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Il sergente investigativo Hoke Moseley, del Dipartimento di Polizia di Miami, aprì la porta della sua casa di Green Lakes e guardò a destra e a sinistra. Poi, scalzo e a torso nudo, con addosso un paio di boxer cadenti, sfrecciò a raccogliere dal prato la sua copia del «Miami Herald». Alle sei di mattina non c'era un gran che bisogno di tutto questo pudore. I vicini erano ancora tutti a letto, e a est il cielo si stava appena tingendo di un grigio madreperla.

Il giornale lo consegnava tutte le mattine, alle cinque e mezza, un portoricano incazzoso a bordo di una Toyota bianca, il cui maldestro lancio dall'auto in corsa non andava mai a cadere sullo stesso punto del prato. Quel tipo della Toyota ce l'aveva ancora con lui, pensava Hoke le mattine in cui stava dietro la porta ad aspettare il giornale, perché gli aveva rispedito il biglietto d'auguri di Natale - già affrancato e con l'indirizzo - senza infilarci neanche cinque dollari di mancia.

In cucina, Hoke strappò il viscido involucro trasparente del giornale, ne fece una palla e la gettò nel traboccante sacchetto per la spesa che fungeva da bidone dell'immondizia. Lesse il primo paragrafo di tutte le notizie di prima pagina. Un altro ostaggio americano era stato ucciso da un dirottatore sciita in Libano. La nuova tariffa della Metrorail sarebbe (forse) salita rispettivamente a un quarto di dollaro, mezzo dollaro o un dollaro, ma il nuovo piano tariffario avrebbe (forse) tenuto conto della distanza percorsa dal viaggiatore. Un haitiano diciottenne, appena diplomato alla Miami-Norland High School, era miracolosamente riuscito a ottenere un posto alla US Air Force Academy, e il deputato che gli aveva fatto avere quel posto aveva appena scoperto che il ragazzo era un immigrato clandestino rinchiuso al Krome Detention Center e in attesa di espulsione. Questo episodio fece venire in mente a Hoke l'insulsa battuta che il comandante Bill Henderson gli aveva rifilato il giorno prima al bar della Centrale di Polizia.

"Come fai a capire se un haitiano ti è entrato in giardino?"

"Non lo so".

"Il tuo albero di mango è tutto scorticato e il tuo cane ha preso l'AIDS".

Hoke non aveva riso. "Non sa di niente, Bill".

"Perché no? A me fa ridere".

"Mica tutti hanno un albero di mango in giardino, e mica tutti gli haitiani hanno l'AIDS".

"Quasi tutti".

"No, io non ce l'ho un mango, e neanche tu".

"Volevo dire l'AIDS. Quasi tutti gli haitiani hanno l'AIDS".

"Non è vero. Credo che la percentuale sia attorno allo zero virgola cinque per cento".

"Ma vaffanculo, Hoke". Henderson si alzò e uscì dal bar senza neanche finire il caffè.

La sua reazione allo squallido umorismo di Henderson era un altro indizio, ma Hoke non ci aveva fatto caso, e neanche Bill Henderson. Di solito, quando Bill raccontava una delle sue storielle, Hoke minimo ridacchiava e diceva "Questa è buona" anche quando si trattava di una battuta fuori contesto che Bill aveva fregato pari pari da un monologo di Johnny Carson.

Ma era più di una settimana che Hoke non sorrideva, e quasi un mese che non si era più fatto una bella risata.

Hoke rovesciò una dose abbondante di Grape-Nuts in uno scolapasta di plastica e fece scorrere acqua calda sui cereali, per ammorbidirli e riuscire a mangiarli senza mettersi la dentiera. Quando gli parvero abbastanza morbidi, li mise in una ciotola e vi versò sopra del latte ad alto contenuto di panna. Poi aggiunse una banana a fette, versò sulla miscela una bustina rosa di dolcificante Sweet 'n Low e portò il tutto, giornale compreso, in veranda.

Le veneziane della veranda erano aperte su tre lati, e dal lago entrava una brezza calda e umida. Il lago - quadrato, verdastro, lattiginoso - era stato a suo tempo una cava di ghiaia. La parte posteriore di tutte le case, in quella zona di Miami chiamata Green Lakes, era rivolta verso il lago, ma non tutti i proprietari o gli inquilini avevano verande chiuse con vetrate come quella di Hoke. Alcuni avevano pedane in redwood, altri si erano accontentati di un patio in cemento e di un barbecue. Eppure tutte le case di Green Lakes erano state costruite sulla stessa identica falsariga. Fatta eccezione per il colore con cui erano state dipinte o ridipinte, e l'aggiunta di qualche tettoia per la macchina, la differenza era davvero minima.

Hoke si sistemò a un tavolo di ferro battuto e dal piano in vetro, su una sedia da esterni di quelle intrecciate, per poi accorgersi di essere senza cucchiaio. Tornò in cucina a prenderne uno, si sedette di nuovo al tavolo e a colpi di gengive masticò lentamente i Grape-Nuts e i pezzi di banana, leggendo allo stesso tempo la pagina sportiva. Ron Fraser, il coach della squadra di baseball dei Miami Hurricanes, l'uomo che li aveva condotti alla seconda vittoria nella World Series universitaria di Omaha, dichiarava che tempo tre o quattro anni avrebbe deciso se ritirarsi oppure rinegoziare un nuovo contratto. Deve essere dura per un giornalista sportivo, pensò Hoke, scrivere qualcosa di nuovo tutti i giorni anche quando non c'è proprio niente da dire.

Poi attaccò a leggere Doonesbury, che si faceva beffe della decisione di Palm Beach di obbligare i lavoratori non residenti sull'isola a munirsi di una carta d'identità. All'istante, Hoke si sentì sopraffare da un'informe sensazione di nostalgia. Palm Beach era proprio di fronte all'insenatura di Singer Island, e in nessun altro luogo Hoke avrebbe voluto trovarsi, in quel momento, se non a Singer Island. Non tanto nell'enorme casa di suo padre - quattro camere da letto - sull'intercostiera di Lake Worth, quanto in una camera d'albergo o di motel di fronte al mare, dove nessuno potesse trovarlo e obbligarlo a leggere i quindici nuovi rapporti sui quindici nuovi casi, con allegati quindici rapporti supplementari: i cosiddetti supps, come li chiamavano al dipartimento.

Hoke scosse il capo per schiarirsi le idee, guardò i tabellini degli incontri e scoprì che i Cubs avevano mollato un'altra partita ai Mets: al meglio dei tre incontri ne avevano persi tre. Eppure i Cubs avrebbero dovuto battere í Mets ogni santa volta. Che accidenti avevano? Ogni stagione la stessa storia. A un certo punto si ritrovavano ad aver vinto tre o quattro partite più degli altri, ma s'infilavano in una sorta di crisi di metà stagione e a forza di perdere finivano per scivolare sempre più giù, più giù, più giù…

Dall'interno della camera da letto principale, Ellita Sanchez tirò all'improvviso le tende. Hoke si voltò appena e le fece un fiacco cenno di saluto con la mano destra. Ellita, ancora in camicia da notte - rosa, corta - e vestaglia di satin violaceo, gli restituì il saluto e un ampio sorriso. Poi si allontanò dalle porte a vetri, ondeggiando come una papera, per avviarsi verso il bagno che spartiva con le figlie di Hoke, Sue Ellen e Aileen, e con lo stesso Hoke, le volte che lui riusciva a trovarlo libero.

Il mattino era ormai spuntato, l'ennesima rovente e umida giornata di giugno a Miami. Era giovedì, ma poteva essere martedì o anche venerdì. In estate i giorni erano tutti uguali, caldi da scoppiare, con acquazzoni pomeridiani che non riuscivano a mitigare l'afa e, anzi, non facevano che peggiorare l'umidità. Ogni giorno Ellita Sanchez, all'ottavo mese di gravidanza e ormai in maternità a tempo indeterminato, preparava un bricco di caffè cubano, lo versava in un termos e lo portava a Hoke. Ne beveva in fretta una tazza assieme a lui, prima di tornare in cucina a friggere due uova all'occhio di bue e tostare quattro fette di pane cubano che poi sommergeva di margarina. Il medico le aveva detto di astenersi dal caffè fin dopo il parto, ma ogni giorno Ellita se ne beveva una robusta dose, almeno una tazza e quasi sempre due.

"Il mio bambino" aveva spiegato a Hoke "sarà mezzo cubano, quindi non vedo come una o due tazze di caffè possano fargli male".

Ellita non conosceva il cognome del padre del bambino. Di nome faceva Bruce; l'aveva raccattato una sera per una botta e via (la prima volta che faceva una cosa del genere, aveva detto a Hoke) e si era ritrovata incinta. Bruce, chiunque fosse, non sapeva che di lì a poco sarebbe diventato padre, e probabilmente non ci aveva neanche più pensato, a Ellita, dopo le due ore che ci aveva passato assieme nel suo appartamento di Coral Gables. Biondo, occhi azzurri, vendeva polizze d'assicurazione, venticinque anni: più o meno, questo era tutto ciò che Ellita sapeva di lui. Oltre al fatto che aveva due nei pelosi un paio di centimetri sotto il capezzolo sinistro. Ellita ne aveva trentadue, di anni, e non solo si era rassegnata a tenersi il bambino, ma non vedeva l'ora. Se era un maschio, l'avrebbe chiamato Pepe, come lo zio che era morto in una delle galere di Castro; e se era femmina, l'avrebbe chiamata Merita, come la zia - la moglie di Pepé - che ancora viveva a Cuba. Maschio o femmina, per Ellita non c'era differenza; bastava che fosse sano. Pregava solo che non avesse due nei pelosi sotto il capezzolo sinistro, nell'uno o nell'altro caso, ma era comunque disposta ad accettare la cosa, se quella era la volontà di Dio.

Quando le uova e il pane tostato erano pronti, Ellita li portava fuori, sul tavolo in vetro, e si sedeva assieme a Hoke. Con puntiglio, usando forchetta e coltello, separava l'albume dai tuorli appena cotti e lo mangiava per primo. Poi passava ai tuorli, uno alla volta, e se li infilava in bocca tutti interi, senza romperli. Uno spettacolo che Hoke quasi non tollerava di guardare, con quel liquido giallastro che filtrava tra i denti bianchi della ragazza. Ma non poteva certo rimproverarle questa disgustosa abitudine, perché Ellita pagava metà dell'affitto e metà delle spese della casa di Green Lakes. Ellita era la partner di Hoke alla Squadra Omicidi, e lo sarebbe stata di nuovo al termine della maternità, al suo rientro in servizio; di conseguenza gli unici suggerimenti o critiche che Hoke poteva darle erano come agente di polizia. Che lui fosse più alto in grado non aveva niente a che fare con la casa, con le abitudini culinarie di Ellita, col fatto che andasse a letto con gli orecchini o che si spruzzasse una bella dose di musk dopo essersi già fatta il bagno nel profumo Shalimar.

Non che Hoke andasse a letto con Ellita; non l'aveva mai fatto, né l'avrebbe fatto mai. Ellita era un agente investigativo assegnato a Hoke come junior partner alla Squadra Omicidi, e questo era quanto. Ma Hoke aveva bisogno di lei, in casa, e non soltanto perché non sarebbe mai riuscito ad accollarsi tutte le spese. Ellita gli era stata di grande aiuto, con le figlie adolescenti.

Era sei mesi che le ragazze abitavano da Hoke. La madre le aveva rispedite indietro perché si era trasferita da Vero Beach, Florida, a Glendale, California, per sposare Curly Peterson, un nero che giocava come battitore di riserva nei Dodgers. Sue Ellen aveva sedici anni, un lavoro all'autolavaggio di Green Lakes e il progetto di mollare definitivamente la scuola a settembre, alla ripresa delle lezioni, per continuare a pagarsi le rate mensili del motorino Puch che si era appena comprata. Aileen di anni ne aveva quattordici, dava una mano in casa e a volte faceva la babysitter nel quartiere, ma in autunno sarebbe dovuta tornare a scuola per completare l'obbligo. Anche lei voleva smettere di studiare. Entrambe adoravano Ellita Sanchez, e ogni mattina mangiavano uova fritte per imitarla. Hoke non poteva farci niente; qualunque cosa avesse detto, Ellita l'avrebbe presa sul piano personale, come una critica indiretta.

Hoke aveva discusso l'impasse con Bill Henderson, il suo partner precedente, e Bill gli aveva detto che l'unica era far colazione da solo, possibilmente prima che Ellita e le ragazze si alzassero dal letto. Se non le vedeva mangiare le uova, e se cercava di dimenticarsi l'intera faccenda, forse col passare del tempo avrebbe finito per non pensarci più. E Hoke aveva preso l'abitudine di fare proprio così. Se ne usciva a mangiarsi i Grape-Nuts in veranda, e quando vedeva Ellita arrivare col piatto si versava una tazza di caffè per andarsela a bere in soggiorno, seduto a guardare il notiziario sulla poltrona reclinabile davanti alla TV.

Tanto, Hoke preferiva alzarsi comunque prima delle ragazze, così poteva andare per primo in bagno a farsi la doccia e la barba. Se si alzavano prima loro, l'attesa per il suo turno diventava interminabile. Un bagno non era certo sufficiente per quattro persone, ma era così che l'impresa di costruzioni aveva risparmiato sui costi quando, negli anni Cinquanta, aveva realizzato il complesso di Green Lakes, e c'erano famiglie ben più numerose di quella di Hoke che erano costrette a farselo bastare.

Ellita arrivò col termos del caffè, una tazza grande e una tazzina. Versò il caffè nella tazza per Hoke e nella tazzina per se stessa, e chiese cosa c'era di nuovo sul giornale.

«Non lo leggo più» disse Hoke alzando le spalle. Se ne andò in soggiorno con la tazza piena e sedette nella poltrona La-Z-Boy, senza accendere la TV.

Quando Ellita era entrata in maternità, due settimane prima, il maggiore Brownley, capo della Squadra Omicidi, aveva detto a Hoke che non gli avrebbe assegnato un sostituto.

Hoke aveva messo Ellita e un giovane agente investigativo di nome Teodoro Gonzalez (ribattezzato all'istante "Speedy" dagli altri colleghi della squadra) a seguire per suo conto i casi cosiddetti "freddi". All'inizio doveva essere un semplice incarico temporaneo, ma lavorandoci in tre avevano finito per risolvere una mezza dozzina di vecchi casi d'omicidio con una tale velocità che il maggiore aveva trasformato quell'incarico in definitivo, con Hoke come responsabile. Senza Ellita, e senza nessuno a sostituirla, Hoke poteva contare soltanto su Gonzalez - un giovanotto sveglio, certo, ma del tutto privo di senso dell'orientamento - per tutto il lavoro di gambe. Gonzalez si era laureato in economia alla Florida International University di Miami, e gli era bastato un anno di servizio come agente di pattuglia a Liberty City per farsi promuovere alla Squadra Omicidi come agente investigativo in borghese. Non che se la fosse davvero guadagnata, quella promozione; il fatto è che era un ispanico, e in più laureato. Era stato il suo sergente di pattuglia a Liberty City - nero - a raccomandarlo per la promozione, ma solo perché voleva levarselo dalle palle. Nonostante le piantine stradali sull'autopattuglia, e il semplice sistèma viario di Miami (le avenues vanno da nord a sud, le streets da est a ovest), Gonzalez aveva passato metà del suo anno di servizio a perdere la strada, incapace di scovare gli indirizzi cui lo spedivano. Gonzalez era pieno di buona volontà e un tipo alla mano, e a Hoke restava pure simpatico; allo stesso tempo, però, Hoke sapeva benissimo che quando lo spediva in giro a fare o cercare qualcosa, Gonzalez finiva regolarmente per buttare via mezze giornate. Una volta non era nemmeno riuscito a raggiungere l'Orange Bowl, anche se lo vedeva benissimo dalla superstrada, perché non era stato capace di trovare lo svincolo giusto.

Però Gonzalez aveva compilato la dichiarazione dei redditi di Hoke, facendogli ottenere un rimborso di trecentottanta dollari. Aveva anche compilato per conto di Ellita il modello 1040, e la ragazza aveva ricevuto centottanta dollari di rimborso invece di pagarne trecentoventi come si aspettava. Da allora, entrambi avevano sviluppato grande ammirazione per l'abilità matematica di Gonzalez. Hoke aveva scaricato su Gonzalez la responsabilità dei fogli presenza e dei calcoli del chilometraggio, e non avevano mai avuto problemi nel farsi rimborsare. A parte questo, tuttavia, Hoke non sapeva proprio cosa combinare con Gonzalez e con i quindici nuovi supps che si era ritrovato proprio il giorno prima tra la posta in arrivo.

Tutti questi supps riguardavano una nuova serie di vecchi casi che, secondo Hoke, erano troppo recenti per essere considerati spenti. In realtà si trattava semplicemente di casi difficili, ritenuti senza speranza dagli altri detective della squadra. Ma erano anche troppo recenti per essere senza speranza, come Hoke aveva scoperto il pomeriggio precedente. Gli era bastato dar loro una scorsa. Glieli mandavano per posta interna, perché il maggiore Brownley aveva affisso un avviso in bacheca che raccomandava a tutti i detective della Squadra Omicidi di trasferire i loro casi ormai freddi al sergente Moseley. Questi nuovi casi, assieme ai dieci che aveva già tirato fuori dai fascicoli arretrati perché offrivano qualche possibilità, non gli erano parsi senza speranza. Anche una prima, rapida lettura dei nuovi supps gli era bastata per capire che chi aveva svolto le indagini ne avrebbe ancora avuto, di lavoro da fare, prima di buttarsi quei casi alle spalle. Il risultato, pensò Hoke, era che quegli scansafatiche figli di puttana avevano trovato il modo di fare piazza pulita sulle loro scrivanie e rifilare tutto quanto a lui e a Gonzalez. Tutti i quindici supps avevano una targhetta gialla attaccata alla copertina del fascicolo, per indicare che si trattava di reati non soggetti a prescrizione: omicidi, violenze carnali, persone scomparse. Hoke si rese conto che la sua scrivania sarebbe diventata sempre di più la nuova discarica per tutti quei detective che avevano esaurito le piste di routine ed erano costretti a guardare i loro casi da nuovi punti di vista: un compito sgradevole e, soprattutto, non di routine. E ci stava pure, gli sovvenne con pessimismo mentre finiva il caffè e posava la tazza sul tavolinetto delle riviste accanto alla La-Z-Boy, che ne avrebbe trovato qualcun altro, di quei casi, nella vaschetta della posta, ora che arrivava in quel cubicolo al comando di polizia di Miami che gli serviva da ufficio.

Hoke smise di pensare a questa nuova idea. Poi smise di pensare del tutto, chiuse gli occhi e si lasciò andare contro lo schienale.

Le ragazze si alzarono. (Dividevano una stanza, mentre Ellita aveva la camera da letto principale e a Hoke era toccata quella piccola, un bugigattolo di due metri per tre che in origine avrebbe dovuto essere uno studiolo o un disimpegno, e che stava sul retro della casa, vicino alla veranda.) Andarono in bagno, fecero la doccia e si prepararono la colazione. Scambiarono qualche chiacchiera con Ellita, in veranda, ma non si azzardarono a disturbare Hoke, che avevano visto seduto in poltrona con gli occhi chiusi. Alle otto meno un quarto Sue Ellen baciò Hoke sulla fronte (e lui non parve neanche accorgersene) per poi inforcare il motorino e andarsene al lavoro, all'autolavaggio di Green Lakes. Ellita e Aileen lavarono e asciugarono i piatti, in cucina; alle otto, Ellita toccò circospetta la spalla di Hoke, gli disse che ore erano e che il bagno, se ne aveva voglia, era di nuovo libero. Ma Hoke non rispose.

Alle otto e mezza Ellita disse ad Aileen:

«Secondo me tuo padre si è riaddormentato in poltrona. Perché non lo svegli e gli dici che sono le otto e mezza? Che io sappia, deve andare al lavoro, perché ieri sera mi ha detto che oggi gli sarebbe toccato leggersi quindici nuovi supps».

«Sono le otto e mezza, papà» disse Aileen, passando la mano destra tra gli ispidi peli che ricoprivano le spalle e la schiena di Hoke. Ogni volta che le capitava l'occasione, ad Aileen piaceva il contatto tra i peli della schiena di Hoke e le sue dita.

Hoke non rispose, e lei gli dette un umido bacio sulla guancia. «Sei sveglio, papà? Ehi! Vecchio dormiglione, là dentro, sono le otto e mezza passate!»

Hoke non aprì gli occhi ma, dal suo respiro, Aileen capì che non stava dormendo. Alzò le spalle ossute e disse a Ellita, che si era messa a dividere in tre mucchietti i panni da lavare, che ci rinunciava a svegliarlo, suo padre. «Però è sveglio, sai» fece. «L'ho capito. Fa solo finta di dormire»:

Aileen indossava una T-shirt bianca con un hot dog di Mr Appetizer sul davanti, e un po' di tuorlo d'uovo le era caduto, a colazione, proprio sul wurstel marroncino. Ellita glielo fece notare. Aileen si tolse la T-shirt e gliela porse. Non portava reggiseno, e neanche le serviva. Era alta e segaligna, con un seno da adolescente e capelli biondi e ricci tagliati corti, alla maniera dei ragazzi degli anni Cinquanta. Vista da dietro, si poteva scambiare proprio per un ragazzo, anche se aveva lunghi orecchini d'argento, perché a Green Lakes anche molti maschi della sua età portavano orecchini.

Aileen tornò in camera a prendere una T-shirt pulita, mentre Ellita passava in soggiorno. «Hoke» disse «se non hai intenzione di andare in ufficio dimmelo, così chiamo e dico che non stai bene».

Hoke neanche si mosse. Ellita fece spallucce e andò nello stanzino di fianco alla cucina a infilare il primo carico nella lavatrice. Poi passò in camera sua a rifare il letto (le ragazze dovevano rifarsi il proprio), appese qualche indumento nella cabina armadio e porse ad Aileen un dollaro e mezzo per il pranzo. La madre di Candì Allen, una sua amica che abitava nell'isolato accanto, le avrebbe accompagnate entrambe alla Venetian Pool di Coral Gables, per poi andarle a recuperare alle tre del pomeriggio e riportarle a Green Lakes. Con il costume da bagno in una busta di plastica di Burdine's, Aileen uscì di casa dopo aver baciato di nuovo suo padre e avergli passato la punta delle dita sui peli della schiena e delle spalle.

Alle undici, visto che Hoke non si era più mosso - si era urinato addosso, e una chiazza umida si stava allargando sul cuscino di velluto marrone - Ellita si era preoccupata a tal punto da telefonare al comandante Bill Henderson, giù alla Squadra Omicidi. Bill Henderson, che era stato promosso comandante qualche mese addietro, era adesso il responsabile amministrativo della Squadra Omicidi, e tutte le scartoffie in entrata e in uscita dall'ufficio dovevano per forza passare prima dalla sua scrivania, perché lui decidesse cosa farne. Bill non era entusiasta di questo suo nuovo incarico, e neanche gli piaceva la responsabilità che comportava, ma l'idea di essere diventato comandante, quella sì che gli andava, oltre all'aumento di stipendio.

Ellita disse a Bill che Hoke era seduto in poltrona fin dall'ora di colazione, che si era pisciato nelle mutande e che non c'era verso di fargli riconoscere niente o nessuno, malgrado fosse sveglio.

«Passamelo un po'» disse Bill. «Ci parlo io».

«Non hai capito, Bill. Se ne sta seduto, e basta. Adesso ha gli occhi aperti e fissi sulla parete, ma non è che la sta guardando davvero».

«Che gli è preso?»

«Non ne ho idea, Bill. Per questo ti ho chiamato. So che oggi doveva andare in ufficio, perché ieri gli sono arrivati quindici nuovi supps e stamattina doveva leggerseli tutti».

«Digli» fece Bill «che gliene ho appena fatti avere altri cinque. Li ho dati a Speedy Gonzalez giusto cinque minuti fa».

«Non credo che gli farà un grande effetto, questa notizia».

«E tu diglielo lo stesso».

Ellita andò in soggiorno e disse a Hoke che Bill Henderson le aveva appena annunciato l'arrivo di altri cinque supps da studiare, in aggiunta ai quindici che aveva già mandato ieri.

Hoke non rispose.

Ellita tornò al telefono di cucina. «Nessuna reazione, Bill. Secondo me è meglio che dici al maggiore Brownley che c'è qualcosa che non va. Forse dovrei chiamare un medico, ma prima volevo parlare con te o col maggiore».

«Lascia stare i medici, Ellita. Vengo io a parlare con Hoke. Se non c'è nulla di tragico, e secondo me non c'è, posso coprire l'intera faccenda, e il maggiore Brownley non ne saprà mai nulla».

«Hai già pranzato, Bill?»

«No, non ancora».

«Allora non fermarti a mangiare lungo la strada. Ti preparo qualcosa io. Vieni subito, ti prego».

Ellita rientrò in soggiorno per avvertire Hoke dell'arrivo di Bill, ma Hoke non c'era più. E non era neanche in bagno. Ellita aprì la porta del suo bugigattolo e lo trovò a pancia all'aria sulla brandina da esercito. Si era tirato il lenzuolo fin sopra la testa.

«Ho detto a Bill che non ti sentivi bene, Hoke, e lui sta venendo qui. Se ti rimetti a dormire con il lenzuolo sul viso, senza un filo d'aria, finirai per svegliarti col mal di testa».

Il condizionatore era acceso, ma prima di richiudere la porta Ellita lo alzò al massimo. Il minimo andava benissimo per la notte, ma col sole che batteva proprio su quel lato della casa il pomeriggio avrebbe fatto troppo caldo.

Bill arrivò, tolse il lenzuolo dal viso di Hoke e parlò per una decina di minuti. Hoke continuò a fissare il soffitto senza rispondere alle domande di Bill. Henderson era un omone dai piedi enormi e dalla pancia prominente, con un sorriso brutale, a chiazze metalliche. Uscì dalla stanza di Hoke con la giacca a righine bianche e marroni piegata sul braccio sinistro. Si era tolto anche la cravatta.

Ellita aveva preparato due sandwich di insalata di tonno, oltre a riscaldare una lattina di minestra di pomodoro Campbell. Quando Bill entrò in cucina, gli sistemò il pranzo su un vassoio e gli chiese se preferiva mangiare in sala da pranzo o in veranda.

«Qua dentro». Bill spinse una sedia Eames sotto il tavolo bianco a piedistallo e si sedette. «Là fuori fa troppo caldo, senza aria condizionata. Alla radio hanno detto che oggi ci sarebbero stati trentaquattro gradi, ma mi sembra già più caldo di così».

Bill addentò il sandwich di tonno, reso dolciastro dai pezzetti di cipolla Vidalia, ed Ellita versò due cucchiai colmi di Le Creme nella minestra fumante del capo.

«Che è quella roba?» disse Bill accigliato.

«Le Creme. Trasforma una normalissima minestra in un piatto da buongustai. L'ho letto su 'Vanidades'».

«Quando mi hai chiamato, Ellita, ho pensato che forse Hoke stava solo scherzando, ed ero quasi pronto a prenderlo a calci in culo per averti spaventato. Invece c'è proprio qualcosa che non va».

«Stavo appunto cercando di dirtelo».

«Lo so. Ma sono ancora convinto che non dovremmo dir niente al maggiore Brownley. Non è che Hoke aveva problemi di stomaco, o roba simile?»

«No. Stamattina, quando gli ho preparato il caffè, stava benissimo, e aveva già letto il giornale».

Bill girò la minestra nel piatto. I globuli vellutati di Le Creme si sciolsero in minuscole palline rosacee. «Guarda, Ellita, non è che voglio spaventarti più di quel che già sei, ma… a proposito, com'è che va il bambino? Tutto bene?»

«Tutto a posto, Bill, non preoccuparti per me. Ho messo su cinque chili più di quanto mi aveva ordinato il medico, ma lui mica può saperle tutte. Mi aveva detto che avrei sofferto di nausea, la mattina, ma finora non mi è venuta neanche una volta. Che dicevi di Hoke?»

«La mia impressione è che si tratti di quello che all'epoca del Vietnam si chiamava 'sfinimento da battaglia'. Mi è capitato tante volte di vederlo, laggiù. Sono così tante le cose che ti si affollano in testa, quando sei a combattere, che alla fine il cervello va in corto. Ma non è un problema serio. All'epoca quei tipi li mandavano in ospedale, li avvolgevano in un lenzuolo bagnato, li tenevano a letto per tre giorni, e al risveglio gli era passato tutto quanto. Dopo di che li rispedivano in prima linea come nulla fosse».

«È una questione psicologica, vuoi dire?»

«Una cosa del genere, e pure temporanea. Non era un grosso problema, nell'esercito. In polizia, però, può diventarlo. Se il maggiore Brownley manda lo strizzacervelli del dipartimento a dare un'occhiata a Hoke, sta' sicura che quel che salta fuori nel referto non è 'sfinimento da battaglia', ma 'esaurimento nervoso', o 'crisi di mezza età', che andrebbe subito a finire sul curriculum di Hoke. Allora, invece di spifferarlo a Brownley, facciamo meglio a tenerci tutto quanto per noi. Ci penso io alle scartoffie. Possiamo concedere a Hoke trenta giorni di permesso non retribuito. La sua firma la so falsificare benino. L'ho fatto tante volte, quando lavoravamo assieme. Poi chiamo suo padre a Riviera Beach e lo convinco a prendersi Hoke in casa per qualche settimana. Se Hoke è a Singer Island, invece che qui con te, Brownley non avrà modo di venire a controllare».

«Non credo che il signor Moseley la manderà giù tanto volentieri, Bill. E tanto meno sua moglie, lo so per certo. L'ho incontrata una volta, quando lei e il padre di Hoke stavano per andare in crociera, è una di quelle tipe da alta società. Il prendisole che aveva addosso per salire sulla nave doveva essere costato almeno quattrocento dollari».

«Ma se lasciano la schiena nuda, i prendisole».

«Allora facciamo trecentocinquanta. Comunque mi aveva guardato neanche fossi un verme. Mi sa che non le piacciono le donne poliziotto».

«Al padre di Hoke i soldi gli escono dagli occhi. Ci parlo io, col signor Moseley, e potrà mandare il suo medico, a visitare Hoke. Delle visite dello strizzacervelli del dipartimento nessuno dovrebbe sapere niente, ma prima o poi c'è sempre qualcuno che canta. Questa faccenda di Hoke rientrerà, presto o tardi, ne sono certo, e se riusciamo a portarlo fuori città per qualche giorno nessuno si accorgerà di niente».

«E che dico alle ragazze?»

«Che Hoke si è preso una vacanza. Adesso finisco di mangiare e poi chiamo il signor Moseley dal tuo telefono ah, buona, la minestra, con questa roba dentro - così oggi pomeriggio puoi accompagnarlo lassù. Ce la fai ancora a guidare?»

«Ma certo. Vado a fare la spesa tutti i giorni».

«Affare fatto, allora. Prendi la Pontiac di Hoke. La tua, di macchina, è troppo piccola per lui. Puoi partire subito, appena ho chiamato il signor Moseley. Magari riesci a tornare giusto in tempo per preparare la cena alle ragazze. Altrimenti puoi sempre ordinare qualche pizza».

Ellita si mordicchiò il labbro inferiore. «Davvero pensi che Hoke riuscirà a rimettersi?»

«Senza problemi». Bill consultò il suo orologio. «L'una e un quarto. Se ti chiedono qualcosa, Hoke ha preso un mese di permesso non pagato, a partire dalle otto di stamani».

Mica l'aveva studiata in questo modo, Hoke, ma fu così che si ritrovò a Singer Island.