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A quattordici anni ero diventato famoso in tutta la scuola per aver perso talmente tanto sangue in piscina che avevano dovuto svuotarla.

Era stata una ferita alla testa leggendaria per un incidente così banale. Ero sul bordo della piscina e volevo strappare dalle mani di un altro ragazzino la pagaia di una canoa, quando, facendo un passo indietro, appoggiai il piede su una tavola di gomma. Il pavimento era bagnato, la tavola mi schizzò via da sotto il piede e finii per terra. Andai a battere con la testa contro il bordo di cemento della piscina e caddi in acqua. Non persi conoscenza. Non ricordo di aver avuto paura. Galleggiai a faccia in giù per quella che sembrò un'eternità, incapace di spingere la testa fuori dall'acqua. A fondo della piscina diventò nero, ma forse era stato l'effetto della perdita di sangue o della carenza di ossigeno.

Quando i miei compagni mi tirarono fuori, vidi brillare una luce. Il professore di ginnastica, non ricordo come si chiamasse, mi stese per terra e mi tamponò la testa comprimendola con degli asciugamani, finché non arrivarono i paramedici.

La botta si gonfiò come una palla da softball da una parte della testa, offuscandomi la vista. Ma non ero paralizzato, né tantomeno avevo subito lesioni gravi. Per sicurezza mi tennero in ospedale una notte, dicendo che la mattina seguente sarei tornato a casa.

Fu quella notte in ospedale che cominciarono i 'rumori'. La prima cosa che sentii fu un colpo, come se qualcuno dall'altra stanza avesse battuto sulla parete dietro la mia testa. Mi girai, e sentii un altro colpo, ma vidi che dietro la testa c'era soltanto la mia camera. Chiamai l'infermiera e le chiesi se c'era qualcun altro con me in stanza. Pensò che stessi sognando.

In seguito i colpi intermittenti diventarono sempre più forti, sempre più frequenti, e si trasformarono in qualcosa che ora era più simile a una mazza da baseball scaraventata ripetutamente sul tronco di un albero, con la fitta di dolore e il bruciore di ogni impatto che mi tramortivano la testa.

Diedi di matto. Mi immobilizzarono e mi somministrarono qualcosa per farmi perdere i sensi.

Il gonfiore della commozione cerebrale si ritirò, la vista migliorò, ma i rumori continuavano a tornare. A volte erano colpi, altre volte era solo un bisbiglio muto che grattava e raschiava dentro il cranio. Mi prelevarono il sangue, mi fecero stare disteso immobile dentro a costosi macchinari, mi cambiarono alimentazione. Soprattutto mi imbottirono di farmaci. Finché dormivo, non potevo scappare dall'ospedale.

Mia madre e mio padre erano là - mio padre era vivo all'epoca - ma ricordo che era mia madre che dormiva sulla sedia accanto al mio letto. I dottori conclusero che non si trattava di un problema fisico - nessuna emorragia interna, nessun danno cerebrale o tumore - e non corrispondeva a nessuna delle possessioni conosciute fino ad allora. Dissero che era giunto il momento di interpellare uno psichiatra. Fu mia madre che trovò la dottoressa Aaron.

Si era trasferita in un'elegante casa vittoriana, a un isolato dalla stazione ferroviaria. Un bel salto rispetto al palazzo di mattoni piatti dove era stata in affitto all'epoca.

«È qui?» ha domandato Lew.

«Questo è l'indirizzo.» Facendomi leva sono sceso dalla sua auto.

«Pettinati i capelli, dietro sono tutti sparati.»

Quella mattina mi ero alzato con una certa difficoltà. Avevo preso due pillole per essere certo di collassare, e aveva funzionato. Lew aveva iniziato a battere alla mia porta alle 10:30 - non capiva perché fosse chiusa a chiave - e alla fine mi ero trascinato fuori come uno zombi.

«Torno a prenderti fra un'ora» mi ha detto.

«Un'ora di terapia o un'ora vera?»

«Un'ora di TV. Ci vediamo fra quarantadue minuti.»

Dentro, la casa sembrava vuota. Al piccolo bancone davanti non c'erano addetti. Sulla parete, un mucchio di cassette di plastica per la posta con i nomi di altri dottori. Sono rimasto per un po' a guardare la lunga tromba di scale, chiedendomi in quale stanza potesse essere la dottoressa Aaron. Era sabato, forse non era nemmeno arrivata.

Mi sono seduto sul divano della sala d'attesa, un ex salotto con un caminetto dismesso e grandi finestre che davano sulla strada. Ho fissato la porta principale per qualche minuto, poi ho preso una copia di Newsweek. I marines erano ancora in Kashmir. La chiesa di Scientology aveva denunciato la chiesa di Jesus Christ Informationalist per violazione del copyright. I critici stavano stroncando il musical di Exorcist. Era un arretrato del mese precedente, ma per me erano tutte novità: avevo perso il contatto col mondo da prima di Natale. Mi chiedevo se nei quotidiani ci fosse qualche articolo sul demone dell'aeroporto.

Da uno dei piani di sopra si è aperta e richiusa una porta. Ho alzato lo sguardo, ascoltando i passi. Dalle scale è scesa una donna grassoccia con un cardigan nero lungo fino alle ginocchia, ed è passato un secondo prima che si voltasse e mi vedesse.

Dio santo, ho pensato, è diventata un pallone. E poi: Quanto sono scemo.

«Del?»

Mi sono alzato in piedi e ho oltrepassato goffamente il tavolino. «Salve, dottoressa Aaron.»

Non la vedevo dai tempi delle superiori. Una volta era snella, seriosa e, ai miei occhi di quattordicenne, drasticamente più vecchia: sulla quarantina di sicuro. Ora però mi rendevo conto che non poteva avere più di quarantacinque anni. In quegli anni poteva aver avuto sì e no trent' anni, probabilmente aveva appena finito di studiare medicina.

Le ho preso la mano, senza sapere bene come dovevo comportarmi - eravamo vecchi conoscenti, o dottore e paziente? Il suo sorriso aperto mi ha disarmato. Mi sono piegato e l'ho stretta con il braccio libero, e lei mi ha dato una pacca sulla schiena.

«Sono contenta di vederti, Del.» Cominciavo a mettere a fuoco il suo viso. I capelli corvini e corti, le sopraciglia scure e sottili come accenti francesi, la pelle chiarissima. La donna che avevo davanti si stava sovrapponendo all'immagine vaga dei miei ricordi, sostituendola.

Mi ha accompagnato su per le scale. «Ti ho pensato molto in questi anni, mi sono sempre chiesta come stavi.»

«Sto bene.»

Si è girata a guardarmi, per giudicare da sé. «Prego, seguimi.»

Il suo studio era oppresso da colori pesanti: pareti bordeaux, pavimenti e battiscopa in rovere scurito, una scrivania piatta e massiccia. Tutti gli altri elementi della stanza si sforzavano di illuminare l'ambiente. Un tappeto persiano con striature rosa acceso, il divanetto fiorato color pastello, tende bianche merlettate, paralumi. L'unica cosa rimasta dal vecchio studio che ricordavo era la poltrona in pelle testa di moro.

Ha preso la mia giacca e l'ha appesa dietro la porta. Mi sono seduto sul divanetto, lei sulla sua poltrona.

Ci siamo scambiati un altro sorriso. Vecchi tempi.

«Non prende appunti?» ho esordito.

«Sei di passaggio, giusto? E comunque non faccio più tanti scarabocchi. Ho scoperto che ascolto meglio senza il bloc-notes.» Ha spostato il peso del corpo, accavallando le gambe. «Dunque vivi in Colorado adesso. Come d sei finito? L'ultima volta che ci siamo sentiti, cioè, che mi hai scritto, stavi per andare all'università. Non riuscivi a deriderti sulla facoltà.»

«Alla fine ho optato per una laurea in Scienze dell'artista morto di fame.» Ero passato alla 'modalità di riepilogo comico'. Dopo tanti 'Salve, mi chiamo Del' a dottori, compagni di ospedale e gruppi vari, avevo deciso che quello era il modo meno penoso per riassumere gli aridi anni che avevo vissuto dall'università in poi. La lunga ricerca di un lavoro per trasformare la mia laurea in Arti grafiche dell'Illinois in una posizione concreta, il vergognoso ritorno a casa di mia madre, la serie di lavoretti mal pagati. Ho evidenziato i momenti più umilianti, come la decisione di trasferirmi in un altro Stato con la mia ragazza per poi essere piantato una volta arrivati a destinazione.

«Mi avrà mollato sì e no mezzora dopo che avevamo scaricato il furgone del trasloco.»

È scoppiata a ridere. Meno male che rideva. «Ebbe', mica poteva lasciarti prima di averti fatto scaricare tutto, no?»

«Certo che no, io mi scelgo solo donne intelligenti. Comunque avevo deciso che il Colorado mi piaceva. Feci un'altra serie di lavoretti, roba interinale da ufficio, qualche mese in una società di sviluppo web che poi fallì, un periodo ancora più breve a ideare pubblicità di attrezzature agricole che poi finiscono sui giornaletti gratuiti di annunci. L'ultimo è stato in un'azienda di decaling a Colorado Springs.»

«Decaling?»

«È una specie di salone di tatuaggi per le auto. Io abbellivo i file grafici e gestivo una gigantesca stampante di pellicole. E se facevo il bravo, ogni due mesi mi davano un nuovo logo da creare. Sono fierissimo del mio 'castoro con casco e chiave da lavoro'.»

«Hai detto 'ultimo'. Non ci lavori più?»

«Ah, no. Mi hanno licenziato ufficialmente due settimane fa. In realtà erano già diverse settimane che non mi presentavo, perciò non li biasimo.»

Ha annuito. «Al telefono però mi sembravi sconvolto.»

«Davvero?» Quella sera avevo persino aspettato di calmarmi prima di comporre il numero. «Forse ero un po' stressato.»

«Dicevi che ti serviva una nuova ricetta per dei sonniferi. Cosa prendi?»

«Nembutal, mi pare si chiami.»

«D'accordo.» Una breve pausa, lunga abbastanza da farmi preoccupare. «Quando hai iniziato?» mi ha chiesto. «Quanti milligramrni?»

«All'inizio cinquanta, poi sono passato a cento. Mi sembra che fosse a metà gennaio.» La sua espressione non era cambiata, ma qualcosa mi diceva che fosse il caso di fare marcia indietro. «Forse fine gennaio. Ma non ogni notte, solo quando ne sento il bisogno. Una volta ogni tanto.»

Si è accigliata. «Allora è stato prima che perdessi il lavoro. Come mai hai avuto bisogno di chiamare un dottore?»

Non mi aveva ancora detto se mi avrebbe fatto la ricetta. Mi sentivo come un tossico a un colloquio di lavoro.

Le ho descritto l'incidente con un livello di dettagli che era una via di mezzo tra la versione che avevo raccontato a mia madre e quello che avevo detto a Lew e Amra. Che ero andato oltre il guardrail, quello sì, che mi ero rigirato con la macchina finendo in fondo al burrone, ed ero quasi affogato. Comunque non troppo.

«E i rumori sono ripresi» ha detto. Li chiamavamo così anche in terapia, i rumori. Aveva subito notato le analogie tra l'incidente in macchina e quello in piscina, e aveva saltato il resto per venirmi incontro. Avevo scordato quanto fosse svelta, quanto potessimo essere in sintonia. Era come se stessimo riprendendo dal punto in cui eravamo rimasti anni prima.

«Quando sono cominciati?» mi ha chiesto. «Al pronto soccorso?»

«Questa volta prima. Ero ancora in macchina quando sono iniziati.»

Ha arricciato le labbra. «Come li stai gestendo? Stai facendo gli esercizi?»

«Ho provato a farli.» Avevo lavorato con la dottoressa Aaron per mesi prima che mi insegnasse qualcosa che potesse alleviare la sensazione che avevo in testa. Gli esercizi erano dei giochi mentali. Quello che funzionava di più era 'il fosso di Helm', come l'avevo chiamato. La mia mente era una fortezza, e i rumori - i colpi, gli scossoni, il raschio di metallo contro metallo - erano orchi che salivano sulle mura. Io dovevo soltanto spingerli giù dai parapetti. Se continuavano a salire, dovevo ritirarmi dentro la fortezza e sigillare il portone. Se riuscivano a entrare dentro il portone, mi rifugiavo nei sotterranei. Certo, era da codardi, ma nel mio caso non c'erano nemmeno dei cazzo di elfi pronti ad aiutarmi. E aveva funzionato, fino ad allora.

Mi sono passato una mano sul collo. «Il portone l'ho chiuso, ma li sento ancora.»

«Come fai durante il giorno?»

Ho riso. «Non so. Non riesco a far finta di niente. A volte è la cosa più frastornante in tutta la stanza.» Frastornante non era la parola giusta, ma lei sapeva cosa intendevo. «Ho imparato a non reagire, almeno davanti alle persone. Mantengo una faccia impassibile, tento di non sussultare quando mi fanno sussultare. Cerco di… cerco di concentrarmi sui discorsi delle persone. E dico sempre di sì.»

«Deve essere estremamente stancante.»

Ho riso, e mi sono passato una mano sulla bocca. «Non immagina quanto.»

«Il Nembutal… lo stai usando per aiutarti?»

«Durante il giorno? No. È solo per riuscire a dormire. Cioè, il più delle volte riesco a dormire, ma a volte no. Senta, lo so che è preoccupata per le pillole…»

«Il Nembutal è un barbiturico molto potente, Del. Lo usano per anestetizzare la gente prima delle operazioni. Crea una forte dipendenza e con cento milligrammi non siamo poi così lontani dalla soglia dell'overdose. Ti basta bere qualche birra e prenderne uno, e fai la fine di Marilyn Monroe.»

«Non sto diventando dipendente. Mi creda, non è questo che mi preoccupa.» Ho alzato le mani dalla pancia, e le ho lasciate ricadere. «Dottoressa. Lei crede che la possessione sia qualcosa di reale?»

«Certo.» Ha inclinato la testa. Ricordavo quel gesto dalle nostre sedute. «Del, lo so che non ti stai inventando nulla. E nemmeno le migliaia di persone che ne sono state affette.»

«Non intendevo questo. Non la possessione come disturbo. La possessione in senso più antico. Lei ritiene possibile che una persona venga posseduta da una forza esterna - un dio, un demone, qualsiasi cosa - o pensa che sia solo… il delirio di un delirante?»

«Non si sa, Del. L'importante è…»

«Mi dica solo come la vede lei, dottoressa. Sì o no. È gente che semplicemente impazzisce o è qualcos'altro?»

Ha contratto il viso, quasi per soppesare la risposta. «Sì, penso che ci siano persone psicotiche, o persone affette da un disturbo di personalità multipla, che sostengono di essere possedute. Ci sono anche persone che non sono psicotiche e che vogliono disperatamente essere possedute, o che per spiegare qualche trauma passato si convincono di essere in balia di una forza superiore. Non sto parlando di persone che fingono di essere possedute… ci saranno sempre quelli che adottano la difesa di O.J. Simpson. Ma ci sono anche persone come te, Del, che non vogliono essere possedute, che non mentono e non sono 'pazze'. Gli junghiani…»

«Oddio, gli junghiani no.»

«C'è un motivo se l'ottanta percento degli psicoterapeuti è junghiano. L'idea dell'inconscio collettivo, degli archetipi che ricorrono, dell'indipendenza non fisica dell'anima… tutto questo spiega un sacco di cose alla luce dei fatti. Esiste una miriade di casi di possessione dove la vittima evidenzia conoscenze o abilità apparentemente inaccessibili, come la capacità di controllare un aereo, o di aprire il caveau di una banca. La letteratura parla chiaro, e la spiegazione freudiana della possessione non regge, a mio giudizio. Tutte queste possessioni non possono essere soltanto l'espressione degli impulsi più reconditi della vittima.»

«Be', però c'è il Piper, che sembra l'incarnazione dell'Es puro.»

«Anche quello è un archetipo: il satiro.» Ha fatto un cenno con la mano. «Stiamo divagando. Vuoi sapere cosa penso io.» Ha poggiato le spalle allo schienale, intrecciando le mani sulla pancia. «Io non sono junghiana, e l'interpretazione freudiana non mi convince. Non appoggio nessuna teoria, io attendo ancora un verdetto. Esistono prove scientifiche certe che suggeriscono che la malattia è legata non esclusivamente a fattori interra.»

«'Non esclusivamente.'» Sono scoppiato a ridere. «Vuole dire che forse non è tutto dentro la mia testa.»

Ha sorriso. «Ciò che conta. Del, è che io creda alla tua esperienza. E io credo che a cinque anni tu abbia perso il controllo del tuo corpo. Significa che sei stato posseduto da uno spirito vudù, da un telepatico comunista, da un archetipo dell'inconscio collettivo? Non credo. Ma un sacco di persone intelligenti ritengono che sia precisamente questo che accade. La mia speranza è che un giorno si scopra che esiste un fattore scatenante di tipo biologico - qualcosa di virale, o genetico, o batterico? - qualcosa che potremo combattere. Per ora sappiamo che alcune delle vittime sono giapponesi, in parte ragazze, ma nella stragrande maggioranza dei casi si tratta di uomini e ragazzi bianchi - almeno in America. Alcuni vengono posseduti a più riprese. Forse esiste una predisposizione genetica scatenata da qualcosa nell'ambiente, un fattore stressante contro il quale potremo individuare un vaccino. Infatti questa settimana ci saranno alcuni ricercatori della OSP, la…»

«La conferenza internazionale sulla possessione. Ci andrò anch'io.»

«Davvero?» Ha contratto il viso in confusione, poi ha capito. «Per questo sei tornato questa settimana.»

«C'è un neurologo con cui vorrei parlare, Sunil Ram. Da Stanford, se non sbaglio.»

«L'ho già sentito.»

«Vorrei mostrarle una cosa.» Mi sono alzato e ho estratto alcuni fogli piegati dalla tasca interna della giacca. «Queste sono solo copie, ma ho pensato che potessero interessarle.»

Ha preso le copie e ha iniziato a sfogliarle lentamente. «Sono le tue risonanze cerebrali, presumo.»

«Il mio dottore di Colorado Springs mi ha fatto diverse risonanze mentre ero in ospedale.»

Ha alzato il viso bruscamente.

«Ho aggiunto dei commenti sui punti più interessanti» ho detto, passando oltre. «La conosce la teoria del dottor Ram sulla possessione? Guardi il lobo temporale destro.»

Mi guardava turbata. Ha dato un'altra scorsa alle pagine, poi me le ha riconsegnate. «Del, io non sono un neurologo. Perché non mi dici direttamente come le interpreti tu?»

Come le interpreti tu.

Ho ripiegato i fogli. «Non importa» ho detto. «È solo una teoria. Ognuno ha la propria teoria, no?» Li ho infilati di nuovo nella tasca della giacca, e mi sono rivestito.

«Del, sei stato ricoverato?»

«Ci stavo arrivando.» Sono rimasto fermo sulla porta. «Sono stato dentro per due settimane, che fatalità, erano esattamente quelle che copriva la mia assicurazione.»

«Siediti, per favore. Dimmi cos'è successo. Perché il dottore ti ha fatto ricoverare? Hai avuto comportamenti autolesionistici?»

«No. Sì.» Ho scosso la testa. «Non ho tentato nessuna overdose, se alludeva a questo. Non è per questo che mi hanno ricoverato.»

Ha atteso che continuassi.

«Se le dico una cosa, mi promette che non farà nulla?»

«Del, non posso farti una promessa del genere senza sapere cosa mi dirai. Hai paura che ti faccia ricoverare?»

Ho appoggiato la mano sul pomello della porta. «Mi dica se mi farà la ricetta.»

Ha battuto le palpebre a rilento. «Non posso farti una ricetta per un farmaco del genere, Del. Siediti e parliamone. Se mi spieghi cosa sta succedendo, e mi convinci di non essere un pericolo per te stesso o per gli altri, ci può anche essere una possibilità. Sei una persona forte. Se mi dici che hai il controllo della situazione, ti credo sulla parola.»

«Ho il pieno controllo» le ho risposto. «Quasi sempre.»

* * *

Stavo tornando verso Randhurst Mall quando, circa a metà strada, Lew ha accostato l'auto vicino a me. «Ehi bambolo, passo a prenderti più tardi{1}

Dietro di lui si stava formando una fila di macchine. Nessuno gli aveva ancora suonato. Sono salito al volo. «Urge una birra, un mega Italian Beef{2}, e un'altra birra.»

«E sai la parte migliore quale sarebbe? La birra.» Ha dato un colpo all'acceleratore, facendo sgommare le ruote, poi ha frenato cinquanta metri più avanti fermandosi a un semaforo.

Mi ha squadrato. «Se la terapia ti fa questo effetto, prenota subito anche per me.»

«Amra dov'è?»

«A fare spese. C'è questo posto che si chiama Container Store, dove vendono…»

«Reggiseni?»

«Pesce, però ottima risposta. La mamma ha detto che dobbiamo fare un salto dal droghiere.»

«Ce la fai a portarmi in città domani?»

Lew ha sgranato gli occhi. «Perché non ci vai in treno?»

«Non mi va di portarmi dietro tutta la roba per le stazioni.»

«Scusa, intendi quella sacca che ti sei portato? Sei proprio una mezza calzetta.»

«Mezza calzetta? Dici ancora 'mezza calzetta'? È verde.»

Ha attraversato l'incrocio, ma le macchine davanti a noi non si muovevano. «Cosa devi fare in città?»

«Devo vedere un po' di persone.»

«Quali persone? Tu non hai persone.»

«L'Istituto d'arte allora. Dove vai? Guarda che hai già passato la curva.»

«Chi, io? Io ho un senso dell'orientamento infallibile.»

«Pensavo che tornassimo verso casa.»

«Con questa macchina? Niente da fare, Delacorte.»

* * *

C'era un'auto strana davanti al garage: una Buick blu notte che sembrava lucidata di fresco. Abbiamo parcheggiato lungo la strada. Lew ha aperto il bagagliaio della sua auto con il telecomando ('Perché io posso'), e abbiamo portato le borse della spesa dentro casa.

In cucina c'era un uomo seduto di fronte a mia madre, ci dava la schiena. Sul momento non l'ho riconosciuto, ma poi si è girato e ci ha fatto un ampio sorriso. «Ma guarda chi c'è» ha esclamato.

«Salve, pastore Paul» ha detto Lew.

L'uomo si è alzato dalla sedia. Indossava dei pantaloni di tela, una polo da golf a strisce e un paio di eleganti scarpe di cuoio marroni che stonavano con il resto.

Mia madre è rimasta seduta, mantenendo un'espressione piacevolmente vuota.

Si è avvicinato prima a me. Le borse rendevano impossibile l'abbraccio, grazie al cielo. Le ho spostate leggermente e ho teso una mano. Lui l'ha stretta tra le sue. «Del, Del, Del.» Mi ha dato una pacca sul dorso della mano, poi mi ha afferrato le spalle. «Non ci posso credere. Sei identico a tuo padre.»

Non vedevo il pastore Paul dal funerale di mio padre. Mia madre aveva smesso di andare in chiesa quand'ero piccolo, ma mio padre si metteva il completo ogni domenica e si portava dietro Lew. Io restavo a casa a guardare la TV. Ero geloso di Lew, ma lui frignava così tanto per restare a casa che alla fine ero io a guadagnarci.

Improvvisamente mi sono ricordato di un programma che vedevo sempre. Lo trasmettevano solo la domenica mattina, si chiamava The Magic Door, o qualcosa del genere. La magia era data dallo schermo verde: c'era un ragazzo vero con una chitarra e un bizzarro cappello - una ghianda? - che magicamente si rimpiccioliva fino alle dimensioni di una marionetta. Il ragazzo passava attraverso la porta di un albero e si ritrovava in una foresta magica, cantando canzoni di cui capivo solo la metà delle parole. Solo alle superiori avevo scoperto che era un programma per bambini ebrei, e che il mini-ragazzo cantava in ebraico.

Il pastore si è avvicinato a Lew, salutandolo con la sua calorosa stretta di mano. Ricordavo quell'entusiasmo aggressivo. Pur non andando mai a catechismo, avevo avuto modo di conoscere il pastore Paul per le sue frequenti visite. Arrivava negli orari più strampalati - a metà pomeriggio del sabato, o a qualche ora dopo cena - e i miei genitori dovevano mollare quello che stavano facendo e preparargli il caffè. Se non mi vedeva si sentiva in dovere di chiedere dove fossi, e mio padre mi faceva rientrare dal giardino. Il pastore Paul mi riservava sempre mille attenzioni, chiedendomi come stavo, dicendomi quant'ero cresciuto, anche se magari mi aveva visto la settimana prima. Aveva la mania di scompigliarmi i capelli. Era l'uomo dello scompiglio.

«Allora ragazzi, che mi raccontate?» ha chiesto. «Del, tua madre dice che ti sei trasferito a ovest. Il Colorado. Ho sentito che è proprio un bel posto.»

«Al buio assomiglia molto all'Illinois.» La mia solita battuta.

Ha annuito, senza avermi realmente sentito. «Ci sono montagne stupende.»

Mentre Lew metteva via la spesa io e il pastore abbiamo iniziato a chiacchierare del nulla. Il più di quel nulla era monopolizzato dal pastore. Ogni volta che tentavo di rispondere a una domanda o di fare un commento, la sua attenzione si spostava subito a quello che doveva dire dopo.

Tempo cinque minuti ha detto che doveva scappare, e cinque minuti dopo l'ha ripetuto. Un poco alla volta ci siamo avvicinati alla porta d'entrata, dove si è rimesso il suo elaborato giaccone invernale e, continuando a parlare, ha chiuso lampo e automatici, premendo e fissando tutto a dovere. Mi ha torturato di nuovo la mano. «Ti ho pensato molto in questi anni» ha aggiunto. Quasi la stessa frase della dottoressa Aaron. «Sono contento di vederti bene.»

Per poco non sono scoppiato a ridere.

Mi ha battuto di nuovo sulla spalla. «Lo giuro, sei uguale a tuo padre. Sai, era un eroe della battaglia di Chosin Reservoir. Furono in pochissimi a sopravvivere.»

«Vero.» Non sapevo cos'altro dire. Non ricordavo che mio padre avesse mai parlato della Corea.

«Come dicevo sempre, era il classico uomo che volevi avere al volante del bus durante una bufera di neve.» Ha fatto un cenno di conferma con il capo. «Bene, ora devo scappare.»

Sono rimasto sotto il portico, congelandomi al vento, finché finalmente non l'ho visto salire nella sua Buick. L'ho osservato mentre si allontanava, quindi sono rientrato in casa e chiuso la porta.

«Quel tipo non mi piace» ho detto.

Lew ha riso. «Il pastore Paul? Ma dai, è un vecchietto simpatico.» Mia madre ha scosso la testa, corrugando il viso. «Che c'è?» ha chiesto Lew.

«Quante volte viene?» ho domandato.

Mia madre ha alzato le spalle e ha portato le tazze del caffè nel lavandino. «Una volta al mese. Forse ogni due o tre settimane.»

Lew ha fatto una risata divertita. «U-uuh, che si sia preso una sbandata per la vedova Pierce?»

Allora mia madre gli ha lanciato quell'occhiata che io e Lew chiamavamo la palla spiovente'.

L'ho seguita. «Cosa vuole? Ti fa piacere che passi a trovarti?»

«Non particolarmente.»

«E allora perché lo devi sopportare, scusa?»

«Fa soltanto il suo lavoro.»

«Che lavoro? Non fai nemmeno più parte della parrocchia. Vuole farti tornare?»

«Ah no.» La sua voce si era indurita. «Non metterò mai più piede in quella chiesa.»

Ho guardato Lew. Lew si è guardato le mani.

«Ah, ha chiamato il tuo amico Bertram» ha detto mia madre. Improvvisamente la sua voce era tornata normale. «Ha detto che deve assolutamente parlarti.»

«Bertram?» Non lo sentivo dai tempi della casa di cura. Come cavolo aveva avuto il mio numero di casa? Magari gli slan gliel'avevano trasmesso via radio.

«Ha detto che deve assolutamente parlarti. Ti ho scritto il suo numero sul calendario del frigo.»

«Senti mamma, se chiama ancora, digli che sono fuori, va bene?»

Mia madre ha lanciato un'altra 'palla spiovente', questa volta contro di me (per la gioia di Lew, dato che a quel punto eravamo uno a uno). Lei non mentiva a nessuno.

«Vi siete ricordati di prendere la panna acida?» ha chiesto.

Lew era già diretto verso la porta.