È SDRAIATO su un tavolo da veterinario. Lui trema di freddo, io mi sento gelata. Risuonano dei colpi, molto forti. Non reagisce. Mi sta chiamando, ma allo stesso tempo non vuole disturbarmi. Mi avverte che mi lascerà, un’altra volta. Ma non per occuparsi di qualcun altro. Mi sta dicendo addio.
Mi sveglio di soprassalto, madida di sudore. Stanno bussando sulle tavole del mio bungalow. Con il cuore stretto, corro ad annegare i postumi dell’incubo in una tazza di tè verde. Sono stufa dei sensi di colpa. Sono stufa che Jules mi perseguiti di notte, senza tregua, senza domande, senza speranza. Eppure comincio davvero a stare meglio. A elaborare il lutto, a tollerare la solitudine, a ritrovare il gusto per la vita… I colpi di proboscide contro la porta si intensificano. Doccia, fetta di pane, m’infilo i pantaloncini e raggiungo Samantha.
Da quando ci siamo incontrate, lei mi sta aiutando a dimenticare il mio Jules, o almeno a non soffrire più ventiquattr’ore su ventiquattro per la sua indifferenza. D’altronde si potrebbe dire che è per questo, per questo dolore, per questa mancanza, per questa angoscia senza appigli, che la vecchia elefantessa mi ha scelto, è venuta da me, mi ha regalato il suo pneumatico. Questa ruota di camion è il suo giocattolo da quando è stata accolta qui, proveniente da un centro di elefante-terapia dove, ormai troppo piena di reumatismi per poter scorrazzare in giro i turisti sulla sua cesta, il personale la prendeva a bastonate. Nei villaggi vacanze dedicati al fitness, quando gli animali non possono più servire da porta-coglioni, allora fungono da sacco da boxe. È questa l’elefante-terapia. Uno dei viaggi a tema più in voga su Internet – così parrebbe –, dopo il turismo sessuale, la visita ai campi di concentramento e i luoghi dove viene girato Il Trono di Spade.
Come mi ha spiegato il suo terapeuta, che non se ne capacitava, l’avermi offerto il suo pneumatico è più di un segno di fedeltà. È una prova di fiducia assoluta. A quanto sembra, questo giocattolo intorno a cui arrotola la proboscide le faceva da scudo mobile se c’erano umani nei dintorni. Nei bungalow vicini, ci sono quattro ex professori, ben più esperti di me riguardo all’insegnamento tecnico, ma è con me e per me che Samantha vuole dipingere. I suoi autoritratti sono destinati a me, come fossero un segreto, un’eredità. Ma lei si rifiuta di riprodurre la testa che lo specchio le restituisce. Accetta solo di dipingere il suo pneumatico.
Singh, il suo terapeuta, è originario del sud della Thailandia. Fa parte, così mi ha detto, di una ONG che si occupa delle violenze sugli animali. Questa mattina, guardandomi correggere dolcemente le pennellate dell’elefantessa con la sua stessa proboscide, all’improvviso mi ha confessato che si era offerto volontario per condurre Samantha fin qui per verificare la fondatezza di voci riguardanti le torture. Mollo la proboscide per chiedergli di che cosa sta parlando. Mi dice che molti siti Internet, suffragati da video, denunciano le violenze che i pachidermi subiscono per stimolare il loro senso pittorico, in modo da costringerli a riprodurre meccanicamente la stessa pennellata e così poterli inserire nei nostri corsi di perfezionamento.
Incredula, salto subito su una jeep e filo verso la collina di Kum Yot per trovare il segnale. Allora è questo il segreto della docilità creativa dei miei allievi? Una variante del phajaan, l’antica credenza che, attraverso la sofferenza, pretende di separare lo spirito di un elefantino dal suo corpo, affinché perda la natura selvaggia e sia completamente sottomessa al controllo dell’uomo? Convinta di difendere la causa di questi animali a rischio di estinzione, sarei complice involontaria di una formattazione artistica mediante tortura? Realtà infame o invenzione diffusa dai trafficanti d’avorio per screditare gli avversari?
In cima alla collina, sullo schermo appaiono due barre, scompaiono, ritornano. Prima di verificare su Google le accuse mosse da Singh, apro la posta. In mezzo a una ventina di mail, me ne balzano all’occhio due.
Si metta in contatto al più presto con il canile di Oberheim, per il cane labrador di nome Jules di sua proprietà, come riportato nel tatuaggio.
Tre mail più sotto, Zibal scrive:
Alice,
Fred mi ha detto che sei irraggiungibile e che, in ogni caso, non servirebbe a nulla turbare il vernissage dei tuoi elefanti, informandoti di quello che sta succedendo: arriveresti troppo tardi. Ma so che non mi perdoneresti mai di averti nascosto la situazione. In breve: Jules ha morso il nipote della signora epilettica, c’è un’ordinanza che lo condanna a morte, ma io farò l’impossibile per salvarlo. È tutto ciò che mi resta di te. Di noi. Pertanto, se riceverai questa mail, mandami tutte le preghiere, tutta l’energia, tutta la fiducia di cui ho bisogno per impedire questo orrore. Ti amo. Malgrado ciò che pensi, io sono sempre il sognatore sincero al quale tu e Jules avete stravolto il destino che mi voleva dietro il banco dei macarons. Nulla mi ha cambiato, Alice, né le sconfitte, né i successi, né i malintesi. Non ti ho mai tradito, prima che tu mi lasciassi. Per me, oggi come ieri, non c’è nessuno oltre a te e al nostro cane. Te lo proverò. Sacrificherò tutto quello che ho lasciato si interponesse fra noi. Se ci tieni ancora a me. E anche se non fosse più così.
Spero che per quanto ti riguarda tutto proceda per il meglio.
Lo schermo si offusca per via delle lacrime. Lo ingrandisco per rileggere questa mail che mi sconquassa e insieme mi rigenera. Ho paura, sto male, sono furiosa e disperata di non poter fare niente, e, nello stesso tempo, la fiducia che Zibal mi chiede di avere m’invade, una frase dopo l’altra. Certo che non ho mai smesso di amarlo; semplicemente gli ho lasciato la possibilità di scegliere, come a Jules. Annullandomi per soffrire meno, solo questo. Dopo che ho recuperato la vista, tutti hanno dimenticato che io ho ancora bisogno di essere protetta. Come gli ex grassi che si portano sempre dentro il peso ormai perso, sono troppo insicura per prendere le cose di petto, rischiando di perdere il controllo o di restare delusa…
Prenoto il primo volo per Parigi. No, non uccideranno il mio cane. E nessuno toccherà più il mio uomo. Se Fred, spedendomi in Thailandia, ha voluto allontanarmi perché lui si dimenticasse di me, si è sbagliata! In amore sono fragile, ma so combattere.
Indifferente alle proteste degli organizzatori del vernissage, che contavano su di me per i media, voglio solo dire addio a Samantha. Rendendole il suo pneumatico, le spiego teneramente che non abbandono la loro causa; continuerò, sostenendola a distanza. Ma mi assicurerò che i «benefattori» che sfruttano il loro talento pittorico non abbiano nulla a che fare con i seviziatori che Internet denuncia. E chiederò spesso sue notizie.
L’elefantessa curva la proboscide, si riprende la sua ruota, e lentamente mi gira la schiena per accelerare la separazione.