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Mi sono svegliato al buio, con il suono martellante di un basso e corde sintetizzate: una ballata di potenza funk degli anni Ottanta. Il falsetto maschile poteva essere Prince - niente è paragonabile a Prince - ma non riconoscevo la canzone. La voce femminile che cantava sopra la registrazione era aspirata e al contempo profonda, la stonatura sempre in agguato.

La cosa in testa era calma. Ma sempre presente: respirava cautamente, un animale rannicchiato nell'angolo di una stanza buia.

Sono rimasto disteso a inalare i nuovi profumi farinosi di un letto sconosciuto. Non avevo la più pallida idea di quanto avessi dormito. Erano quasi le due della notte quando stavamo uscendo dall'ospedale - le infermiere non volevano dimettermi, ma la O'Connell era stata formidabile. Mi ero addormentato pochi minuti dopo essere salito sul suo camioncino, e mi ero risvegliato solo per vagare tra una serie di stanze. Aveva insistito che dormissi lì, anziché sul divano, e non avevo fatto obiezione.

C'era una finestra sopra di me, sulla parete curva alla mia destra, ma dall'altra parte vedevo tutto nero - il che poteva significare che la finestra dava su un'altra stanza, o che era ancora notte o, peggio, che era di nuovo notte -, e a giudicare dal forte dolore che sentivo alle braccia e alle gambe avevo dormito troppo a lungo in una posizione.

Cazzo. Mia madre avrebbe sclerato.

La canzone è finita, e nella pausa ho strillato: «Ehi!» È partita la canzone successiva, un altro pezzo anni Ottanta, gli U2 questa volta. Dopo un minuto si è aperta la porta e ha fatto capolino la O'Connell. Era di nuovo in mise 'pollastra rockettara': T-shirt nera, jeans neri. Nonostante la parentesi canterina di un secondo prima, pareva tutt'altro che contenta.

Più che a letto, ero sopra il letto: sopra la sua biancheria, con una serie di coperte buttate addosso. Ho sollevato il braccio di alcuni centimetri, di più non riuscivo a muoverlo.

«Ora mi puoi slegare» le ho detto.

Allora ha fatto un passo indietro e ha chiuso la porta, lasciandomi di nuovo solo al buio.

Va beeene.

A qualche ora della notte, dopo che avevo blaterato e gridato per un paio d'ore per poi addormentarmi, la O'Connell mi aveva legato al telaio del letto - braccia e gambe divaricate - con i lucchetti a combinazione debitamente fuori vista e fuori portata, sistemandomi in un modo che da solo sarebbe stato impossibile ricreare, e che non mi piaceva granché. La situazione mi ricordava più di qualche romanzo di Stephen King, e di storie horror ne avevo già vissute abbastanza.

Mentre Bono stava caricando di enfasi il secondo verso, è tornata nella stanza, con una sedia da cucina in vinile in una mano, e la mia sacca da viaggio blu nell'altra. Si è seduta sulla sedia in fondo al letto e mi ha gettato la sacca tra le gambe. Non ha accennato alcun movimento diretto alle catene.

«Devo fare pipì, mi scappa» le ho detto.

«Prima parliamo» ha detto lei.

«Di cosa?»

«Guarda, non so nemmeno da dove cominciare.» Aveva un tono irritato. «Stamattina è passato lo sceriffo della contea per fare due chiacchiere. Non riguardava lo Shug, riguardava il dottor Ram. Hanno trovato l'assassino.»

«Cosa? Ma e magnifico!»

«Un ragazzetto fanatico di DemoniCon, tale Eliot Kasparian. Dice di essere stato posseduto, di essersi svegliato con addosso un impermeabile e due pistole in mano. È in stato di fermo.»

«Allora è stato posseduto da Truth, o sta fingendo secondo te?»

«Spero per lui che non sia una balla» ha detto.

Ottima osservazione, ho pensato. A Truth non piacevano le balle. Ma se lui era stato veramente posseduto, allora era il dottor Ram che mentiva.

La O'Connell ha detto: «Non siamo ancora fuori pericolo, ragazzo. Lo sceriffo ha detto che la polizia vuole ancora interrogare tutti quelli che erano all'hotel quella notte, soprattutto quelli che sono ripartiti la mattina. Soprattutto quelli che possono essere stati ripresi dalle telecamere di sorveglianza.»

«A lui l'hai detto che ero qui?»

«A lei. Non è stato necessario: è abbastanza intelligente da sapere dove sei andato quando sei uscito dall'ospedale. E poi stavi russando.»

«Non ha trovato un po' strano che fossi incatenato in camera tua?»

«Non ho aperto la porta. Ufficialmente non sa dove ti trovi.»

«E perché… per quale motivo dovrebbe stare al gioco?» E per quale motivo la O'Connell stava rischiando per proteggermi?

«E un'amica. E vive qui. Le donne del lago si proteggono a vicenda.»

Non avevo capito bene cosa volesse dire. Non c'erano uomini a Harmonia Lake? Io non ne avevo visti. Forse ci vivevano solo donne, in quanto non correvano il rischio di diventare un possibile candidato per Io Shug.

«È comunque un bel sollievo» ho affermato. «Ora mi sblocchi?»

«Non abbiamo ancora terminato» ha risposto, e ha aperto la sacca. Ho cercato di sollevarmi, ma le catene mi impedivano di alzare qualsiasi cosa tranne la testa. «Ehi, è la mia roba!»

Non mi ha degnato di attenzione. E lì ho capito che aveva già messo le mani nel mio borsone - ovvio, aveva preso le catene e i lucchetti.

Merda.

«Con me esistono delle regole, Del.» Ha tirato fuori qualcosa dal borsone, un rettangolo di tessuto. Ahi. La tela cerata con dentro la pistola. «Una di queste è che non voglio avere pistole in casa.»

«Ci penso io.»

«Be', ci ho già pensato io.»

«Che ci hai fatto? Era la pistola da ufficiale di mio padre!»

«Era anche una .45 automatica, la stessa pistola che usa Truth. La stessa pistola che ha ucciso il dottor Ram.»

«Ma ora il caso è chiuso, lo sai che non sono stato io!» Stavo tentando di alzarmi, ma riuscivo solo a spostare la testa in modo forzato.

«In ogni caso non puoi girare con questi arnesi pronti all'uso, soprattutto con quelli che bucano la gente. I demoni possono possedere chiunque, chi vogliono e quando vogliono. In particolare sono attratti da quelli che sono già stati posseduti, anche da un altro demone. Tu sei già marchiato, Del. Quindi vediamo di non servirgliela su un piatto d'argento, eh?»

«Cosa hai fatto con la pistola?» le ho chiesto.

«L'ho buttata dentro al lago.»

L'ho guardata di sottecchi. Non sapevo se essere arrabbiato o sollevato.

«Poi» ha aggiunto. Ha tirato fuori la borsa nera di nylon della CISP. Ha estratto dei fogli graffati e ha iniziato a girare le pagine una dopo l'altra. «Ora, questo è un souvenir interessante» ha continuato. «Tra tutte le cacate accademiche che potevi prendere alla conferenza, proprio questo ti porti dietro. Cosa pensavi di ottenere, di farmi sentire in colpa, di mettermi pressione per farmi seguire il tuo caso?»

«Guarda che non so proprio di cosa parli» le ho detto.

Mi ha lanciato addosso il plico. I fogli sono atterrati sul mio petto, aperti alla pagina che stava guardando. Da quella angolazione non riuscivo a leggere le parole, ma quando ho visto l'immagine fotocopiata ho capito. Lo studio di Piccolo Angelo fatto dalla ragazza che si era laureata alla Penn State.

«Ma perché ti incazzi?» ho esclamato. «È solo una ricerca tra le tante che ho preso.»

Tuttavia la ragazza della foto, anche vista di traverso, aveva un non so che di strano. Poteva avere nove anni e indossava una camicia da notte bianca. Anche in bianco e nero, dopo varie generazioni di fotocopiature, la sua bellezza era evidente. Carnagione chiara, zigomi alti, un'esplosione di ricci in testa.

«Quando è stata scattata?»

«Nel Settantasette» ha risposto. «Avevo undici anni.»

«Non lo sapevo» ho detto. Ho alzato gli occhi. «Te lo giuro, l'avevo preso a caso e l'avevo messo in borsa. Pensavo fossi cresciuta in Irlanda.»

«Io e mia madre ci trasferimmo a New York quando avevo otto anni, dopo che i miei genitori avevano divorziato. Piccolo Angelo si impossessò di me subito dopo. Sono tornata in Irlanda solo da ragazza.»

«Mi dispiace» le ho detto. «Io non…»

«Finiscila. Non m'importa cosa avessi in mente. Io non ho bisogno di motivazioni, Del. Non ho bisogno di essere manipolata per aiutarti, e non reagisco alla compassione. Ci sono migliaia di posseduti in giro, e non importa se sono stata una di loro… il lavoro è sempre quello.»

«Il lavoro…» ho ripetuto, con tono incerto. «Essere un'esorcista?»

«Essere il tuo pastore.»

«Ah. Voglio dire, ti ringrazio, è molto nobile, ma non credo che mi serva…»

«Del.»

Ha camminato di fianco al letto e si è avvicinata alla mia testa, mettendo le mani sui fianchi. «Stanotte pensavi di impazzire. Hai detto che i ricordi di Hellion stavano irrompendo sui tuoi. Stavi perdendo te stesso.»

«Stanotte ho dato un po' di matto, ma adesso sto bene. Ho ancora il controllo.»

«Tu sei lontanissimo da qualsiasi controllo.» Si è accucciata, portando la testa allo stesso livello della mia.

«Vediamo…» Ha sollevato una delle catene. «Tre numeri. Qual è la combinazione?»

«Ah, è sei, poi sei… ti lascio indovinare l'ultimo numero.»

Ha scosso la testa e ha aperto il primo lucchetto. Poi ha girato intorno al letto per andare sull'altro braccio. Mentre componeva l'altra combinazione, ho dato una sbirciatina sotto le lenzuola. Dai boxer attillati spuntava un'erezione delineata come la proboscide di un elefante in un cartone animato. Lo stimolo di fare pipì si era trasformato in dolore.

Ha sbloccato la seconda catena. Con le mani finalmente libere, ho iniziato ad aprire le manette, arnesi medievali di pelle imbottita che avevo comprato su un sito di articoli fetish. Gli anelli di acciaio erano così grandi che dentro ci si poteva tranquillamente infilare il palo di una tenda da doccia - avevo visto le foto - e avevano una larghezza più che sufficiente per la catena da bici. Avevo le spalle rigide, ma mi sentivo cento volte meglio del giorno prima. I tagli alle dita non facevano quasi più male. «E se fossi morto nel sonno?» ho detto. «Queste catene sono belle robuste; sarei rimasto attaccato al tuo letto per settimane.»

«Ah, di certo non mi sarei messa a spezzare le catene.»

Non mi ha fatto intendere che era una battuta.

Mi sono spinto fino al bordo del letto e ho cominciato ad avvolgere le catene per arrivare al lucchetto. «Sai che ore sono? Mia madre a quest'ora dovrebbe essere già arrivata in ospedale. Sarà preoccupatissima.»

Non ho ricevuto risposta, e l'ho guardata.

«Sono arrivate questa mattina» ha detto. «Ho chiamato Lew e gli ho detto che sei dovuto uscire dall'ospedale perché stavi perdendo il controllo di Hellion.» Mi ha buttato un pezzo di catena sul letto. «Che poi non è nemmeno un'esagerazione. Gli ho detto che ti farai vivo quando torneremo dalla city.»

«Aspetta, quale city? New York City?»

«Vestiti» mi ha detto. «Abbiamo un appuntamento con quelli di Red Book.»

Ovviamente non era la rivista che intendeva.

Appena è uscita dalla stanza, ho aperto la sacca e ho passato al setaccio i vestiti, facendo scorrere le mani sulle pieghe. Niente. Allora ho iniziato a tirarli fuori, scrollandoli uno dopo l'altro.

«Ah, un'altra cosa» mi ha strillato da fuori la O'Connell. «Ho buttato anche il Nembutal.»

Il palazzo a tre piani in arenaria rossa era imbucato da qualche parte nel cuore della città - non sapevo assolutamente dove, e a mio parere nemmeno la O'Connell. Una volta superato l'imbottigliamento del George Washington Bridge, a una lentezza da moviola, la O'Connell aveva iniziato a schizzare imprevedibilmente a destra e sinistra, facendosi largo tra le macchine, infilandosi dentro stradine per poi reimmettersi in viali a quattro corsie. Era quasi mezzanotte e il traffico era ancora intenso.

Quella donna era la peggiore autista con cui avessi mai viaggiato - peggio di Lew, anche peggio di me, e notare che avevo sfondato un guardrail. Svariate volte mi ero ritrovato a tu per tu con un pezzo di lamiera o la faccia torva di un tassista. Sembrava incurante delle altre macchine, e anche della strada che aveva davanti; una mano sul volante, l'altra con la sigaretta, seguiva la temperatura, o il manto stradale, o gli odori - tutto tranne i segnali stradali.

«Sai,» me n'ero uscito a un certo punto «esiste questo servizio che si chiama MapQuest.» Ma lei aveva smesso di parlarmi. Canticchiava e bofonchiava tra sé e sé. Magari stava pregando.

Un'ora e mezza dopo aver attraversato il fiume, e sette ore dopo essere partiti da Harmonia Lake, la O'Connell si era fermata in mezzo a una stradina buia con una doppia fila di macchine parcheggiate. Senza dire nulla era scesa dal camioncino, lasciandolo a motore acceso. Avevo aperto la porta ed ero uscito, sia per prendere aria sia per vedere dove stesse andando. Aveva fumato per tutto il viaggio, e avevo gli occhi granulosi come due cuscinetti a sfera imbrattati.

La O'Connell era salita su per i gradini di una delle case a mattoni che avevamo visto passando e aveva suonato un campanello. Sopra la porta, una finestrella circolare di vetro colorato brillava come un occhio guardiano della strada: pannelli rossi, blu e porpora bordati da parabole scure di vetro piombato che partivano dal centro come petali trascinati dall'acqua.

Ho distolto lo sguardo dalla finestra, avvertendo un senso di nausea.

La porta dell'appartamento si è aperta, ed è uscita una signora anziana dai capelli bianchi, corti, che ha abbracciato la O'Connell. Le due hanno scambiato qualche parola, poi la O'Connell è tornata da me. «Parcheggiamo sul retro» ha detto.

«Quella era una degli strizzacervelli?» le ho chiesto. Mi aveva detto che le persone che avremmo incontrato erano degli psichiatri, 'assolutamente fantastici'. Quando aveva undici anni, dopo la prima serie di possessioni, erano diventati i suoi terapisti. «Mi hanno salvato la vita» aveva detto. Sul come l'avessero aiutata e su cosa si aspettasse dal nostro incontro era rimasta vaga. «Devi solo essere sincero con loro» mi aveva detto. «Vedrai che risolveranno il problema.»

Ha fatto manovra ed è entrata in un vicoletto. Un cancello automatico di ferro si è aperto, ci ha fatto passare e poi si è richiuso. Ha posteggiato in obliquo su un terrazzino di mattoni, e abbiamo tirato fuori le borse dal pianale del bagagliaio.

La donna dai capelli bianchi ci ha accolto sulla porta del retro, ci ha fatto entrare e ha impostato l'allarme dietro di noi. La O'Connell ci ha presentati: «Del, questa è la dottoressa Margarete Waldheim.»

«Meg» ha aggiunto la donna, stringendomi la mano. Devo aver fatto una smorfia. Ha abbassato gli occhi, mi ha rigirato la mano e ha guardato le ferite. «Hai fatto a botte?»

«Solo con dei mobili» ho risposto.

«Ah. Io mi limito ai pezzi morbidi, cuscini, guanciali.»

Era più giovane di quanto avessi pensato vedendola sulla strada, forse sulla cinquantina. I capelli bianchi mi avevano ingannato. Un viso rubicondo a forma di mela. Era più bassa della O'Connell, più che grassa era robusta. Indossava un'elegante camicia da uomo a strisce verdi tenuta fuori dai pantaloni neri attillati, e un paio di scarpe nere sottili simili a ballerine.

«A proposito, benvenuto a Bollingen» ha esclamato.

Ho guardato la O'Connell. Che fine aveva fatto Red Book?

«Bollingen è il nome della casa» mi ha spiegato la O'Connell. Dovevo ancora capire se Red Book era il nome di un culto, di un istituto o di un gigantesco computer che mi avrebbe predetto il futuro.

Ci ha accompagnati lungo un corridoio pannellato di scuro, oltre una cucina di piastrelle e cinque o sei porte chiuse, mentre la O'Connell le raccontava del nostro viaggio per arrivare fin lì, evitando di menzionare il nostro giro labirintico di Manhattan.

Siamo giunti in un salone a soffitto alto, l'ingresso della casa. Su una lastra di granito incastonata nel pavimento c'era un'iscrizione latina: VOCATUS ATQUE NON VOCATUS DEUS ADERIT. 'Non vocatus deus' - nessuna vacanza per Dio?

Ho fatto l'errore di guardare in alto. Proprio in cima alla porta c'era la finestra tonda che avevo visto dalla strada. I vetri, visti dall'interno, erano scuri come lividi e luccicavano, quasi delle lame viste trasversalmente pronte a girare.

«Stai bene, Pierce?» mi ha chiesto la O'Connell.

Ho spostato gli occhi dalla finestra e mi sono passato una mano sudaticcia tra i capelli. «Come? Ah, sì sì. Stanco, magari.»

«Il motivo è tratto da un dipinto del dottor Jung» ha detto Meg. «Durante il suo periodo Nekya era affascinato dalle forme circolari, dai cerchi nei cerchi. Ci sono opere che assomigliano ai mandala indiani.»

Non sapevo come replicare. E poi che cavolo significava Nekya? Una cosa però era chiara: gli junghiani amavano i tecnicismi.

«Il vecchio è di sopra?» ha chiesto la O'Connell a Meg.

Lì per lì pensavo che intendesse Jung in persona, ma non era possibile, era morto negli anni Cinquanta o Sessanta. Forse intendeva l'altro dottor Waldheim.

«Si è ritirato a dormire» ha risposto Meg. «E io sto per crollare. Vi mostro le vostre camere. Se avete fame, fate come se foste a casa vostra. Siobhan le farà vedere la cucina.»

«Aspetti un secondo… Shavawn?» L'ho ripetuto secondo la fonetica.

La O'Connell mi ha guardato. «Mariette è il nome che ho acquisito da sacerdote.»

Meg ha sorriso tra sé e sé. «Non c'è una volta che mi ricordi di chiamarla così.» Ci ha accompagnati fino alle stanze affiancate del secondo piano. «C'è un diario dentro la scrivania» mi ha detto Meg. «Se dovesse fare dei sogni.»

«Perfetto» ho risposto, come se mi avesse appena detto dov'erano gli asciugamani. «Grazie.»

Ho chiuso la porta e ho fatto cadere la sacca per terra. Fuori, Meg e la O'Connell si stavano bisbigliando qualcosa che non capivo.

La camera era uno stanzino accogliente, più piccolo di quello dell'ospedale dell'Illinois, ma più grande della mia camera d'ospedale del Colorado. Accanto alla porta da dov'ero entrato c'era un'altra porticina, ma non avevo voglia di appendere i vestiti. Lo spazio era quasi interamente occupato da un letto alto col telaio di ferro (ottimo per incatenarsi), una sedia di legno senza braccioli e un piccolo scrittoio con una mensola aperta per lasciare in mostra - ebbene sì - un bellissimo diario di pelle e due grosse penne. Ho iniziato a sfogliare le pagine spesse, del colore della farina d'avena, e, a parte qualche pagina strappata, nessuno aveva lasciato le proprie osservazioni notturne.

Da fuori ho sentito le due donne interrompere la conversazione, poi la porta della O'Connell si è aperta e richiusa.

Mi sono seduto sul letto, sprofondando nel materasso. La cosa in testa si è spostata leggermente. Era rimasta tranquilla per tutto il giorno, come se il lungo viaggio le avesse conciliato il sonno, e ho subito allontanato il pensiero per evitare di risvegliarla. Pensare al demone era quasi come invocarlo.

Mi sono messo a fissare le pareti: una tappezzeria color rosa scuro che pareva degli anni Quaranta. Proprio di fronte a me c'era una grande chiazza di muffa a forma di cuore, ma non il cuore di San Valentino. Da sopra il cuore partiva una grossa sbavatura che aveva un che di inquietante, e vagamente aortico.

Qualcuno ha bussato alla porta, ma non era la porta del corridoio. Mi sono raggomitolato per scendere dal letto e con una certa diffidenza ho aperto la porta che avevo scambiato per un armadio. Era la O'Connell, e sorreggeva un grande asciugamano bianco piegato e un piccolo asciugamano da viso.

«Mi stavo giusto chiedendo dove fossero» ho detto.

Dietro di lei c'era un bagno di piastrelle a scacchi bianchi e neri, e poi un'altra porta aperta. La sua camera aveva tutta l'aria di essere più grande della mia.

«Mi diletterai con qualche altro canto sotto la doccia domani?» le ho chiesto.

Ha contratto il viso. «Certo che no.»

Gesù mio, come si incazzava in fretta quella donna. «Hai una bellissima voce» le ho detto. Ha fatto un verso seccato simile a una tosse. «No, sul serio» ho aggiunto. «Potevi fare la cantante.»

«E tu potevi fare il riparatore di bici.» Mi ha messo gli asciugamani nelle mani, e mentre li sistemavo sopra lo scrittoio è rimasta ferma sull'uscio a guardarsi intorno. La sua stanza doveva essere decisamente più grande.

«Allora, Shavawn.»

«No, si dice…» E l'ha detto in modo leggermente diverso. Ho fatto una smorfia e me l'ha sillabato.

«Aaah» ho detto. «Siobhan. L'avevo visto scritto ma non sapevo come si pronunciasse.»

Ha fatto per roteare gli occhi. «Altre domande?»

«No. Sì! La scritta latina sulla porta…»

«Vocatus atque non vocatus deus aderii» ha detto. «Il dottor Jung l'aveva scritto sulla porta di casa sua. Invocato o non invocato, Dio verrà.»

«Come immaginavo.»

«Buonanotte, Pierce.» Si è incamminata verso la porta del bagno. «Ah, vedi di non dormire troppo, i Waldheim sono mattutini e vorranno cominciare a lavorare.» Ha fatto cenno al letto. «Hai bisogno di qualcuno che ti leghi? O preferisci farti una sega prima?»

Ho tossito fuori una risata e una vampata di calore mi è salita in viso. «Come?»

«Dev'essere un po' difficile con le mani legate.» Aveva un tono clinico. «E poi ti aiuterà a dormire.» Il muscolo dietro le palle ha iniziato a vibrare come una corda di basso.

«Ti ringrazio» le ho detto. «Sto bene.»

«Come vuoi. Ci vediamo domattina.» Si è voltata ed è scomparsa nel bagno, chiudendo la porta. Un secondo dopo l'ho sentita chiudere anche la porta della sua camera.

Mi sono appoggiato sul letto e ho lasciato che le molle afflosciate mi facessero rotolare all'indietro. Siobhan. Sono rimasto disteso, lo sguardo fisso sul soffitto, l'uccello duro come l'obelisco di Washington.

Il rumore era un debole squittio cadenzato, simile al saliscendi di una pompetta arrugginita. All'inizio era debolissimo, ma poco a poco stava diventando sempre più intenso.

Mi sono sollevato dal bozzolo di letto. La stanza non aveva finestre e non riuscivo a capire che ore fossero, ma a intuito era qualche ora dopo che mi ero incatenato al letto e mi ero disteso, in attesa di addormentarmi. Avevo tenuto le manette aperte, senza attaccarle.

Avevo anche seguito il suggerimento della O'Connell. Ma si era sbagliata.

Il rumore aumentava - ci-ip, ci-ip -, poi ha superato la mia porta e si è allontanato.

Sono sgattaiolato fuori dal letto e sono rimasto con un orecchio incollato alla porta. Ho sentito un altro squittio accennato, poi il rumore di una porta che si apriva. Infine, mezzo minuto di silenzio.

Mi sono girato e ho ripescato i jeans nel buio, a tastoni ho trovato anche la T-shirt, quindi mi sono vestito. Sono tornato alla porta. Niente. Lentamente ho girato la maniglia e ho aperto.

Rispetto alla mia stanza, il corridoio era un po' più illuminato: una tenue luce proveniva dall'angolo del ballatoio che si affacciava sull'atrio. Alla mia sinistra la corsia era più buia, e si prolungava forse per altri sei metri, prima di terminare con una gigantesca porta. Ho seguito la luce, nella direzione in cui si era spostato il suono. Ho superato la camera della O'Connell, poi altre due porte, i piedi scalzi che camminavano felpati lungo la stretta passatoia turca. Mi sentivo come un ragazzino spione che pedina i genitori.

Mi sono sporto dall'angolo. Il ballatoio era vuoto, le porte tutte chiuse. Davanti a me c'era solo una porta aperta, e dentro il buio. Era rimasta aperta quando Meg ci aveva mostrato le stanze? Non ricordavo se avevo visto quella parte.

Mi sono affacciato sul ballatoio. Non sentivo rumore di passi, né sulle scale né sui pavimenti di sopra o di sotto. Ho dato un'occhiata al salone d'ingresso vuoto, poi alla porta aperta. «Invocato o no, eccomi qui» ho detto fra me e me.

Il finestrino tondo, che era alla stessa altezza del ballatoio, brillava come un occhio vigile.

Ho fatto scorrere una mano lungo la ringhiera levigata fino a giungere alla porta aperta. «C'è nessuno?» ho detto, bussando leggermente sullo stipite. Pur non attendendomi risposta, mi era sembrato opportuno fare il gesto di chiedere, giusto nell'ipotesi di un eventuale controinterrogatorio: 'Lei ha bussato prima di entrare?' 'Certo, vostro onore, ho anche annunciato la mia presenza.'

Mi sono guardato indietro di nuovo, poi sono entrato seguendo la parete sinistra. Ho trovato un interruttore e l'ho premuto.

Direttamente di fronte a me, il Pozzo Nero.

«Merda!» ho detto a voce alta.

Era solo un quadro, ma c'ho messo qualche secondo prima di tranquillizzarmi. Sono entrato nella stanza, tenendo una mano appoggiata alla parete.

Mi trovavo in una specie di biblioteca col soffitto da cattedrale. Le pareti rientravano e sporgevano, creando una moltitudine di nicchie e moltiplicando lo spazio. Torri di scaffali si alternavano a piccole finestre coperte da tendaggi verdi, e il resto era decorato con quadri, arazzi e cornici di vetro di tutte le dimensioni. Al centro della stanza c'erano diverse poltrone di pelle ingrassata e tutt'intorno lunghi tavoli con sopra pile di libri, scatoline di vetro e lampade in stile Tiffany. Il pezzo grosso pareva essere un pulpito che sorreggeva un libro aperto, grande come la Bibbia di famiglia di mia madre.

Il dipinto del Pozzo Nero era appeso sulla parete opposta alla porta, inserito in una cornice scura larga circa novanta centimetri e alta centoventi. Ho camminato intorno al bordo merlato della stanza, distratto dagli oggetti esotici appesi ai muri: maschere africane; disegni a inchiostro di animali mitologici e cavalieri in corazza; arazzi di unicorni, demoni e file di pellegrini; targhette e premi con scritte in tedesco, francese e inglese; fotografie in bianco e nero di uomini occhialuti con la pipa e donne dagli occhi scuri con grandi cappelli; lauree onorifiche; stampe incorniciate di vecchi libri, alcune illustrate con simboli arcani.

Ancora più impressionante era la miriade di dipinti, alcuni dei quali erano sgargianti mandala, altri interpretazioni art nouveau di personaggi fantastici: un uomo alato con le corna in fronte; un altro con la barba in tonaca; una donna con i capelli lunghi, nuda, con un serpente sulle spalle.

La mia attenzione è tornata sul quadro del Pozzo Nero. Mi sono avvicinato di sbieco, come un nuotatore che lotta contro la corrente, e mi sono fermato a poca distanza.

Il Pozzo non era esattamente come mi era apparso sotto il lago, ma il quadro ne coglieva l'essenza. Fasce di nero, rosso e porpora si avvolgevano a spirale contorcendosi in profondità, a preludere un regresso infinito. Ho allungato una mano, tenendola sospesa sopra la tela. Immaginavo la mano affondare dentro, e il Pozzo che mi risucchiava il braccio, e poi tutto il corpo. Ho fatto un passo indietro, assalito dalla nausea.

Dietro di me, il pigolio di perni arrugginiti. Ho girato di scatto la testa verso la porta.

Un signore anziano stava spingendo dentro la stanza un'antiquata carrozzina di legno.

«Scusi» ho detto. «Non volevo…»

Ha sollevato una mano - non so se per zittirmi o per rassicurarmi - e mi è venuto incontro. Era una goffa sedia con lo schienale a stecche, come la sedia del ponte di una nave a vapore montata sulle ruote mezze arrugginite di una bici. Lui dava l'idea di essere vecchio quanto la sedia. Era magro, tutto fronte e capelli bianchi, e indossava una maglia bianca larga e pantaloni blu che potevano essere quelli del pigiama o quelli della divisa di un infermiere. I capelli gli partivano dal livello delle orecchie e arrivavano fino alle spalle, annebbiandosi in una barba bianca che si apriva a ventaglio sul suo petto.

«Dicembre del 1912» ha detto. Aveva una voce calma, ma penetrante. «Il dottor Jung aveva vissuto quello che alcuni definirono 'crollo', altri 'apertura'.»

Ha spinto la sedia a rotelle vuota fino a un punto in mezzo a una poltrona e un divano. «Il dottore lo chiamò la sua Nekya, la sua discesa ulissiana agli inferi.»

Ah, la Nekya, ho pensato. Vero. Certo.

«Disse che si era sentito letteralmente cedere il pavimento sotto i piedi, e aveva scelto di cadere» ha soggiunto il signore. Mentre parlava, stava mettendo a punto l'angolazione della sedia, regolandola avanti e indietro fino a sistemarla esattamente di fronte a me. «Negli abissi. Nel grembo della vita primordiale.»

Si è raddrizzato, poi ha indicato il quadro del Pozzo Nero. «Se lo immagina, scegliere di cadere lì dentro?»

C'era un tono malizioso nella sua voce. Non capivo se mi stesse prendendo in giro o se volesse convincermi di essere complice di uno scherzo.

«Lei deve essere il dottor Waldheim» gli ho detto. La O'Connell mi aveva detto che erano una coppia sposata.

Ha scosso la testa. «No, no, sono l'altro dottor Waldheim. Mi chiami Fred.» Si è diretto verso una delle sporgenze della parete che avevo superato. Si muoveva lentamente, ma non pareva aver bisogno di ausili per camminare. «Dopo essere caduto, il dottore iniziò a conoscere una serie di personalità indipendenti che gli fecero da guida durante la sua visita agli inferi.» Mi indicò la foto del vecchio accanto alla donna nuda con il serpente nero. «Prima ci furono Elia e Salomè. Furono i primi a consacrarlo come Cristo; il Cristo che è dentro ognuno di noi.» Ha sorriso. «Be', forse non vale proprio per tutti.»

Poi è passato all'uomo alato con le corna. «Questo è Filemone, il consigliere più importante del dottore. Le quattro chiavi che ha in mano rappresentano la quaternità: il Padre, il Figlio, lo Spirito Santo… e il Diavolo. Il dottor Jung era giunto alla conclusione che la separazione tra Dio e Satana fosse una costruzione artificiale fatta in tarda cristianità. Gli gnostici avevano compreso che esisteva un solo Dio - alcuni lo chiamavano Abraxas, ma fu chiamato in tanti altri modi - e che la verità e la menzogna erano aspetti della stessa natura universale.»

Ero lì che lo ascoltavo e, al contempo, pensavo a un modo per uscire dalla stanza. Il Pozzo Nero si librava sopra di me, un vuoto vertiginoso, come un cornicione sotto i calcagni. «Sì, ecco…»

«Comunque…» ha continuato il vecchio, pensando alla parola esatta. «Poi magari il dottore era solo… com'è la parola? fatto.» Ha roteato gli occhi verso la sedia a rotelle ed è scoppiato a ridere, una lunga risatina caustica.

Ho risposto con un sottile sorriso di circostanza. «Ora devo proprio tornare a letto.»

«Aspetti, le manca il pezzo forte.» Ha fatto cenno al pulpito e al gigantesco libro appoggiato sopra.

Le pagine erano spesse e invecchiate, sembravano rilegate a mano alla copertina di pelle. La pelle era di un rosso scuro lucido.

«Ah» ho detto. «Questo deve essere il Red Book di cui ho sentito tanto parlare.»

Il vecchio ha riso, deliziato. «Questa è solo una copia, ma abbiamo voluto che fosse il più possibile accurata.»

Su una pagina c'era un disegno enorme, sull'altra un testo scritto a mano. Mi sono spostato sul lato opposto. Era la rappresentazione di una creatura angelica con una corona di stelle e grandi ali dietro. Come il personaggio di Filemone, ma più rifinito. Qualcuno aveva scritto 'Ka' a margine. Che parola era? Ancora greco? Il fitto scarabocchio sulla pagina di fianco era più difficile da decifrare, ma perlomeno era scritto in inglese. C'era questa frase evidenziata: 'L'archetipo è una figura, demone, uomo, processo, che si ripete nel corso della storia, ogni qualvolta la fantasia creatrice si esercita liberamente.'

«Dopo il Nekya, raccolse qui le sue scoperte più intime e le sue esperienze» ha spiegato Fred. «Il libro non fu mai dato in pasto ai biografi, perché le masse lo avrebbero frainteso. Testi gnostici di questo genere sono come i mandala, ruote dentro altre ruote. Ma ho la sensazione che lei potrebbe trovarlo illuminante.» Con un gesto mi ha esortato a sfogliare le pagine - va' avanti, va' avanti - e allora ho iniziato a girare la pagine, solo per farlo contento.

«Il problema della possessione lo coinvolse fin dall'inizio» ha proseguito. «Nel 1985 prese parte a una seduta spiritica in cui Helly, la cugina di tredici anni, fu dominata dallo spirito del loro nonno in comune, Samuel Preiswerk. Fu la prima di molte altre possessioni. In seguito il dottore imparò a invocare egli stesso altre personalità, esercitando quella che chiamò la 'funzione trascendente'. Poco dopo, però, cominciò a temere che questi archetipi, queste 'persone invisibili', lo potessero travolgere, e così si mise a praticare una serie di complicati riti per tenerli lontani. Passava giorni a costruire villaggi in miniatura con sassi e sabbia e li popolava di figure minuscole, degli umani simbolici che attraessero i demoni. E poi distruggeva le figure in sacrificio.»

Ho tolto lo sguardo dal libro. «E funzionava?»

Ha scrollato le spalle. «Chiaro.»

«E dunque che dovrei fare io? Comprarmi i Lego?»

È scoppiato a ridere. «Male non potrebbe farle. Ma abbiamo scoperto che in genere è utile anche solo parlare.»

«Parlare» ho ripetuto scetticamente.

«Alcuni sono arrivati da noi anche in condizioni peggiori. Stenterebbe a crederci.»

«Come la O'Connell?»

«Siobhan aveva solo undici anni quando arrivò da noi. Era stata posseduta molte, moltissime volte. I danni…» Ha scosso la testa. «Per certi versi Hellion e Piccolo Angelo sono i demoni più crudeli, perché prendono di mira i bambini. Ma siamo riusciti a fare qualcosa, penso.»

«E perché dopo si è fatta prete, e non è diventata psichiatra?»

«Credo che i nostri metodi fossero un po' lenti per lei, e… indiretti. Siamo scienziati. La Chiesa faceva promesse, vuuuh!» Ha agitato una mano. «Vattene, Satana! Su, su, su.» Ha fatto una risata. «Non funziona, ma è rapido. Noi invece possiamo offrire solo anni di ricerca.»

«Certo» ho commentato, pensando: anni? Non avevo tempo nemmeno per questa gente. «Senta, grazie di avermi illustrato, ecco, il tutto. Ora però devo veramente tornare a letto.» Mi sono incamminato verso la porta, avendo cura di girare intorno alla sedia a rotelle.

Quando sono arrivato alla porta, il vecchio mi ha chiamato: «Signor Pierce.»

«Sì?»

«Siobhan ci ha detto che teme che le barriere tra lei e il demone stiano crollando. Che i suoi ricordi stiano debordando.»

Ho riso, imbarazzato. «Ieri notte non ero in massima forma. Probabilmente ho detto un sacco di cose senza senso. Sono solo un po' stressato.»

«E ha le sue buone ragioni.»

La O'Connell doveva avergli raccontato tutto: che ero saltato dentro Lew, che avevo ricordi che non dovevo avere, che mi trasformavo in una bestia. Del mio timore crescente che Hellion stesse abbattendo le pareti che ci separavano.

Mi sono passato una mano tra i capelli. «Davvero quella cosa l'ha dipinta Jung?»

Ha annuito.

«Okay.» Ho fatto per allontanarmi, ho fatto un respiro e l'ho trattenuto. Mi sentivo insidiato da un'emozione destabilizzante che stava per spazzarmi via. Paura, o forse sollievo. Ho espirato. «Okay.»

«Ah» ha detto l'anziano. «Lei pensava di essere l'unico ad averlo visto.»

«Lasci che le braccia si adagino lungo i fianchi» diceva la dottoressa Waldheim. «Rilassi le spalle. Bene. Ora rilassi i muscoli delle mandibole, e la fronte… bene.»

L'altro Waldheim non diceva nulla, ma mi rivolgeva cenni d'incitamento con il capo. Accanto a lui c'era la sedia a rotelle, e vicino lo sgabello con appoggiata la piccola videocamera digitale. Mi avevano chiesto il permesso di registrare la seduta, e per me andava bene; ero curioso di vedere com'ero sotto ipnosi.

Rilassarmi non era un problema: ero stanco morto. La notte prima ci avevo messo un secolo ad addormentarmi. A mezzogiorno la O'Connell era venuta a svegliarmi, mi aveva portato dei panini da asporto e mi aveva accompagnato nella biblioteca, lasciandomi in custodia ai Waldheim. Le tende erano state aperte, e losanghe di luce intensa riscaldavano i pavimenti. La voce di Meg Waldheim era bassa e ritmica, quasi un mormorio.

«Non perderà il controllo, Del. Non farà nulla a nessuno. Potrà tornare in sé in qualsiasi momento. D'accordo?»

Ho risposto: «Certo.» O almeno pensavo di aver risposto. Forse avevo solo annuito.

«Va bene, Del» ha detto la dottoressa Waldheim. «Ora parliamo con Hellion.»

La dottoressa - avrei scoperto più tardi - si era sbagliata su diverse cose.

Quando ho riaperto gli occhi - ma quando gli avevo chiusi? - ero incuneato con il corpo in un angolo della stanza, con lo spigolo di uno scaffale puntato dietro la testa, libri pesanti sul petto e sulle spalle, sparsi tutt'intorno e sotto le braccia… e i Waldheim mi fissavano con un'espressione sbigottita. Lì per lì non riuscivo a capire il senso della loro espressione. Shock, quello era evidente. E tristezza. Ma c'era qualcos'altro, qualcosa di più profondo della tristezza.

Angoscia.