16

Erano le dieci e ventinove precise, quando Stanley Sinkiewicz fermò la sua Honda nel parcheggio del supermercato all'interno del centro commerciale di Green Lakes. C'erano altre sette macchine, esclusa la sua: più di quante si aspettava di trovare. Ma alcune, concluse poi, dovevano essere degli impiegati del supermercato. L'irregolare facciata del centro commerciale, buia e ancora vuota, si stendeva lungo il parcheggio per quasi trecento metri, bloccata e ancorata all'estremità nord dai due piani privi di finestre del grande magazzino. Soltanto il supermercato era illuminato. A intervalli regolari, nel parcheggio, era stato installato un gran numero di alti lampioni stradali, composti da svariati punti luce al vapore di sodio, ma nessuno era acceso. All'interno di alcuni spartitraffico erano state piantate delle palme, alte da un metro a un metro e mezzo e sorrette da assicelle di cinque centimetri per dieci. Stanley chiuse a chiave la macchina, e subito dopo si ricordò del bastone. Troy gli aveva detto di portarlo con sé, perché a suo avviso gli dava una certa aria distinta. Quello che davvero intendeva Troy, sospettava Stanley, era che lo faceva sembrare un inoffensivo e anonimo pensionato.

Stanley riaprì la macchina, recuperò il bastone, si abbottonò la giacca e si avviò con decisione verso le porte a vetri del supermercato, ripassando mentalmente le istruzioni di Troy. Per l'ennesima volta si scoprì a meravigliarsi di come Troy l'avesse fatto diventare parte integrante dell'operazione tenendolo allo stesso tempo lontano da ogni situazione balorda, e senza coinvolgerlo direttamente nella rapina vera e propria. Il supermercato chiudeva alle undici, ma come regola generale uno degli inservienti, o il vicedirettore, si piazzava nei pressi delle porte d'ingresso per lasciare uscire gli ultimi clienti e non farne più entrare di nuovi. L'incarico di Stanley era di entrare nel supermercato alle dieci e mezza e infilare nel carrello tutta una serie di articoli di poco conto, tirandola per le lunghe fino alle dieci e cinquanta o anche un po' di più, e mettersi infine in coda alla cassa.

"Se possibile" gli aveva detto Troy "e dev'essere possibile, cerca di essere l'ultimo della fila. Tanto, alle dieci e mezza sarà rimasta una sola cassa aperta. Le altre cassiere avranno già consegnato i loro vassoi e chiuso alle dieci e un quarto, a sentire James. Quindi, paparino, l'unica cosa che devi fare è perdere tempo. Se qualcuno che non avevi visto riesce a mettersi in coda dopo di te, fallo passare dicendogli che ti sei dimenticato una cosa".

"Che cosa?"

"Non ha importanza. Pane, carta igienica, qualunque cosa. Lascia il tuo carrello in coda, e non tornare fin quando non sei assolutamente sicuro di essere l'ultimo. Con un sacco di robetta piccola da conteggiare, e il carrello pieno, la cassiera ci metterà un bel po' di tempo a prepararti il conto. Quando vedrò che sei rimasto l'ultimo cliente nel supermercato, busserò alla porta. L'inserviente non mi farà entrare, chiaro, ed è allora che tu dovrai dire alla cassiera 'Quello è mio figlio. Mi sono dimenticato il portafogli a casa, ed è venuto a portarmelo'. Io farò vedere il portafogli all'inserviente. Davanti al tuo carrello pieno, e ad alcuni pezzi già battuti, mi faranno entrare".

"E poi che devo fare?"

"Quando griderò che si tratta di una rapina, basta che tu alzi le braccia come qualunque cliente con un minimo di sale in zucca, e sei pulito".

"Metti che più tardi la polizia mi chieda perché ho detto che eri mio figlio".

"Non devi preoccuparti di questo. Ma se te lo chiedono, di' loro che mi hai scambiato per tuo figlio. Sei vecchio - è evidente - e ti sei confuso per un attimo quando non hai più trovato il portafogli. Il fatto è, paparino, che non voglio tirarti dentro in alcun modo. Per questo ho escogitato questo metodo a prova di bomba: tu ci darai un aiuto, ma allo stesso tempo riuscirai a starne fuori. Però, se pensi che sia un compito troppo gravoso, dimmelo subito, che mi inventerò un altro sistema".

"No, no, Troy, sono sicuro di farcela. È solo che… be', cosa succede dopo la rapina? "

"Naturalmente non puoi scappare con noi. Te ne resti lì, e quando arriva la polizia fai un po' lo svanito e lo spaventato. Se puoi, evita di aprire bocca. Fa' finta di essere sopraffatto da quello che è successo, e di non ricordare le nostre facce. Poi, quando ti avranno lasciato un po' in pace, di' agli sbirri che eravamo mascherati e con dei guanti di plastica, ma che parlavamo come dei neri. È un'idea che prenderanno al volo. L'importante è che tu non cambi la tua versione dei fatti. Vedrai che alla fine ti lasceranno andare".

"Metti, ma è solo un'ipotesi, che mi chiedano perché ho fatto tutta questa strada per venire a fare la spesa a Miami, a Green Lakes, dal momento che abito a cento chilometri di distanza".

"Facile. Non te lo chiederanno, ma puoi sempre dire che eri venuto a Miami a vedere il panorama, e che ti sei infilato nel supermercato di Green Lakes perché i prezzi ti sembravano migliori".

"Non lo sono, Troy. Fare la spesa, a Riviera, costa molto ma molto meno".

"Cristo, paparino, ma gli sbirri mica lo sanno! Non ti faranno certo il terzo grado. Giri in giacca e cravatta, hai una casa e una macchina di proprietà. Sei al di sopra di ogni sospetto. Non riesci a capire come funziona questa cosa?"

"Credo di sì, Troy. Ma sono domande che mi vengono spontanee, e voglio fare tutto per bene, ecco".

"Farai la tua parte alla perfezione. Adesso togliti le scarpe, così James le lustrerà ben bene. Poi svuotati le tasche e da' tutto quanto a me. Ho già preso la roba di James, così che non possa essere identificato. Metti i tuoi traveller's cheque nella borsetta di Dale, laggiù sul tavolo. Li conserverà lei, tanto per stare tranquilli".

"Tranquilli per cosa?"

"Per qualunque imprevisto. Certe volte capitano degli imprevisti che nessuno è in grado di prevedere. A ogni modo, quando ti lasceranno andare - e non ci vorrà molto - tornatene qui a casa. Così potremo prepararci per andare a Haiti, la mattina dopo".

"Forse, Troy, sarebbe meglio se non venissi con voi. A Haiti. Subito, voglio dire".

"Cazzo, ti ho già comprato il biglietto".

"Puoi restituirlo alla tua partenza. Ne comprerò un altro io. Credo che per me sia meglio ritornare all'Ocean Pines Terraces, e raggiungervi più avanti. Maya potrebbe ripensarci, e se non mi trova finisce che chiama la polizia. Quelli si mettono a cercare me e poi trovano te e Dale. Invece, se rientro a casa telefono subito a mio figlio, e qualche giorno dopo gli dico che me ne vado in vacanza ai Caraibi. Posso sistemare tutto, sai. Se lascio la macchina nel vialetto di casa, sotto la tettoia, e dico ai vicini che parto per una vacanza, nessuno si metterà a cercarmi".

"Okay, paparino, se è così che vuoi fare. Io e Dale ti aspetteremo a Haiti. Nel frattempo, laggiù, affitteremo una casa. Una stanza sarà per te. Quando arrivi a Port-au-Prince, va' subito all'ambasciata americana. È lì che ti lascerò il nostro indirizzo. Oppure posso sempre chiamarti da Port-au-Prince e dirti a voce dove siamo".

"Puoi telefonare, da laggiù?"

"Ma certo".

"Ho già fatto staccare la mia linea. Forse è meglio se mi lasci l'indirizzo all'ambasciata. Come faccio a trovarla?"

"Prendi un taxi all'aeroporto e ti ci fai portare. Poi ti fai aspettare, sali a recuperare l'indirizzo e ci raggiungi. Se non abbiamo ancora trovato una casa, saremo al Grand Hotel Oloffson, che non accetta prenotazioni, ma ha comunque un mucchio di stanze libere a causa della situazione politica di Haiti. Vedrai che ci troverai facile, senza problemi. La gente tende a ricordare il volto di Dale".

E l'avevano chiusa qui.

Negli ultimi giorni, in casa, c'era stata una gran tensione. James era così apprensivo che gli bastava il minimo rumore per scattare come una molla, e Troy gli aveva dato un po' di soldi per andare a comprare del rum in una bottiglieria. Non mangiava quasi più, e la notte - invece di dormire restava seduto su quel divano gibboso a fumare una sigaretta dopo l'altra. Beveva il rum, Mount Gay, direttamente dalla bottiglia, senza neanche allungarlo con l'acqua. Alla fine crollava, ma sempre dopo mezzanotte. Una volta si era addormentato con la sigaretta accesa tra le dita, e Stanley se n'era accorto giusto in tempo. Di conseguenza, il vecchio aveva paura di andare a letto prima di James, e aspettava che si fosse addormentato sul divano.

Durante il giorno James non riusciva neanche più a dipingere, a causa di un gran tremito alle mani. Passava le ore a guardare i suoi vecchi quadri e a chiedersi cosa farne. Al momento di ricevere la sua parte, cinquemila dollari, avrebbe voluto filarsela dritto a New York, ma nella sua piccola Morris Minor non c'era spazio per farli entrare tutti. Tra l'altro l'aveva già riempita di vestiti e dei pochi quadri che c'erano entrati, e il suo piano era di guidare ininterrottamente fino a Valdosta, Georgia, e solo allora fermarsi a un motel. Alla fine si decise a chiedere consiglio a Stanley.

"Se fossi in te, James, lascerei qui i quadri vecchi e ci metterei una pietra sopra. Regalali agli Shapiro. D'altra parte sei in debito con loro, perché non gli hai mai curato il prato e il giardino. Tanto, dovrai iniziare gli studi da capo. Sta' sicuro che dopo qualche lezione non vorrai più neanche sentir parlare delle tue vecchie opere. Io la penso così".

"Sono una parte di me" disse James. "La sola idea di lasciarli mi fa star male".

"So come ti senti. Capitava lo stesso a me, quando avevo finito le strisce su una macchina nuova. Anch'io la vivevo come una parte di me, che in quel momento abbandonavo, per esporla all'attenzione del mondo intero. Ma tu sarai a New York, dipingerai quadri del tutto nuovi, e quelli vecchi ti ingombreranno lo studio e basta".

"Non avrò uno studio. Voglio solo affittare una stanzetta da qualche parte. Per dipingere userò lo studio della scuola".

"Quindi lascia stare quei dipinti, e cancellali dalla mente".

James annuì cupo e ammassò tutti i suoi quadri in un angolo del garage. Anche così, di quando in quando ci tornava e li esaminava con attenzione, come se li volesse mandare a memoria.

Dale si teneva occupata. Lavava, strofinava e cucinava: pasti semplici ma abbondanti, oltre a una gran quantità di torte. Per colazione metteva in tavola non soltanto uova fritte, ma anche bacon, salsicce e pancakes. Sfregava il pavimento in legno dell'appartamento, e vi passava la cera, poi puliva i vetri. Lustrava i mobili col Lemon Pledge, e l'appartamento odorava come una limonaia. A colpi di Bon-Ami e olio di gomito era riuscita a far sparire quasi tutta la muffa dalle piastrelle del bagno.

Troy aveva insegnato a James e Dale come prendere la mira e sparare. A James era stata riservata una Smith & Wesson 38, mentre a Dale una piccola calibro 25 semiautomatica, col manico in madreperla. James si era rifiutato di caricare la sua pistola. Ne avrebbe portata solamente una scarica, per la rapina: su questo era stato irremovibile, ma Troy aveva continuato a fargli fare pratica, senza proiettili, contro un bersaglio che aveva disegnato sulla porta del garage.

"Anche se non hai intenzione di sparare" diceva Troy "devi dare l'impressione di sapere quel che fai. È come con la doppietta. La gente deve pensare che sparerai. Dale, d'altra parte, ha bisogno di avere la pistola carica perché può avere la necessità di sparare dalla macchina per avvertire noi tutti, quando mi vede uscire dal supermercato. In questo modo, se qualcuno tenta di seguirmi, un colpo in aria avrà la forza di dissuaderlo".

Troy lubrificava e caricava la sua doppietta. Aveva comprato un giubbotto kaki da Sears, simile a quello di James, e ne aveva riempito le tasche di cartucce a pallini 00.

Certe volte taceva per ore intere. Sedeva in cortile, senza camicia, a rimuginare chissà cosa, senza muoversi, ad assorbire il sole come una spugna.

La sera, dopo cena, e dopo che Dale aveva finito di sistemare la cucina, Troy la costringeva a danzare per gli uomini. Doveva tenersi in allenamento, le diceva lui, così da essere pronta per il debutto nei night di Haiti.

Agli occhi di Stanley, Dale come ballerina non era poi gran cosa, ma era un'opinione che il vecchio aveva deciso di tenere per sé. Troy sintonizzava la radio su una stazione di rock, e Dale iniziava a ruotare su se stessa, in tanga e con il seno nudo che le ballonzolava in su e giù. Era goffa, inciampava spesso e non sembrava in sincronia con la musica. Ma Stanley era sicuro che il pubblico di Haiti non sarebbe stato così schizzinoso. Dopo tutto, la ragazza aveva un corpo coi fiocchi e, come aveva detto Troy, si sarebbe tenuta sul volto una maschera voodoo.

James, che andava ormai avanti a colpi di rum liscio, guardava Dale con aria truce e senza fare commenti. Una sera, reso euforico dall'alcol, volle mostrare a tutti come si ballava il limbo. Con Stanley e Dale a reggere una scopa, e la radio che sparava salsa a tutta palla, non faceva che dire "Più basso, più basso, fate il limbo come me!" Alla fine, riuscì a passare sotto il manico di scopa senza toccarlo, a meno di trenta centimetri dal pavimento. Ci provarono anche Troy e Stanley, ma non riuscirono a scendere sotto i novanta centimetri. Dale, che era un po' culona, non arrivò nemmeno all'altezza di Stanley e Troy. Il vecchio si era divertito a guardare James, ma al terzo tentativo aveva finito per farsi male alla schiena, e si era dovuto sdraiare.

Dopo quelle cene pesanti e le prove di ballo, tutti quanti se ne andavano a letto presto, eccetto James. Stanley sentiva la mancanza della sua TV a colori. Schiacciava ancora la pennichella pomeridiana, e non riusciva ad andare a letto troppo presto. Se ne stava sdraiato in veranda e sentiva Troy e Dale che facevano l'amore in camera da letto. Al termine, Troy spediva Dale a dormire con Stanley, perché non riusciva a riposare bene se c'era un'altra persona nel suo letto. Dale, spossata dall'ennesima giornata di fatiche domestiche, di ballo e di sesso, arrivava nella sua corta camicia da notte e si addormentava come un sasso. A volte, nel sonno, si rannicchiava addosso a Stanley, con un corpo così caldo da far venire in mente al vecchio uno scaldavivande a pieno regime. A questo punto, James era già ubriaco fradicio: blaterava con se stesso e gettava cenere di sigaretta sui pavimenti lustri di Dale. Le cose sarebbero andate meglio, pensava Stanley, al termine del lavoretto, con James a New York e tutti gli altri a Haiti. Non vedeva l'ora di fare quel viaggio. Dopo l'operazione, con Dale in convalescenza, lui e Troy avrebbero potuto vagabondare assieme per la città, soltanto loro due, a vedere questo e quello, e mangiare un po' di quel cibo creolo di cui tanto gli aveva parlato Troy. Ma proprio non poteva partire con loro subito dopo il lavoretto, non con tutte le cose che aveva da sistemare. A Detroit, se si lasciava la macchina all'aeroporto per una settimana o più, c'erano buone possibilità di non ritrovarla, al ritorno. Minimo spariva la batteria. Senza dubbio, all'aeroporto di Miami era la stessa cosa. E poi, c'era pur sempre la casa; avrebbe dovuto concordare con la banca il pagamento delle rate del mutuo, in sua assenza. E Stanley junior; il quale, se non fosse riuscito a rintracciare suo padre, ne avrebbe denunciato la scomparsa alla polizia. La cosa migliore da fare era tornare subito a casa, chiamare Junior e dire a lui e ai vicini che stava per andarsene in vacanza. Così poteva lasciare la macchina sotto la tettoia, raggiungere in autobus l'aeroporto di West Palm Beach, prendere un volo fino a Haiti e risparmiare dieci dollari al giorno di parcheggio. L'aereo per Haiti lo poteva prendere da West Palm così come da Miami. Inoltre, non sapeva per quanto tempo sarebbe stato via. In questo modo, se non gli fosse piaciuto stare laggiù, avrebbe potuto usare a suo comodo il biglietto di ritorno per tornarsene a Palm Beach.

A Troy non era andata tanto giù la sua proposta di rivedersi più avanti a Haiti. Stanley l'aveva capito dal suo modo di strizzare gli occhi. Avrebbe dovuto gestire le cose in modo da portare lo stesso Troy a fare quella proposta, proprio come faceva Maya con lui quando voleva ottenere qualcosa. Ma gli sarebbe passata, a Troy, non appena Stanley li avesse raggiunti…

Stanley spinse il carrello sul retro del supermercato, passando davanti a un inserviente molto giovane e foruncoloso che lavava il pavimento con uno straccio e fischiettava stonato. Il ragazzo indossava un farfallino nero, una camicia bianca a maniche corte e blue jeans. Un cartellino di plastica rossa, su cui era scritto RANDY in lettere bianche, era attaccato al taschino della camicia. Stanley si fermò al bancone della carne, che era già stata tolta e riposta nelle celle. I banchi frigo erano vuoti, e gli addetti alla macelleria se n'erano ormai andati. Passò alla gastronomia e iniziò a riempire il carrello di piccoli oggetti, presi a caso dagli scaffali: un vasetto di acciughe, uno di capperi, una scatoletta di ostriche affumicate, un barattolo di cipolline da cocktail, una confezione ovale di paté. Cercò le chiavi della macchina, in tasca; per un istante di panico pensò di averle lasciate nella Honda. Invece c'erano…

Stanley consultò l'orologio da polso. Le dieci e cinquantacinque. Aveva riempito il carrello fino all'orlo; era così pieno di cibi in scatola che si faceva fatica a spingere. Nello scomparto inferiore, poi, aveva infilato un'arancia, una mela, una patata dolce, un pomodoro, un cespo di cavolo e una confezione da sei di birra light Stroh's. Si diresse verso le casse.

Randy, il ragazzo che aveva visto lavare il pavimento, si era piazzato in prossimità della porta d'ingresso, ormai chiusa e con la chiave nella serratura. Il responsabile del turno serale, un uomo di mezza età con camicia bianca a maniche corte e cravatta di lana marrone, allentata, era nel gabbiotto senza soffitto che stava dietro il banco dell'assistenza clienti, assieme a un'impiegata dai capelli grigi in divisa bianca e azzurra.

Alla seconda cassa sedeva una donna, che stava battendo lo scontrino a una tipa ispanica, paffuta e in avanzato stato di gravidanza, che si era fatta tre isolati in macchina per venire a comprare un filone di pane cubano, una dozzina di uova, del latte scremato e una confezione di Fruitful Bran. La cassiera, giovane, bionda e riccioluta, con rossetto color porpora, eyeliner e guance troppo tinte, stava chiedendo alla donna incinta quanto tempo ancora le mancasse, quando Stanley si fermò proprio dietro il carrello della cliente. La cassiera lanciò un'occhiata al carrello stracarico del vecchio e lanciò un garbato mormorio di disapprovazione alla vista di tutta quella roba.

«Almeno un'altra settimana, dieci giorni» stava dicendo la cubana con una risatina «ma non è detto che ci arrivi» e prese la borsa della spesa. «Dipende da come gli gira».

Stanley prese il bastone dal carrello e se lo ficcò sotto l'ascella. Con la mano destra cominciò a tirare fuori gli oggetti dal carrello, uno alla volta, e a disporli sul bancone.

«'Sera, signore» disse allegra la ragazza. «Non è che sta aprendo un negozio per conto suo?»

«Faccio solo un po' di provviste» disse Stanley, senza alzare lo sguardo dal carrello.

Alla porta, Randy tentò di prendere alla cubana la borsa della spesa, ma lei sorrise e scosse il capo. «Ce la faccio benissimo, Randy» disse, sbirciando il nome sulla targhetta. «Lo sei davvero?»

«Cosa, signora?»

«Randy{4}».

«Sissignora» disse lui, aprendole la porta per farla uscire, e richiudendo subito dopo.

«Forse» disse Stanley «farei meglio a tirare fuori questa roba, per prima». Si chinò a prendere le sei birre. Nel rialzarsi, vide Troy alla porta che sventolava un portafogli e, da dietro il vetro, lanciava a Randy un sorrisetto famelico.

Seguendo alla lettera le istruzioni, Stanley si batté le tasche vuote. Sentiva il cuore in lieve fibrillazione, e provava una certa difficoltà a respirare. Si afferrò alla maniglia del carrello, in cerca di appoggio, e il bastone gli cadde sul pavimento.

«Quello alla porta è mio figlio» disse alla cassiera. «Ho scordato il portafogli a casa, con tutti i soldi dentro».

La cassiera, a questo punto, aveva già battuto ventotto dollari di merce, e il carrello era ancora pieno per due terzi.

«Per l'amor del cielo, Randy» disse all'inserviente «lascialo entrare».

Randy aprì la porta e fece entrare Troy. Prima che potesse richiuderla, Troy gli affibbiò una ginocchiata nelle palle.

Randy si accasciò sul pavimento, lamentandosi per il dolore e tenendosi l'inguine con le mani. James scivolò all'interno dalla porta non più chiusa, con un sacco dell'immondizia piegato in due nella mano sinistra e la 38 nella destra. Si era ficcato sulla testa un collant di Dale, e calza destra e sinistra gli pendevano sulla schiena come code di volpe. La pistola gli danzava nella mano guantata e, per un istante, stava quasi per cadergli a terra.

«Questa è una rapina!» proclamò Troy, estraendo il canne mozze da sotto il giubbotto. Sollevò il pianale del bancone dell'assistenza clienti per entrare nel gabbiotto.

James stava a metà strada tra Randy, ancora sul pavimento, e la seconda cassa. Secondo i piani, doveva puntare la pistola dapprima sulla cassiera, poi ruotare su se stesso e prendere di mira Randy. In preda alla paura e all'eccitazione, James attaccò a premere senza sosta il grilletto, e la pistola scarica ticchettava come una sveglia da quattro soldi.

La cassaforte era aperta, come aveva detto James. Quando Troy entrò nel gabbiotto affollato, il responsabile del turno di notte e la sua vice si erano già messi a mani in alto. L'uomo scalciò all'indietro e, col piede sinistro, fece suonare l'allarme appeso al muro. All'interno del negozio partì un colossale scampanellio, mentre all'esterno cominciò a lampeggiare una luce rossa, proprio sopra la porta d'ingresso.

Troy sparò al direttore nello stomaco, e sulla camicia bianca dell'uomo si allargò all'istante una chiazza rosso scuro, grossa quanto un pompelmo. Il sangue era molto più nero della cravatta marrone della vittima. I pallini gli uscirono dalla schiena per andare a imbrattare di sangue la donna al suo fianco, con una rosa ben più larga. La donna dai capelli grigi strillò una sola volta, allo sparo della doppietta, e i suoi occhi un po' sporgenti rotearono all'indietro. Le gambe le cedettero, così da farla cadere di traverso, svenuta, sul cadavere del direttore. Troy le ficcò le tozze canne nella nuca e sparò il secondo colpo, staccandole quasi la testa dal collo.

Poi ricaricò la doppietta e uscì dal gabbiotto, intascando le cartucce usate. Anche James riuscì a infilarsi la pistola in tasca, ed entrò a sua volta nel gabbiotto. Si inginocchiò accanto ai cadaveri, ebbe un sussulto, e iniziò a trasferire il danaro dalla cassaforte al sacco dell'immondizia.

Al primo rombo della doppietta, Stanley si era gettato a terra, strisciando verso la cassa più vicina. Allungandosi sul pavimento, le mani a coprirsi la testa, pensò che qualcosa doveva essere andato storto. Troy gli aveva detto che non vi sarebbero state sparatorie, ma il direttore doveva aver cercato di puntare un'arma su di lui. Dal momento in cui Troy aveva annunciato la rapina, la cassiera non si era mossa, se non per iniziare a tremare. Sul volto le era sceso un pallore verdastro, malgrado il trucco pesante, e attorno alle labbra color porpora le si era formato un sottile alone bianchiccio. Ai piedi le si allargava una vasta chiazza di urina. Vide Troy avanzare verso di lei con la doppietta tesa nella mano destra e socchiuse le labbra tremanti, ma dalla sua gola secca non uscì alcun suono. Troy si fermò a mezzo metro dalla donna e le sparò in pieno viso. La capigliatura bionda esplose in un ammasso di sangue e materia cerebrale. La cassiera cadde all'indietro e scivolò sul pavimento. Con la mano sinistra, Troy raccolse il danaro dalla cassa e lo ficcò nella tasca del giubbotto. Nel voltarsi per tornare al gabbiotto, vide Randy, di nuovo in piedi, che zoppicava il più veloce possibile verso il reparto latticini, in fondo al negozio.

Con un agile scatto, grazie alle sue nuove Nike, Troy raggiunse il ragazzo e gli sparò alla nuca. Randy cadde in avanti e scivolò sul pavimento appena lavato, dritto in una piramide di pesche in scatola alta quasi due metri. Le pesanti lattine volarono per ogni dove, gorgogliando sul linoleum marrone.

Stanley alzò la testa sopra il bancone, quanto bastava per vedere Troy che sparava a Randy. Al crollo della piramide, il vecchio si gettò carponi e filò come una scheggia verso le scaffalature disposte a U che ospitavano il reparto ortofrutta. Non c'era modo di nascondersi, ma Stanley cercò di addossarsi il più possibile a un grosso contenitore di patate White Rose.

«Prendi anche gli spiccioli, James!» gridò Troy sopra il frastuono dei campanelli d'allarme, già impegnato a ricaricare la doppietta.

«Presi! Li ho presi tutti!» urlò James, che uscì dal gabbiotto e s'infilò lateralmente nel passaggio del banco assistenza clienti. Il sacco era pieno di fasci di banconote tenute ferme da un elastico, ma i rotoli di moneta - mezzi dollari, quarti, pezzi da dieci e un centesimo - lo rendevano molto più pesante del previsto. Troy alzò la doppietta, appoggiò la bocca delle canne al torace di James e fece fuoco. Poi raccolse il sacco e saltò sul bancone più vicino per controllare la situazione.

«I piani sono cambiati, paparino!» gridò. «È meglio che scappi con me, invece di restare qui. Dico sul serio, Pop! L'allarme sta suonando anche alla polizia, e io non posso restare qui ad aspettare le tue decisioni!»

Nessun segno di vita.

«Pop, diamoci una mossa. Forza!» Troy saltò giù e fece un passo verso il corridoio più vicino, quello dei cereali, ma si fermò subito. Il supermercato aveva almeno una dozzina di corridoi. Sul retro, c'erano due porte di servizio, aperte, che davano sul magazzino. «Cazzo» disse sottovoce.

Troy tornò sui suoi passi e si avviò verso la porta principale, con il sacco sulla spalla destra.

«Okay, paparino, ci vediamo a Haiti, e grazie dell'aiuto!»

Con qualche difficoltà, impacciato dalla doppietta, Troy riuscì a girare la chiave nella serratura. Aprì la porta e uscì nell'umidità della notte.

Al primo sparo, Ellita Sanchez era già arrivata alla sua macchina e stava aprendo la portiera. Gettò la borsa della spesa sul sedile posteriore contemporaneamente al secondo sparo, e tirò fuori dalla borsetta la 38 Chief's Special. Il tutto in maniera automatica, senza neanche pensarci; ma subito dopo, pistola in pugno, iniziò ad avere dei dubbi, gli occhi fissi sul negozio illuminato a giorno e sull'allarme che lampeggiava. Era in maternità, quindi a rigor di logica non poteva nemmeno considerarsi un agente fuori servizio. Non aveva radiotrasmittente. Forse doveva tagliare la corda, trovare un telefono e chiamare il 911. Come darle torto? D'altro canto, se quella che udiva sparare dentro il supermercato era una doppietta - e ne aveva tutta l'aria - non poteva certo saltare in macchina e andare via senza neanche scoprire cosa stava succedendo. Non dopo nove anni di servizio. Lo scampanellio dell'allarme era implacabile. Poteva almeno cercare di dare un'occhiata.

Ellita prese il distintivo dalla borsetta. Con quella patacca nella sinistra, e la pistola nella destra, caracollò a fatica verso le porte illuminate del supermercato. Vi furono altre due esplosioni. Ellita strinse più forte la pistola. Esitò, valutando un possibile riparo, proprio mentre la doppietta sparava per la quinta volta. Si inginocchiò dietro una palma appena piantata, a pochi metri da una Honda marrone con un portapacchi sul tettuccio. Da lì poteva tenere d'occhio l'ingresso. Un uomo abbastanza alto, con un sacco dell'immondizia e una doppietta a canne mozze, uscì di gran carriera dal negozio. La forte illuminazione alle sue spalle lo rendeva poco più di una silhouette. Impossibile distinguerne i lineamenti. La luce rossa continuava a lampeggiare, così che l'uomo pareva muoversi a scatti.

«Fermo! Polizia!» urlò Ellita, cercando di acquattarsi il più possibile dietro l'albero, e sparando un colpo d'avvertimento nell'insegna sopra le porte.

Il rapinatore sparò un colpo in direzione della voce, e si accucciò. Poi sparò di nuovo. Da quella distanza, la rosa dei pallini 00 si disperse con ampiezza smisurata, ma uno di essi prese Ellita in volto, e un altro le si infilò nella spalla destra. Ellita cadde sull'asfalto, mentre i pallini rimbalzavano sulla Honda, e tentò di incunearsi sotto la macchina senza successo. Viso e spalla, se li sentiva in fiamme. Tenendo ferma la pistola con la sinistra riuscì a sparare alla cieca tutti i suoi colpi verso il supermercato, malgrado stesse perdendo ogni sensibilità nel braccio destro.

Dale Forrest, che fino a quel momento era rimasta ad aspettare, a motore acceso, dietro l'angolo dell'edificio, fermò la macchina davanti alla doppia porta mentre Ellita stava ancora sparando. Una delle pallottole colpì il paraurti anteriore destro della Lincoln Town Car. Dal finestrino aperto, Troy gettò il sacco dell'immondizia sul sedile posteriore e disse a Dale di farsi più in là e lasciargli il volante. Dale gli sparò in volto con la sua 25, e Troy cadde di traverso sull'asfalto, mollando la doppietta e tenendosi la faccia tra le mani. Dale filò via, pestando sull'acceleratore con tale forza da imballare quasi il motore. Uscì dal parcheggio in un'ampia traiettoria circolare, immettendosi sulla statale 836 in direzione ovest.

Ellita avvertì le prime contrazioni di quello che temeva fosse un parto prematuro. Rotolò sulla schiena, mordendosi il labbro inferiore, proprio mentre veniva colta da due analoghe fitte di dolore che, partendo dalle reni, le circondavano la vita per andarsi a riunire sulla pancia. Non durò a lungo, e ben presto Ellita riuscì a mettersi in ginocchio. Vide una persona anziana uscire dal negozio, sorreggendosi a fatica a un bastone. Strisciò all'indietro nell'oscurità, non appena si accorse che il vecchio stava dirigendosi verso la Honda marrone. Nascosta com'era dietro la macchina, l'ometto non la vide. Ellita abbassò la testa. La sua pistola era scarica, ormai inutile. Dove cazzo era finita la borsetta?

Il vecchio salì in macchina senza accorgersi di Ellita. Si portò accanto al rapinatore ferito, ancora in ginocchio sul marciapiede, il volto tra le mani. Il vecchio scese, aiutò il ferito a salire sulla Honda e filò via. Raggiunta la statale 836, girò verso est e scomparve nel traffico.

Ellita entrò traballante nel supermercato, vide tutti quei cadaveri e si appoggiò al telefono pubblico per chiamare Bill Henderson a casa. Mentre gli spiegava l'accaduto fu colta da una nuova contrazione, e la rottura delle acque le rovesciò un'ondata di liquido giù per le gambe.

«Sono tutti morti, Bill. Tutti quanti. Comunque è meglio se un'ambulanza la mandi lo stesso. Io ho qualche piccola ferita, ma le doglie stanno arrivando, oddio, il bambino può nascere da un momento all'altro!»

E invece il bambino, un maschietto di quattro chili e trecento grammi, venne alla luce soltanto alle dieci del mattino dopo, al Jackson Memorial Hospital. Un nervo della spalla destra di Ellita era stato tranciato a metà, e un brutto foro le deturpava il volto. Lo zigomo destro era volato via di netto, appena sotto l'occhio, e nella guancia destra si erano aperti cinque centimetri di ferita slabbrata.

Il rapinatore con la calza in testa e la pistola scarica era morto sul colpo. Il suo complice, quello con la doppietta a canne mozze, aveva ferito Ellita Sanchez e ucciso quattro impiegati del negozio per un bottino valutato qualcosa meno di ventimila dollari.