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Mi sono svegliato di soprassalto emettendo subito un gemito di dolore. Ero per terra, con il braccio destro e la gamba allungati sul letto, e il polso e la caviglia ammanettati al telaio. Il mio gomito sparava fitte come proiettili su tutta la parte posteriore del braccio.

«Del, apri la porta!» Mia madre. Evidentemente non era la prima volta che mi chiamava. Mi ero svegliato o per le sue urla o per la caduta.

«Sto bene» ho detto. Avevo la gola in fiamme. Avevo gridato ancora. Mi sono sollevato dal pavimento appoggiandomi su un ginocchio. La stanza in penombra ha iniziato a girare vorticosamente intorno a me - avevo ancora il Nembutal nel sangue? -, ma il dolore al gomito stava diminuendo.

A voce più alta ho detto: «Sto bene! Sono solo caduto dal letto.»

Strisciando sono risalito sul materasso, con il braccio destro e la gamba privi di sensibilità e morti come delle protesi. La circolazione cominciava a riattivarsi, e tutte le giunture della parte destra del corpo spasmavano all'unisono: dalla spalla al polso, dall'anca alla caviglia.

Le manette imbottite erano chiuse con dei lucchetti a combinazione. Dalle manette partivano delle catene di bicicletta polimerizzate che erano agganciate alle traverse del telaio del letto.

«Stavi urlando» ha detto ancora mia madre. «Sei sicuro che…?»

Ho iniziato ad armeggiare con il lucchetto che avevo al polso. Era rovesciato, e vedevo tutto sfocato ai lati. Ho composto il primo numero e ho trascinato il dito sul tamburo successivo. «E stato solo un incubo» ho detto. Ho composto l'ultimo numero della serie, fino a visualizzare 9-9-9. Ho tirato, il lucchetto si è aperto e mi sono liberato la mano.

«Mamma, sto bene. Torna a letto.»

Sono rimasto disteso a faccia in giù, con il cuore che mi batteva nelle orecchie, finché non l'ho sentita allontanarsi dalla porta. Mi stavo quasi per riaddormentare, ma mi sono imposto di restare seduto, e mi sono stropicciato la faccia per svegliarmi, sbloccare la gamba e uscire dal letto. Il led rosso della sveglia segnava le 3:50. Avevo sonno, ma avere sonno non bastava.

Ho acceso la luce, ho trovato il borsone e l'ho buttato sul letto. Ho ripescato la boccetta arancione delle pillole nascosta a destra e l'ho agitata. Tre pillole. Ne avevo presa una prima di andare a letto, ma avevo sbagliato. O sveglio o collassato, ecco come dovevo essere.

Ho guardato di nuovo l'orologio. Mancavano poche ore all'alba. Ho ributtato la boccetta dentro il borsone senza aprirla.

Quando sono tornato dalla passeggiata mia madre era in lavanderia, e stava trasferendo i miei vestiti dalla lavatrice all'asciugatrice. Mi sono fermato un secondo, e ho notato che erano quelli che avevo messo in lavatrice prima di uscire. Dunque non aveva messo le mani nel mio borsone.

«Non serviva» le ho detto.

Mi sono messo di fianco per poter passare nello spazio ristretto, con una torta al caffè sotto un braccio e l'edizione domenicale da un chilo del Chicago Tribune sotto l'altro. La lavanderia era un vero e proprio corridoio d'aria che collegava il garage alla casa e fungeva anche da disimpegno. L'aveva costruita mio padre, sotto la stretta supervisione di mia madre. Mia madre diceva che mio padre aveva le mani di cemento, un disastro per tutto ciò che era più piccolo di un 5x10 o più fragile di una lamina di metallo. Non era mai riuscito a lavorare su una rifinitura di legno senza romperla.

«Sei già andato al panificio?»

«Sette di mattina della domenica e c'era già la calca.» Sono entrato in cucina e ho appoggiato la scatola sulla credenza. «Sempre le solite polacche. Quel posto non è cambiato di una virgola.»

«Non hai più dormito, vero?»

Ho scosso la testa, anche se non poteva vedermi. «Mi dispiace. Non volevo svegliarti.» Mi sentivo a disagio e in colpa, come se mi avesse beccato a girare nudo per casa.

Ha acceso l'asciugatrice ed è venuta in cucina, tamponandosi le mani con un pezzo di carta assorbente. Ha buttato quel che restava del mio caffè delle quattro - avevo dovuto bere molta caffeina - e ne ha preparato di nuovo. Io mi sono affaccendato a mettere fuori i piatti e a tagliare a fette la torta al caffè. Ci siamo seduti a tavola e ci siamo spartiti le sezioni del Tribune. La torta non era affatto dolce nella parte centrale - del resto niente in quel panificio polacco era dolce come negli altri panifici - ma mi piaceva di più delle altre ciambelle o paste che avevo trovato. O forse era solo nostalgia. Siamo rimasti a lungo così, mangiando e leggendo in silenzio.

Il demone che avevo visto all'aeroporto due giorni prima era nominato a pagina tre. Era un articolo breve, il seguito di quello che avevano scritto il giorno precedente. La vittima non sarebbe stata accusata; nessuno riteneva che stesse fingendo. Gli esperti erano concordi nel dire che si trattava della variante Pittore del disturbo. (Quelli erano i termini ufficiali - variante, disturbo - quasi che abbinare una parola così medievale come 'possessione' a dei modelli di classificazione più medici e moderni potesse in qualche modo domare il concetto, racchiuderlo in qualcosa di sufficientemente ordinato per la scienza.) Nella migliore delle ipotesi esistevano probabilmente un centinaio di varianti specifiche: un modo scientifico per chiamare un centinaio di demoni.

Negli Stati Uniti, il Centro per la prevenzione e il controllo delle malattie aveva registrato oltre ventimila casi di possessione in un anno, alcuni di qualche settimana, la maggior parte di pochi minuti. Alcune persone venivano colpite a più riprese, quasi fossero state caricate a vita da un fulmine. Il più delle volte erano vittime dello stesso demone, ma poteva essere anche un demone diverso ogni volta.

Il governo si era affrettato a specificare che quei dati includevano anche un numero incerto di falsi positivi, falsi negativi e diagnosi scorrette. I demoni non lasciavano tracce di DNA, scie di anticorpi nel sangue, modifiche cellulari nel cervello. Una possessione, specialmente se di breve durata e isolata, era facile da nascondere e ancora più facile da simulare. Diverse persone erano fortemente motivate a fare entrambe le cose. I demoni potevano indurre chiunque a compiere gesti tenibili, e i gesti terribili procuravano la fama. Non a caso chi sopravviveva a una possessione finiva sempre in TV.

Accanto all'articolo sull'aeroporto c'era un trafiletto dedicato alla CISP, la conferenza internazionale sulla possessione, e alla sua paraconferenza illegale, il DemoniCon. In termini tecnici, il DemoniCon non era nemmeno una conferenza: non aveva uno statuto, non aveva comitati, non aveva contratti di prenotazione. Era una festa annuale improvvisata che seguiva la CISP in giro per il mondo. Stravaganti discepoli di demonologia, hobbisti, fanatici dei demoni prenotavano ogni anno stanze di hotel nelle città in cui si teneva la CISP, trovavano il modo di intrufolarsi negli eventi più importanti e rompevano le scatole.

In generale si temeva un aumento improvviso dei casi di possessione per effetto delle conferenze o, peggio ancora, l'aumento delle possessioni seriali. A nessuno piaceva l'idea di ritrovarsi in giro i sosia armati del Re dei Pirati o di Truth. Sicuramente i controlli sarebbero stati serrati, ma di questo i veri demoni non si curavano troppo. Niente fermava un vero demone.

«Lew arriva alle dieci?» mi ha chiesto mia madre.

«Così ha detto.» La notte scorsa Lew e Amra erano tornati a Gurnee. Era un'ora di andata e un'ora di ritorno, in base al traffico, ma la gente di Chicago pareva gestirlo con disinvoltura.

«Allora resti a dormire in città per tutte e due le notti?»

«Sì sì.» Mi sono alzato e mi sono rabboccato la tazza. La spia della funzione di autopulizia stava lampeggiando. Non le avevo detto della CISP, né del dottor Ram. Non le avevo nemmeno raccontato del mio incontro con la dottoressa Aaron, a parte un accenno al fatto che la visita era andata bene e che aveva messo su parecchi chili.

Non le avevo detto nulla e mia madre non aveva insistito. E questo non era da lei.

«Sono preoccupata per te, figlio mio» ha detto.

'Figlio mio.' Questa espressione mi stendeva ogni volta.

«Andrà tutto bene» le ho risposto in automatico. «Sono stato solo un po'…» Mi sono riseduto, con la tazza calda di caffè in punta di dita. «Mamma, da bambino… come ne sono uscito? A parte il discorso delle preghiere, cos'è successo? Mi sono svegliato una mattina e di colpo ero… tornato?»

«Forse eri troppo piccolo per poterti ricordare.»

«Sono rimasto a letto per un sacco di tempo, questo me lo ricordo. Con le cinghie, no?»

Teneva gli occhi fissi sul pavimento. «Sei rimasto in ospedale per quasi tre settimane. Non facevano altro che sedarti e tenerti legato. Ti abbiamo portato via, ma anche a casa dovevi essere sorvegliato tutto il giorno, notte compresa, perché ti alzavi e andavi in giro a spaccare tutto. Una sera stavi per dare fuoco al salotto, volevi tostare i marshmallow. Eri indomabile. E avevi tanta, tanta forza.

«Ma non eri cattivo, non volevi fare male a nessuno, non di proposito. Agivi d'istinto. Non conoscevi la tua forza. Lew aveva sette anni, ed era molto più grande di te, ma nonostante questo, vabbe'… Alla fine io e tuo padre decidemmo di tenerti in camera. Tuo padre aveva sigillato la finestra per impedirti di scappare, e bloccavamo la porta della camera dall'esterno con un catenaccio. Eri isterico e ti dovevamo legare. Ti davamo da mangiare a letto, anche se tu volevi soltanto panini con burro d'arachidi e gelato.»

«Gela-a-a-to» ho detto, quasi canticchiandolo.

Mi ha guardato con un'espressione severa, poi ha allontanato gli occhi. «Cantavi nenie, a voce altissima.»

«Fantastico.»

Ha sospirato. «Non era facile vivere con te.»

«Poi cos'è cambiato? Quand'è che sono migliorato?»

«Non è successo tutto in un giorno, e nemmeno in un mese. Alla fine avevamo capito che ti piacevano le storie, quelle ti facevano restare calmo a letto. Io ti leggevo i libri illustrati e le barzellette del giornale, Lew ti leggeva i fumetti. Ti raccontavo le storie della mia infanzia, ti parlavo di tutte le cose che avresti fatto da grande… Be', ti dicevo tutto quello che mi veniva in mente. Ti leggevamo uno per uno tutti i libri che c'erano in casa, e ogni due giorni andavamo in biblioteca a prenderne altri. Questo fu dopo il mio intervento, e fu molto faticoso; c'erano giorni in cui non facevo altro che leggerti cose e prendere antidolorifici.»

«Mike Mulligan e la sua scavatrice a vapore» ho detto.

«Dio mio, sì. Credo di averti letto Mike Mulligan cinquecento volte.»

Adoravo quel libro. «Okay, e quindi poi…»

«Poi ti sei calmato. Un poco alla volta abbiamo cominciato a lasciarti giocare più spesso in camera, e quando uscivi ti controllavi. Con il passare del tempo stavi sempre meglio.»

Ho scosso la testa. «Ma come… quando hai saputo che ero tornato in me? Cosa ti ha dato la certezza che il demone fosse uscito?»

Ha sorriso, scrollando le spalle. «Lo sapevo e basta. In effetti però una cosa c'era. Per tantissimo tempo avevi continuato a non chiamarci per nome. Lew era 'quel ragazzone'. Tuo padre era il 'capo', io ero 'quella stangona'. Poi un bel giorno, mentre ti stavo dando il pranzo, mi hai chiamato 'mamma'.» Ha scrollato di nuovo le spalle. «Quello mi è bastato. Sapevo che il mio bambino era tornato.»

Sono entrato nella doccia, lasciando che l'acqua calda mi battesse sulla testa, tentando di affogarmi nel rumore: il picchiettio e il sibilo dell'acqua, il mormorio indistinto della voce che parlava dalla radio appoggiata sulla mensola del bagno, il debole trillo intermittente che poteva essere un telefono nella stanza di fianco. Non bastava. Attraverso i rumori, cablati direttamente al mio sistema nervoso, sentivo la pressione metallica di quella cosa in testa.

Ho chiuso la doccia e ho aperto la porta scorrevole di vetro. Il telefono stava squillando davvero. Ha smesso di suonare un secondo dopo.

Doveva essere Bertram. La sera prima, mentre eravamo fuori, aveva lasciato altri due messaggi nella segreteria di mia madre, e io non l'avevo richiamato. Come poteva pensare di potermi chiamare così? Ci eravamo conosciuti in ospedale, nella misura in cui si può conoscere uno che è matto come un cavallo. Durante i nostri giri perimetrali dell'ala, riempivamo il tempo parlando. Ma quella era l'entità del nostro rapporto. Eravamo amici di ospedale.

Ho aperto l'anta dell'armadietto sotto il lavandino e ho preso uno degli asciugamani grandi e morbidi impilati; non avevano più di un anno. Mia madre apparteneva a un club di asciugamani, cioè a un gruppo di donne che avevano deciso di regalarsi asciugamani per i rispettivi compleanni. Per qualche motivo aveva pensato che fosse più semplice in quel modo, anziché uscire e comperarne dieci di nuovi.

Mi sono asciugato e ho iniziato ad aprire i cassetti per trovare un pettine.

«Del, è la dottoressa Aaron.»

«Ah sì?» Ho girato la chiave e ho aperto la porta di uno spiraglio. Un filo di aria fredda sulla spalla. Mia madre era lì davanti con una mano sul ricevitore. Ho fatto spallucce e l'ho preso.

«Dottoressa Aaron?» La mia voce faceva eco in quel piccolo spazio. Mi sono tirato indietro e ho chiuso la porta.

«Del, scusa se ti disturbo, ma ho dato un'occhiata ai miei vecchi appunti e mi sono accorta di una cosa. Avresti tempo per fare due chiacchiere oggi?»

Mi sono guardato il polso, ma avevo tolto l'orologio. Comunque dovevano essere le nove e mezza circa. «Non so, mio fratello dovrebbe arrivare a momenti, devo andare in città per un paio di giorni.» Avevo già detto alla dottoressa Aaron della CISP, ma non volevo ripeterlo a voce alta. Con tutta l'eco di quella stanza sembrava impossibile parlare in tranquillità. Ho preso l'orologio sul lavandino. Erano le 9:40.

«Sarebbe il caso di vederci prima che tu parta» ha detto. Aveva un tono secco. «Sarà questione di pochi minuti.»

Era per i sonniferi? Forse ci aveva ripensato. O forse aveva deciso che dovevo entrare in clinica per disintossicarmi. No, sembrava qualcos'altro.

«D'accordo, senta, il tempo di vestirmi e…» Nel cassetto c'era un astuccio da orecchini grigio. L'ho preso e ho passato il pollice sulla chiusura di velluto. «Ci vediamo dentro la libreria dei grandi magazzini? Hanno anche un caffè. Lei abita in zona, no?» Era solo a due minuti d'auto da me.

Abbiamo stabilito di trovarci in libreria dopo venti minuti. Ho pensato che magari Lew sarebbe arrivato comunque in ritardo.

Ho messo giù il telefono e ho guardato l'astuccio. Una volta mi intrufolavo qui per mostrarlo ai miei amici. Con grande teatralità chiudevo a chiave la porta e li obbligavo a giurare che avrebbero mantenuto il segreto.

L'astuccio aveva un perno a molla molto duro, e dovevo usare entrambe le mani per aprirlo.

L'occhio di scorta di mia madre.

Mi sono asciugato le dita sull'asciugamano e ho sollevato l'occhio dalla sua nicchia. Era più leggero di quanto ricordassi. L'ho messo sotto la luce, e l'occhio di mia madre mi fissava dall'alto. Forse non le stava bene, o era del colore sbagliato, o voleva solo averne uno di scorta, ma quando facevo la prima media si era procurata un nuovo occhio e quello vecchio lo conservava in bagno. Io e Lew lo chiamavamo 'l'occhio di Agamoto', come l'amuleto del dottor Strange che vedeva ogni cosa. E il mio amico Jeff aveva detto: 'È quello che tiene dietro la testa?'

Mi sono appoggiato sul lavandino e ho pulito la condensa sullo specchio. Tenendo l'oggetto di plastica sulla fronte, il grande terzo occhio immobile, ho guardato me stesso che guardava me stesso. Non riuscivo a immaginare cosa poteva aver passato mia madre. Non ero un angelo, non lo ero stato dopo la possessione e non lo ero adesso. Ma nei mesi in cui giravo per casa come una furia e appiccavo fuochi, o durante le lunghe giornate in cui restavo legato a letto, e lei legata a me… non so davvero come abbia fatto.

Il demone che mi aveva posseduto si chiamava Hellion. Era una sorta di Dennis la minaccia, una piccola canaglia, un Bibì o un Bibò. Si impossessava di bambini che avevano un minimo di quattro anni e un massimo di nove bambini albini con sorrisi furbi e capelli ribelli - e li trasformava in bricconi spiritati con la risata di Picchiarello.

Hellion era l'eterno combina guai. Era quello che faceva rovesciare secchi di vernice appesi alle porte, lanciava palline da baseball contro i vetri, nascondeva bisce dentro i letti. Tirava fuori la sua fionda casalinga e ti sparava pezzi di vetro direttamente in faccia.

Ho storto la bocca. Ho rimesso l'occhio dentro la piccola cavità e ho chiuso l'astuccio con uno schiocco.

«Vorrei tornare all'incidente in macchina» ha iniziato la dottoressa Aaron.

Eravamo seduti accanto alla finestra, a un solo tavolo di distanza dalla consueta sedia gialla. Anche la libreria teneva una sedia gialla, come se il Ciccione potesse irrompere da un momento all'altro e iniziare a chiedere caffè macchiati. Nel bar c'erano più o meno venti persone, di cui almeno la metà sulla settantina e oltre. Abbiamo ordinato due acque in bottiglia. Non era esattamente il mio solito, ma quella mattina avevo bevuto già troppi caffè e mi sentivo nervoso.

«Durante lo schianto c'è stato un momento in cui hai perso conoscenza?» mi ha chiesto. «Per caso hai battuto la testa?»

«Vogliamo tornare su quella teoria?» ho detto. «Che ho battuto la testa, ho iniziato a sentire voci e da lì sono impazzito?»

«Ti prego, ti chiedo solo un minuto di pazienza.»

Ho appoggiato la schiena alla spalliera della sedia. «No, non ho battuto la testa, niente di simile all'incidente in piscina. Cioè, quando sono finito contro il guardrail ho visto tutto nero per un secondo - ma solo un secondo. Ricordo che subito dopo è esploso l'airbag e la macchina si è riempita di una specie di fumo grigio. In seguito ho scoperto che era l'amido di mais che mettono dentro gli airbag. Poi ho sfondato il guardrail rimbalzando un po' di volte contro l'airbag, ma nessuna ferita o sangue che usciva dalla fronte, nemmeno un occhio nero.»

«Quando dici che hai visto nero, vuol dire che sei svenuto?»

«No, non ho perso i sensi. Solo non vedevo nulla. Non credo di essere rimasto tramortito per tutta la caduta; è successo tutto troppo in fretta. Vedevo nero, solo questo.»

«Come un 'pozzo nero' che si apriva?»

Un'ondata di calore mi è salita al petto, e le pulsazioni del cuore mi rimbombavano nelle orecchie.

«Del, ieri, dopo che abbiamo parlato, mi sono guardata i vecchi appunti delle nostre sedute. Durante la tua prima visita discutemmo a lungo del momento in cui stavi per annegare. Mi parlasti di un 'pozzo nero', un buco profondo che avevi visto in fondo alla piscina. Ti sentivi come risucchiare dentro.»

«Davvero?»

«Te lo ricordi?»

«Non molto.» Il brivido era passato. Ho premuto forte i palmi sulle ginocchia. «Vagamente.»

«E questa volta?»

«Vagamente.» Ho alzato il viso, ho sorriso, ma non sono riuscito a tacere. «C'è stato qualcosa di simile. Una specie di pozzo. Quando ho colpito il guardrail ho come vacillato in avanti, e per un secondo l'ho visto, il nero, e mi sentivo come… come se mi stesse risucchiando dentro. Ma ho tenuto duro. Sono rimasto sveglio, e poi ho iniziato a sbattere dappertutto dentro la macchina. Un istante dopo ero in fondo al burrone.» Ho scrollato il capo. «Pensa che voglia dire qualcosa?»

«Del, tutte e due le volte ti sono tornati i rumori dopo aver visto il pozzo. In qualche caso di esperienza premorte, c'è chi vede un tunnel, e magari…»

«Il tunnel, la luce, e alla fine la nonna e Gesù che ti accolgono a braccia aperte. L'ho letto. È solo la carenza di ossigeno.»

«Questa è una teoria: anossia e rilascio di endorfine. Ma supponiamo che gli junghiani abbiano ragione, che esistano archetipi esterni o memi che il nostro cervello recepisce. Un modo per interpretare questo pozzo nero è che sia un passaggio, un passaggio che si apre in un frangente di massima vulnerabilità.»

«Quindi il demone ritorna perché sto per morire.»

«Forse.» Ha increspato le labbra: era uno sforzo mortale per lei convenire sul concetto di 'demone'. La dottoressa Aaron amava la visione agnostica delle cose. Ma ha comunque annuito. «Forse. Spiegherebbe molte cose. Ogni volta che il pozzo si è aperto, ti ha inseguito. È come un'infezione opportunistica. Ma la buona notizia è che tu sei già riuscito a combatterla. E se questi esercizi non funzionano, significa soltanto che dobbiamo provarne altri.»

«È un'ottima teoria» ho commentato seccamente.

Ha battuto le palpebre. «Però tu non ci credi.»

«Vorrei che avesse ragione, dottoressa. Un paio di mesi fa ci avrei messo la firma.»

«Un paio di mesi fa… quando sei stato ricoverato?»

Ho inspirato e poi espirato. Respiri depurativi. «Vede, ora non sono più soltanto i rumori. C'è anche il problema del sonnambulismo.»

Ha contratto il viso, e sono scoppiato a ridere. «Vabbe', non è il termine più esatto» ho detto. «Forse è più corretto dire aggressività notturna. Mi trasformo in una bestia.»

Ha piegato leggermente la testa. Lo faceva sempre quando avevo quattordici anni. Bastava quel piccolo movimento, la spinta giusta, e riusciva ad aprirmi come una bottiglia.

«È iniziato solo un paio di mesi dopo l'incidente in macchina» ho detto. «I rumori erano peggiorati, ma cercavo di tenere duro. Riuscivo quasi sempre ad andare a lavorare. Poi un giovedì notte mi sono svegliato, e ho sentito che il mio vicino di sotto mi batteva sulla porta.» Ho sorriso, ricordando come fosse trascorso qualche secondo prima di realizzare che i colpi non provenivano dalla mia testa. «A ogni modo ero sul pavimento del corridoio d'ingresso, aggrovigliato tra le lenzuola. Non sapevo perché mi trovassi in corridoio, ma ero furioso con il mio vicino che mi aveva svegliato. Ho aperto la porta rabbiosamente e il vicino mi ha detto che avevo urlato come un forsennato per quindici minuti. Uno pensa a un incubo, no? Che ne so io?

«È successo ancora qualche notte dopo. Quella volta mi ero svegliato in cucina, il telefono stava squillando. Avevo passato al setaccio il frigorifero, tirando fuori tutto, rompendo bottiglie, strappando scatole. Ho pensato: dio santo. Allora ho iniziato a mettere sedie davanti alla porta della camera, a girare il letto in ogni posizione per seminare piccoli ostacoli su cui inciampare e magari svegliarmi. Ma non è servito. Allora sono andato da quel dottore di Colorado Springs di cui le ho parlato. Abbiamo cominciato con un sedativo blando, ma non mi faceva niente, così sono passato al Nembutal. Nonostante questo continuavo ad avere attacchi, e lì sono entrato in casa di cura. Mi sorvegliavano costantemente, mi drogavano come un cavallo, e per una serie di notti ho dormito senza strane avventure. Naturalmente poi l'assicurazione è scaduta.»

«Quindi sei tornato a casa. E ha continuato a succedere.»

«Succede ancora. Ogni notte mi…»

Le stavo per dire: ogni notte mi incateno al letto. Potevo dirle tutto: le catene da bici, i lucchetti a combinazione (perché le chiavi potevano perdersi nel tumulto, o essere scovate da quella cacchio di cosa che governava il mio corpo di notte), tutto il melodramma di Lawrence Talbot con la luna piena. Ma non ancora. Non in un bar.

Ha atteso parecchio, poi ha detto: «Del, dimmi cosa sta succedendo.»

«Io sono un po' lento nelle cose,» ho risposto «ma alla fine ho capito. Ha presente Hellion, il demone che mi possedeva quando avevo cinque anni?»

Ha fatto cenno di sì. Sapeva che mi stavo bloccando, e non voleva interrompermi.

«Non è stato più visto da allora. Sì, un paio di notizie sui giornali per dei bambini che avevano avuto comportamenti strani, ma solo ipotesi, nessuna possessione accertata. E poi sono sparite anche quelle voci. Dagli anni Ottanta non una singola notizia su Hellion.»

Mi sono piegato in avanti. «Dottoressa, Hellion non è tornato quando avevo quattordici anni. Non è tornato dopo l'incidente in macchina.» Ho emesso un rumore che era a metà tra un sospiro e una risata.

«Non se n'è mai andato.»

La dottoressa Aaron è rimasta immobile. Ho girato lo sguardo sulle persone intorno a me, che gustavano tranquillamente i loro caffè macchiati e i loro frullati alla frutta.

Infine ha detto: «Tu ne sei certo.»

«Lo sento in testa, dottoressa. È incavolato. In qualche modo da piccolo l'ho… intrappolato. Penso che mia madre mi abbia aiutato a bloccarlo dentro la prima volta. E lei mi ha aiutato la seconda volta. Pensavamo che quegli esercizi mi aiutassero a tenere fuori i rumori, invece mi aiutavano a tenerli dentro.»

«Oh Del. Mi dispiace tantissimo. Se pensi che io…»

Ho scosso la testa. «Non è colpa sua. Non intendevo questo.» Mi sono alzato, e ho sollevato la giacca dallo schienale della sedia. «Lei mi ha aiutato tantissimo, mi ha fatto superare un periodo veramente duro. E stata fantastica.»

«Del, non sei solo in tutto questo. Io ti posso aiutare.»

«Ha qui il blocco delle ricette?»

«Del, sto parlando di terapia. Possiamo ricominciare a vederci, a lavorarci insieme.»

«Io non voglio lavorarci, dottoressa. Non voglio bloccarlo dentro un'altra volta.» Ho infilato sbrigativamente le braccia dentro la giacca. Fanculo anche la ricetta. «Ho chiuso con gli esercizi. Ho bisogno di un esorcismo.»

Lew e mia madre erano in cucina, e Lew parlava al cellulare bevendo una tazza di caffè.

«Mi preparo in un attimo» ho detto, e mi sono defilato. Mi avrebbero letto in faccia tutta la rabbia. «Devo solo farmi il borsone.»

«Assolutamente no, non può essere assolutamente così lento» diceva Lew al telefono. «L'hai pingato? Lancia un traceroute.» Aveva delle briciole sulla barba. «Mamma, la spia dell'autopulizia sta lampeggiando.»

«Ti ho messo la roba pulita sul letto» mi ha strillato dietro mia madre.

«Grazie.»

«Ma se si pulisce da sola, perché ti deve lampeggiare? Perché non si pulisce e basta?»

Il borsone era ancora chiuso. I miei vestiti erano sul letto, piegati e impilati con precisione certosina. Aveva rifatto anche il letto. Perché non l'avevo rifatto io? Ho chiuso la porta e mi sono inginocchiato.

Ho allungato la mano sotto il telaio del letto e poi l'ho alzata, fino a sentire il foro nell'imbottitura che copriva il fondo della base del letto. Non riuscivo a trovarla lì per lì, e il cuore ha iniziato a battere all'impazzata. Gesù santo, e se mia madre…

La mano è finita sull'impugnatura grinzosa della pistola. Ho estratto la pistola e la tela cerata, l'ho riavvolta in fretta, resistendo alla tentazione di guardarla.

Con la schiena appoggiata sulla porta, ho aperto il borsone. Gli anelli della catena inguainata erano avviluppati come serpenti.

Li ho spostati di lato e ho nascosto la pistola dentro un paio di jeans. La boccetta di pillole era ancora nello stesso punto in fondo al borsone.

Tre pillole. Tre cazzo di pillole.

Ho sistemato i vestiti puliti sopra e intorno alle prove incriminanti: la boccetta, i lucchetti con le catene e le manette, la pistola. Mi sentivo un terrorista. Un terrorista mammone, però: mia madre aveva abbottonato le camicie, arrotolato in due i calzini, persino piegato le mutande.

Ho dato un'occhiata intorno alla stanza, ho controllato di nuovo sotto il letto e ho caricato il borsone in spalla. Era sospettosamente pesante.

Mia madre era in corridoio e mi stava venendo incontro.

«Hai tutto?»

Ho ridato un'occhiata veloce alla stanza. «Penso di sì.»

«Al massimo riprendi quello che manca quando torni. Torni qui prima di partire, no?»

«Certo. Ci vediamo fra un paio di giorni.» Ho cercato di dirlo con un tono disinvolto.

Siamo andati in cucina. Lew stava mettendo via il telefonino. Ho appoggiato il borsone con cura - senza farlo cadere, per evitare rumori metallici - e ho messo un braccio intorno a mia madre. Era sempre più alta di me, ancora nessun restringimento senile. «Mi ha piegato le mutande» ho detto a Lew. «La mia mammina mi ha piegato le mutande.»

«Wow. Le mie le stira.» Mi ha guardato. La sera prima gli avevo detto perché volevo andare in città, ma la sua espressione nascondeva qualcos'altro. «Pronto?» mi ha chiesto.

Ah. Mamma doveva avergli detto che mi ero visto con la dottoressa Aaron.

«Aspetto te» gli ho risposto.

Mia madre mi ha avvicinato a sé e mi ha abbracciato. «Guidate piano. Ci vediamo tra un paio di giorni.»