È SDRAIATO sul cemento, in una gabbia di due metri quadri. Appena ci sente, balza in piedi e abbaia come non l’ho mai sentito fare. Terrorizzato, furioso, rauco. M’inginocchio davanti a lui, infilo le braccia fra le sbarre lucide di bava, per toccargli il pelo ritto, umido, sudicio.

«Sono io, Jules, sono io… Va tutto bene.»

Lo sa che sono io, e che non va bene per niente. Per quale motivo è stato tolto alla sua protetta, ai suoi doveri, per essere rinchiuso in questo braccio della morte, in mezzo alla rabbia, alla paura, agli ululati degli altri prigionieri? Lo rivedo, il giorno del nostro incontro a Orly, nella gabbia della Air France dove il personale di terra l’aveva imprigionato, a dispetto del suo status di cane guida. La stessa incomprensione, la stessa collera impotente, salvo che allora era da solo, vittima della crudeltà dell’uomo. Adesso, il suo panico astioso e disperato, amplificato da quello di altri cento reclusi, non è che un sussulto di agonia. E io non ho modo d’intervenire. Anche questo, lui lo sente. All’aeroporto, nella mia divisa a righe di Ladurée, ero diventato suo amico in un attimo, quando avevo fatto a botte per liberarlo, restituendolo ad Alice che partiva per sottoporsi all’operazione alle cornee. Ma quel giorno avevo la legge dalla mia parte: un regolamento europeo che vieta di separare il cieco dal cane guida. Adesso, è Jules contro la legge. E la giustizia ha emesso una condanna a morte. I suoi ululati sono senza speranza, le convulsioni che gli agitano il corpo non si calmano sotto le mie carezze.

«Ora ti tiriamo fuori da qui.»

La mascella si richiude a cinque centimetri dal mio polso.

«Faccia attenzione», mi dice l’addetto del canile. «È estremamente aggressivo.»

Mi trattengo dallo scaraventarlo contro le sbarre.

«Apra subito questa gabbia!»

«Non sono autorizzato: ci vuole la presenza del veterinario. È un B 4.»

Un B 4. È il codice che mi hanno detto al telefono. Un cane classificato pericoloso, recidivo, irrecuperabile. Un condannato, che nessuno ha il diritto di tirare fuori dalla cella, se non per l’iniezione letale. Il liquido rosa vuoterà una gabbia; come in ospedale si dice che si libera un letto.

«Lo tiri fuori da quel buco! È per questo che è così aggressivo!»

Fred cerca di staccarmi le mani dalla giubba del guardiano. Mi indica l’entrata del canile, e due agenti che stanno scendendo dalla macchina. Lascio andare il tizio. Ha ragione lei. Con l’aspetto da jihadista che mi ritrovo – e che da quando ho lasciato De Haan mi costa almeno tre controlli al giorno – non è il caso che mi faccia rinchiudere per complicità con il mio cane.

Faccio un passo indietro, senza smettere di fissare Jules. Ha smesso di abbaiare quando ho mollato il suo carceriere. Si riaccuccia sul cemento, di nuovo prostrato, le palpebre abbassate. È imbottito di tranquillanti. È strano. Siamo a meno di un quarto d’ora dalla scuola dove un mese fa abbiamo festeggiato il suo diploma alla presenza del sindaco, che ha posato con lui, il migliore del corso, per la foto sul giornale. Lo stesso sindaco che adesso ha firmato la sua condanna a morte.

Vado incontro agli agenti, tallonato da Fred, che teme i miei scatti d’ira. Lei è furiosa quanto me, ma si sa controllare. Da dieci anni combatte contro un linfoma, applicando un protocollo personalizzato che chiama «solfato di disprezzo», e non fa che ripetere ai medici che tentano di metterle paura che solo il sangue freddo è davvero efficace.

Gli agenti ci salutano toccandosi la visiera e stringendoci la mano. Con tono di autorevole cortesia, mi presento con il mio passaporto francese, il certificato di residenza belga e il biglietto da visita di AD della SolarPlant, poi li ringrazio di aver risposto con tanta solerzia alla mia chiamata, evitando così che la situazione degenerasse in uno scandalo mediatico.

«Stia calmo, signore.»

«Sono calmissimo, ho chiamato France 3. Sarà meglio risolvere il problema prima che arrivino le telecamere, no?»

Gli agenti chiedono all’addetto del canile di poter parlare in un posto più tranquillo.

«È un brutto orario», brontola l’altro indicando gli uffici dove si accalcano quelli accusati di aver abbandonato il loro animale, quelli che si rifiutano di pagare la multa per randagismo, quelli che vogliono adottare un cane e protestano contro le condizioni disumane di quel campo di concentramento.

«Resta solo la camera», grugnisce infine.

La camera. Capisco il suo imbarazzo appena ci apre la porta di una stanza con il neon verdognolo. È quello il nome che danno al locale dove i cani vengono soppressi. Gli agenti raggruppano degli sgabelli e prendiamo posto ai due lati del tavolo operatorio, da cui pendono delle cinghie indurite dal sangue. Loro tirano fuori il fascicolo di Jules e noi le sue referenze, rilasciate dalla Federazione delle associazioni cani guida e dalla ESCAPE. Sulla plastica blu graffiata da centinaia di unghie, esibisco la patente di cane guida e il diploma di assistenza agli epilettici che siamo passati a prendere alla scuola di Oberheim, così come il certificato medico annuale di buona salute fisica e mentale, rilasciato meno di tre mesi fa. Aggiungo la testimonianza scritta che, attraverso la ESCAPE, ci ha inviato l’agente Marjorie Ménières, e la cervellotica mail appena arrivata sul mio smartphone dall’avvocato della Fondazione 30 millions d’amis, grazie alla quale dal 2015, nel Codice Civile francese, gli animali non sono più considerati «beni mobili».

Gli agenti gettano una rapida occhiata ai documenti, ai quali rispondono con un foglio piegato in quattro, vergato da un veterinario del posto:

Cane dal comportamento deliberatamente aggressivo.

Improvvisamente, e senza ragione, ha attaccato un adolescente che se ne stava tranquillamente al computer a casa della nonna.

Il ragazzo ha riportato morsi su entrambi i polsi e un trauma cranico conseguente alla caduta che il labrador ha provocato, per poi tenere la vittima bloccata al suolo finché la nonna e una persona di servizio non sono riuscite a neutralizzarlo.

Possibili cause: raptus di demenza canina.

Poiché la vittima è il nipote della signora Bühler Antoinette, la donna epilettica a cui il cane fornisce assistenza, potrebbe anche trattarsi di gelosia verso un altro membro della famiglia.

Si raccomanda eutanasia.

Le mie dita si contraggono sulla storia inverosimile che questo foglio racconta. Fred replica citando la giurisprudenza che, in un caso del genere, impone una controperizia, se i proprietari del cane la pretendono.

«Il solo proprietario indicato sul tatuaggio è Gallien Alice», obietta uno degli agenti.

Fred sfila dalla borsa la richiesta di valutazione psicologica che ha scritto in macchina, imitando senza alcuna difficoltà la firma di Alice.

Io aggiungo: «Il dottor Eric Vong arriverà con il TGV delle 16, mi ha appena chiamato. È un veterinario comportamentale, perito presso la Corte d’appello di Parigi, e le sue pubblicazioni fanno testo in tutto il mondo. Inoltre conta fra i suoi clienti i due bassotti del ministro della Giustizia. Nel caso fosse necessario, France 3 lo inviterà al telegiornale, stasera».

Lo sguardo di sottecchi che i due agenti si scambiano è di facile interpretazione: E tutto per un cane…

«Non è il caso di scomodare tutta Parigi», replica il più alto in grado. «Riceviamo continuamente questo genere di pressioni, caro signore. Il sindaco che ha firmato l’ordinanza contro i cani pericolosi è il numero tre di Europa Ecologia - I Verdi. E chi ha fatto la denuncia, la nonna della vittima, è la quinta donna più ricca di questo dipartimento, e amica intima del prefetto. Le è chiaro il concetto?»

Consulto Fred con la coda dell’occhio. Le forze in campo si annunciano non così impari come pensavamo.

«Questo cane non avrebbe mai potuto fare una cosa simile. Parlateci invece del profilo psicologico del ragazzo», replico.

«Davvero? Lo accusereste di aver simulato il morso per farsi rimborsare dall’assicurazione?»

La battuta del graduato si smorza davanti al mio sguardo assassino. Mi chiede qual è il mio legame con l’animale.

«Mi ha salvato la vita», rispondo per semplificare. «Sono l’ex compagno della sua padrona.»

«E lei?»

«Lo stesso», dice Fred glissando. «Alice adesso lavora all’estero. Ma lo status dei cani da assistenza è particolare: Alice ha affidato Jules alla ESCAPE, fondazione che ha la responsabilità giuridica e assicurativa dei cani assegnati all’assistenza domiciliare, come nel caso in questione.»

«Non più. Il direttore della ESCAPE si rimette alla diagnosi del veterinario. E, come previsto dallo statuto, l’animale è stato radiato dagli effettivi.»

Lascio cadere il cellulare. Fra la mecenate e il proprio pupillo, il professor Schotz ha scelto seguendo la ragione.

«E chi paga?» riattacca l’agente.

«Paga cosa?»

«Indipendentemente dalla causa, che stabilirà poi l’ammontare dei danni e gli interessi, i costi per l’eutanasia sono a carico del proprietario dell’animale.»

Intorno al tavolo operatorio cala di nuovo il silenzio, nel tanfo di sangue e di urina. All’esterno, risuonano all’improvviso guaiti gioiosi. Dal piccolo vasistas, fra le lamelle della veneziana, vedo due addetti tirare fuori dalla gabbia un pitbull al guinzaglio, festoso, troppo felice di andare a passeggio. Gli mettono la museruola, spariscono dall’inquadratura della finestra e il rumore di fondo torna a essere dominato dal concerto straziante dei gemiti di paura.

«Non immaginate i problemi di sicurezza che abbiamo in questo momento», sospira l’agente più giovane. «Se ci si mettono anche i cani…»

La porta si apre di colpo. Trasformato, il pitbull, abbaia con tutte le sue forze, frena a quattro zampe sul cemento, si attacca alle gambe degli addetti.

«Scusate», dicono rivolti agli agenti; il tono è burocratico.

«Vi lasciamo il posto», risponde il graduato.

E ci fa segno di uscire.

Sul canile cadeva una pioggerella fredda. Ci hanno invitato a salire sulla loro macchina per mettere a verbale la nostra deposizione. Ho raccontato di Jules, il suo percorso, il carattere, evitando di dilungarmi sul trauma subìto quando la sua padrona ha recuperato la vista. Ho insistito sulla terribile pressione a cui è sottoposto un cane assistente di epilettici, sempre a caccia dei segnali che il cervello del suo assistito può emettere. E ho raccontato come ha aiutato a reinserirsi Victoire – un cane della polizia addetto alla ricerca di esplosivi, ferito nell’esercizio delle proprie funzioni – trasmettendole le proprie percezioni e conoscenze tecniche.

L’agente più giovane ha fatto scorrere sullo schermo del portatile la testimonianza appena raccolta e ha corretto l’ortografia aggiungendo altri errori. Nel frattempo, il suo superiore informava al telefono i servizi del comune che ci sarebbe stato un leggero ritardo nell’esecuzione della sentenza. Nella mia testa, l’immagine atroce di Jules trascinato verso la camera ha preso il posto di quella dell’idillio con Victoire. Era chiaro che, nel suo fascicolo, l’impresa di aver restituito dignità canina e ragione di vivere a una cagnetta dell’antiterrorismo non avrebbe mai pesato quanto il fatto di aver morso il nipote di un’amica del prefetto.

* * *

Alle quattro e venti del pomeriggio Eric Vong è arrivato al canile. Cappotto di cachemire color prugna e ventiquattrore Hermès, cameraman e microfonista di France 3 alle calcagna, ha preteso che la visita a Jules avesse luogo nel van Mercedes che era andato a prenderlo alla stazione.

In meno di cinque minuti, l’atmosfera nefasta del canile è radicalmente cambiata, grazie alla naturale autorevolezza e allo smaccato magnetismo che il veterinario comportamentale più famoso d’Europa sapeva emanare. Analizzando e allenando i loro animali, regnava sui più grandi nomi della politica, dell’industria, dello sport, del cinema e della stampa. Una sua intervista bastava per far chiudere un canile, uno zoo, un circo o far accusare di crudeltà mentale il proprietario di un macello o di un allevamento in batteria, o ancora l’impresario di uno spettacolo di delfini. Le sue opere di psicologia animale, tradotte in quindici lingue, costituivano una pietra miliare per milioni di persone che non credevano più nell’uomo.

Appena la segretaria gli aveva trasmesso il mio messaggio, mi aveva richiamato. Da quando aveva visto Jules, in occasione del consulto sulla sua depressione in seguito alla guarigione di Alice, si era appassionato talmente al suo caso da dedicargli un libro intero: Il cane che vedeva per lei. Neanche a parlarne di toccare il suo Jules, di privarlo del suo eroe. Con uno schiocco di dita al responsabile del canile, ha fatto aprire la gabbia del B4.

«Calma e serenità, Jules!» ha esordito l’asceta filiforme, quando quaranta chili di riconoscenza l’hanno appiccicato alle sbarre.

Come se avesse ricevuto una scarica elettrica, il labrador si è subito rimesso a quattro zampe, per poi venire ad annusarmi. Ma non per farmi festa. No, soltanto per verificare che fossi io. Immagino che tutti i suoi punti di riferimento fossero saltati, dopo che l’avevano rinchiuso: anche i ricordi più familiari erano diventati possibili pericoli. In lui, l’istinto del predatore aveva lasciato il posto alla diffidenza del predato. Quando i due guardiani in tenuta grigia gli si sono avvicinati con museruola e guinzaglio, è arretrato mostrando i denti, scosso da un brontolio sordo.

«Fermi», ha ordinato a bassa voce il veterinario comportamentale.

I due hanno ubbidito e lentamente sono tornati sui propri passi quando lui ha dato il segnale. Vong ha allungato il palmo della mano davanti al naso del cane, dopo avervi spruzzato una nuvola di profumo. Ha infilato in tasca lo spray ed è uscito lentamente dal canile camminando all’indietro con la mano tesa, e il labrador l’ha seguito come trainato da un laccio odoroso. Per un istante ho pensato che lo specialista si fosse procurato Youth Dew, il profumo di Alice. Ma no, sapeva di mango avariato. Doveva trattarsi di un estratto di feromoni prodotti da una femmina in calore, considerato l’accenno di erezione che si era manifestato dopo la reazione difensiva del paziente.

Eric Vong ha aperto la porta posteriore del van con i vetri oscurati e ha infilato dentro la mano, ruotandola lentamente. Jules è salito con circospezione, quindi il veterinario l’ha seguito e si è chiuso la portiera alle spalle.

«Buona per me», ha commentato il cameraman.

Ha ricominciato a piovere, così ci siamo rifugiati sotto la tettoia. Dieci minuti dopo, quando Vong è uscito, abbiamo avuto la fugace visione di Jules sdraiato di schiena, immobile, le zampe piegate. Lo psicologo degli animali ha richiuso la portiera ed è venuto verso gli operatori di France 3.

«Grazie, signori, è tutto. Mi terrò in contatto con il vostro direttore di rete per un’eventuale diretta serale. Arrivederci.»

Gli operatori sono tornati alla loro station wagon e noi siamo rimasti soli con gli agenti.

A quel punto, con voce piatta, Vong ha emesso il suo verdetto. «Per prima cosa ho pensato a un parassita nell’orecchio interno, che può scatenare impulsi aggressivi incontrollati. Ma Jules non ha mostrato alcun sintomo. È un problema di natura mentale.»

«‘Mentale’, e cioè?»

L’esperto ha emesso un lungo sospiro nel quale la perentoria competenza si è velata di compassione. «È completamente disallineato. Non solo per via della detenzione o del contagio psicosomatico dello stress degli altri cani. No, non si tratta di semplice ostilità verso l’esterno, che il suo addestramento gli permetterebbe di gestire. In realtà, sperimenta i postumi di un terrore di cui gli è sconosciuta l’origine. È questo che mi ha mostrato. E io non ne so più di lui. In qualche modo l’ho riallineato, intervenendo sul canale emozionale, ma voglio capire. Esigo un confronto in loco con l’aggressore.»

«Vorrà dire la vittima», ha ribattuto l’agente più giovane.

«Ho detto l’aggressore. Ve lo ripeto: questo cane è profondamente terrorizzato. Mi ha comunicato immagini che fanno venire la pelle d’oca. Non so se si tratti di ricordi o di premonizioni, e non dirò di più per non influenzarvi. Ma, nell’interesse generale, è necessario procedere a una ricostruzione dei fatti sul posto con il ragazzo che è stato morso.»

«Adesso basta!» è sbottato l’agente. «Qui siamo noi l’autorità! Siamo noi a decidere se fare un confronto oppure no!»

Per tutta risposta, lo specialista ha preso il cellulare, selezionato l’ultimo numero chiamato, mormorato «Rimanga in linea», e allungato il telefono all’«autorità». «Il vostro colonnello», ha precisato.

E ha portato me e Fred un po’ più in là, perché i due agenti venissero umiliati senza testimoni.

«Lavoro con i cavalli della Guardia repubblicana», ci ha spiegato poi, «sono il loro preparatore mentale. Il comandante della Guardia ha contattato quello della polizia dipartimentale, che mi ha promesso di parlare al sindaco di Oberheim.»

«Ma che ha contro i cani, questo matto?» è esplosa Fred – gli occhiali sulla punta del naso – che non riusciva più a gestire tutte le emergenze che si stavano ammassando sullo schermo del suo iPhone.

«È l’unico amministratore di sinistra in un bastione del Fronte Nazionale», ha sospirato Vong. «In pratica, ha dichiarato guerra a pitbull e altri molossi, che nelle città vicine vengono impunemente lanciati contro i migranti. Jules è vittima del contesto politico, tutto qui. Ma la tensione si sta allentando», ha concluso sorridendo bonariamente verso gli agenti che tornavano verso di noi.

«Messaggio ricevuto», ha borbottato il graduato, restituendogli il cellulare.

«Bene. Procederemo immediatamente alla ricostruzione: ho il treno alle 19.12.»

L’agente l’ha informato che il ragazzo era in ospedale, in osservazione.

«Perfetto. Uno di voi si occupi del suo trasferimento sulla ‘scena del crimine’», ha sussurrato Vong mimando con le dita le virgolette, «mentre l’altro salirà sulla macchina della signora insieme a me per fare strada. Date l’indirizzo all’autista del van, che ci seguirà con il cane e il suo padrone: Jules ha bisogno di una ‘camera di decompressione’ prima di rivivere il trauma di ieri mattina. Io approfitto del tragitto per sbrigare al telefono le formalità amministrative riguardo al canile. Su, andiamo!»

Ha battuto due volte le mani con l’allegra determinazione di un animatore del Club Méditerranée che ha appena finito di spiegare le regole di un gioco, e le tre squadre si sono messe in moto.

Sul sedile posteriore in pelle del van, Jules ha mantenuto per un po’ le distanze prima di accettare le mie carezze. Poi ha cominciato a leccarmi freneticamente il viso. Non era gioia, né sollievo, né gratitudine. Non aveva niente a che vedere con le esplosioni di affetto che mi aveva sempre elargito. No, avevo l’impressione che mi stesse pulendo, che raschiasse la superficie nella speranza di riconoscermi.

Ma non ero io che ero cambiato.

È sceso dalle mie ginocchia ed è andato ad accucciarsi sul tappetino. Fra le zampe teneva il guinzaglio di plastica nera che l’addetto del canile gli aveva agganciato al collare. E si è messo a morderlo, a rosicchiarlo, come se lo tenesse ancora prigioniero. Immagino l’odore della paura e della sofferenza che devono essersi lasciati dietro tutti i cani accompagnati da quel guinzaglio nell’ultimo viaggio. Gliel’ho tolto, l’ho arrotolato e nascosto in tasca. Lui mi ha lasciato fare, studiandomi da sotto in su, attento, diffidente.

Ho preso il telefono, che stava vibrando. La direttrice finanziaria. Ho aspettato che il suo nome sparisse dallo schermo, poi ho inviato un lungo messaggio ad Alice.