un artista contemporaneo desideroso di affiancarli nel lavoro, ho colto l’occasione al volo. Un’ancora di salvezza, che mi forniva il pretesto ideale per prendere il largo senza altra motivazione se non quella professionale. Zibal era contento per me. Si rimproverava di aver messo troppo spesso il suo lavoro davanti alla nostra vita insieme. Ha detto che almeno così saremmo stati pari.

Che ironia, la vita. Jules insegna ai suoi simili ciò che ha scoperto da solo, per empatia e istinto, stando a contatto con un ragazzino epilettico. E io, adesso, insegno i segreti di un’arte che non pratico più a dei pachidermi che abbiamo iniziato a considerare non più vittime e fonte di facili guadagni, bensì come un investimento per il futuro. Io li aiuto a vendere. Alle ultime aste di Christie’s a Londra, un quadro di Soto – artista di quattro anni e tre tonnellate e mezzo di peso – ha toccato i diecimila dollari. Così il valore commerciale dell’elefante non è più limitato alle zanne che il bracconiere gli strappa dopo averlo ammazzato.

Il lavoro che mi sono imposta al Maetaeng Park di Chiang Mai è semplice: insegnare ai miei allievi l’arte dell’autoritratto. Non è una chimera: l’elefante è uno dei pochi mammiferi che ha coscienza di sé. Nel test dello specchio, quello ideato da Gordon Gallup, ottiene risultati migliori del delfino e dello scimpanzé: non solo si riconosce nel riflesso, ma agisce in funzione dell’immagine. Infatti, scoprendo nello specchio la croce di vernice bianca tracciatagli ore prima a sua insaputa dietro l’occhio sinistro, si sfrega la pelle con la proboscide per cercare di levarla. Al che ho dedotto che questo animale, per quanto poco impari a disegnare ciò che vede nello specchio, avrà comunque la consapevolezza di riprodurre la propria immagine.

La mia ipotesi ha trovato conferma molto in fretta. Fino ad allora, gli addestratori del Maetaeng Park impiegavano mesi per insegnare a un pachiderma come dipingere un vaso di fiori, di cui in sostanza non gli fregava niente. In quindici giorni, con facilità e soddisfazione sconcertanti, i miei allievi sono passati all’autoritratto. Specchio a destra, cavalletto a sinistra, pennello nella proboscide, a richiesta si ritraggono in meno di cinque minuti, tanto in privato quanto davanti ai turisti. Da quando ho ideato questa attrazione, i proprietari del parco sono entusiasti dei maggiori guadagni: il numero dei visitatori è triplicato e la quotazione dei loro artisti quintuplicata. Ma per me il più bel riconoscimento è quello che viene dagli elefanti. Fatto rarissimo, a quanto pare, la più prolifica delle mie allieve, una matriarca, è addirittura venuta a mostrarmi il suo piccolo che imparava a camminarle fra le zampe. Perché le insegnassi a fare un ritratto di famiglia?

Magnifici esempi di fiducia e amicizia, mi hanno guarito dal mal d’amore. Non ho dimenticato, ma non ci penso più. Non ho il tempo, né il cuore, di tenere a distanza chi desidera e ha bisogno della mia presenza. Nel parco non c’è Internet, bisogna inerpicarsi su una collina a tre chilometri di distanza per trovare il segnale e io ne faccio a meno. All’atterraggio, ho avvertito Zibal che ero arrivata, e che non avrei più potuto dare mie notizie. Mi concedo ancora tre settimane di silenzio, fino al grande vernissage che patrocinerò a Bangkok. I responsabili del parco mi hanno informato che l’esposizione degli autoritratti, cui ho dato un titolo francese, Trompe-l’œil, verrà annunciata sui media di tutto il mondo. Nel contratto ho richiesto che il ricavato venga devoluto alle associazioni che si battono contro i trafficanti d’avorio.

Sono contenta della missione che mi sono imposta per convertire la mia sofferenza in altruismo. Non è una fuga. È un altro modo per rimanere in sintonia con il mio cane, ora che obiettivamente non ha più ragione di vegliare su di me. Questi elefanti pittori, con le straordinarie abilità che sto portando alla luce, con lo stupore che suscitano, sono come Jules e i suoi compagni a servizio degli epilettici: i migliori ambasciatori della causa animalista.