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Nel tempo che Troy Louden impiegò a tornare all'appartamento sopra il garage, Dale aveva già portato quasi tutta la cena in tavola. Dalla poltrona accanto alla finestra, Stanley osservava l'andirivieni dei suoi coinquilini. Troy arrivò reggendo una valigia Naugahyde con la mano sinistra e gli stivali da cowboy con la destra. Si fermò un istante e, a occhi chiusi, inspirò l'aroma del cibo fumante. Poi scomparve in camera da letto. Indossava una guayabera grigio scuro, calzoni kaki con la piega e un paio di scarpe sportive di pelle, nuove, con strisce trasversali color porpora.
Un momento più tardi, ricomparve sulla soglia della camera da letto e chiamò a sé James con un dito. James attraversò la stanza. «Digli che, quando vuole, la cena è pronta» gli sussurrò Dale.
James annuì, seguì Troy all'interno della camera da letto e chiuse la porta.
Stanley si alzò dalla poltroncina e ispezionò la tavola. «Certo che questa roba ha proprio un gran profumo».
«Sono le braciole di maiale» disse Dale. Era rossa in volto, i capelli umidi alle tempie. «Di solito le pepo ben bene e poi le passo nella pastella. Roba semplice, eh, uova e farina. Poi le friggo nel grasso del bacon. Di contorno, patate dolci caramellate con sopra qualche marshmallow, poi cime di rapa condite con aceto di vino, salsa di mele piccante e focaccine dolci al latticello. Adesso finisco di preparare la salsa al latte, e la cena è pronta. Nel forno c'è una torta di mele Mrs Smith per dessert. Il signor Louden si sta dando tanto da fare per tutti noi, e mi sembra giusto offrirgli una cena accettabile».
La tavola era apparecchiata per quattro, anche se piatti, tazze e piattini erano tutti scompagnati. C'erano solo tre forchette di metallo; Stanley vide che Dale ne aveva presa, per sé, una di plastica. Qualche minuto più tardi Troy e James emersero dalla camera da letto e si sedettero a tavola.
James era visibilmente nervoso. Nel corso della cena non fece altro che tormentarsi le orecchie, le labbra e le sopracciglia, finendo per mangiare una sola braciola. Troy fu largo di complimenti per la qualità del cibo, e le labbra enfie di Dale si torsero in una smorfia di soddisfazione.
«Avevo due fratelli e due sorelle» attaccò a dire la ragazza «e mamma ha insegnato a cucinare a tutti quanti. Diceva che alle ragazze sarebbe servito per trovare marito, e ai maschi per insegnarlo alle mogli, non appena sposati».
«Lasciamo stare la tua famiglia» disse Troy. «Già abbiamo la nostra, qui, anche se è piccola. Stiamo tutti ricominciando da capo, e il passato è passato. James, perché ti metti le dita nel naso a tavola?»
«È perché sono nervoso… sono… sono le cime di rapa, Troy» disse James. «Non mi piace l'aceto sulla verdura».
«Ti piaccia o no, le devi mangiare per forza. Altrimenti Dale si offende. E in America non ci si mette le dita nel naso. A tutti capita di farlo, di tanto in tanto, però è una faccenda privata, James, e bisogna stare attenti a non farsi vedere da nessuno. Ricordo, una volta, quando ero a Whittier, il riformatorio della Orange County, in California, che un ragazzo si stava infilando le dita nel naso, a tavola, e il tipo che gli sedeva accanto gli ha spinto a forza il dito dentro la narice, tutto quanto fino all'ultima falange. A quel ragazzo, il naso gli è diventato gonfio come un pallone, così in fretta che non è neanche riuscito a tirarlo fuori, il dito. Alla fine, la sorvegliante ha dovuto accompagnarlo in infermeria. Era una cosa buffa, e ne abbiamo riso tutti, però allo stesso tempo è stata una grande lezione di comportamento. Mai più, da quella volta, qualcuno si è azzardato a mettersi le dita nel naso, a tavola. Non è solo maleducazione, è anche un gesto antiamericano. Posso capire che tu, come straniero e uomo di colore, possa trovare strane certe nostre abitudini, James, ma dovrai adeguarti».
«Mi spiace» disse James. «Non lo faccio più».
«Quando sarai a New York» proseguì Troy «farai meglio a cercarti una stanza presso una famiglia americana, piuttosto che andare a vivere assieme ad altri baiani. In questo modo potrai apprendere le nostre usanze. Altrimenti, alla tua prima personale, te ne starai a gironzolare per la galleria d'arte con due dita nel naso, e nessuno comprerà i tuoi quadri».
«Non lo faccio più, Troy».
«Bene. Adesso mangia la tua verdura. A Whittier, se il piatto non era pulito ben bene, niente dessert. Potevi mangiare quello che volevi, ma una volta che ti mettevi qualcosa nel piatto dovevi arrivare in fondo».
«Mica l'ho messa io, la verdura, nel piatto» disse James. «È stata Dale».
«Le mangio io, le tue cime di rapa» si offrì Stanley. «A me piacciono».
«Se ne vuoi ancora, paparino» disse Troy «Dale te ne porterà altre. Però James deve ripulire il suo piatto».
James arricciò il naso e riprese a mangiare.
«Prendo la torta» disse Dale, alzandosi dalla sedia.
«Metti una pallina di gelato, sulla mia» disse Troy.
«Non ce n'è, di gelato» disse Dale dalla soglia, esitante.
«Allora mettici un pezzo di cheddar. Mi va bene anche il formaggio».
«Non abbiamo neanche il formaggio». Dale si coprì la bocca con una mano.
«Allora io salto il dessert. Portami del caffè».
Dale sparecchiò e servì la torta a Stanley e a James. Versò il caffè ai tre uomini e si ritirò in cucina. James mise tre cucchiaini di zucchero nel suo e lo girò rumorosamente. Il cucchiaino gli scivolò dalle dita e cadde sul pavimento.
«Forse non dovresti berlo, il caffè» disse Troy «se sei così nervoso».
James lanciò un'occhiata a Stanley, si leccò le labbra e riportò lo sguardo su Troy. «Non è il caffè, che mi rende nervoso. Ho paura di quel che vuoi farmi fare».
«Vuoi che ci mandi Stanley, al tuo posto? Una persona anziana per un lavoretto da ragazzi?» Troy scosse il capo e ritirò le labbra in una delle sue smorfie fulminanti.
«Di che si tratta, James?» chiese Stanley. «Magari posso darti una mano».
«Restane fuori, paparino». Troy levò una mano ammonitrice. «Hai già fatto abbastanza. Non voglio che tu sia coinvolto in questa faccenda, a nessun titolo. Te l'ho già detto. Io, James e Dale siamo quelli che otterranno i maggiori vantaggi, e quindi il lavoro sporco deve toccare a noi. Come capofamiglia e responsabile delle operazioni, sono io che devo prendere le decisioni sui compiti da assegnare a ognuno. Tu sei in pensione, è chiaro, e anche se rappresenti una parte importante della nostra famigliola - spero che tu lo sappia - sei anche il nostro ospite di riguardo. Ah, prima che me ne dimentichi, rieccoti le tue carte». Troy sfilò dal portafogli la Visa di Stanley, la tessera della previdenza sociale e una ricevuta gialla, piegata in due, e fece scivolare il tutto sul tavolo.
Stanley ripose carta e tessera, ed esaminò la ricevuta. L'intestazione recitava OVERSEAS SUPPLY COMPANY, INC. e l'indirizzo era una casella postale di Miami. In fondo al foglietto giallo, in corsivo, era stampato Se habla Espanòl. Il totale per "attrezzatura di seconda mano da caccia" ammontava a 1565 dollari, ma la suddetta attrezzatura non era indicata in dettaglio. Un punto metallico assicurava al conto la ricevuta della Visa di Stanley.
«Dove sta questo posto?» chiese Stanley. «La Overseas Supply Company».
Troy scoppiò a ridere. «Non è un posto, paparino. È un concetto. Oggi è una stanza al Descanso Hotel, domani può essere una casa di San Juan, Portorico. A tutti quanti, al giorno d'oggi, servono attrezzature da caccia».
Stanley non riusciva a seguire il ragionamento di Troy. Abbassò lo sguardo, piegò il conto e la ricevuta e li infilò nel suo portafogli.
«Ma come hai visto, paparino, non ho speso tutti i duemila dollari. Eppure sono riuscito a trovare lo stesso quel che volevo comprare, inclusi questi calzoni nuovi, un paio di guanti in pelle di capra, la camicia e le scarpe sportive. Gli stivali fanno un gran bell'effetto, ma quando c'è da correre non valgono una cicca».
Stanley si schiarì la voce. «Ci ho pensato su, Troy, e ho concluso che cinquecento dollari d'interesse sono davvero troppi. Visto che ne hai usati solo millecinquecento, riduciamo quest'interesse, che so, a centocinquanta».
Troy scosse il capo e sorrise a James. «Guardalo, James. Senza l'aiuto di Pop, saremmo ancora qui senza attrezzatura, e ci toccherebbe andare in giro per la strada a chiedere prestiti a strozzo, oppure a rapinare una mezza dozzina di bottiglierie. Niente da fare, paparino. Cinquecento avevamo detto e cinquecento saranno, sabato sera. Eppure, pensa un po', James, che ne trarrà molto più beneficio di te, se la sta facendo sotto per via di quel compitino che gli ho assegnato».
«Lo farò, Troy» disse subito James. «Non ho mai detto il contrario. È solo che ho un po' di paura, perché non mi è mai capitato niente del genere prima d'ora».
«Sono certo che lo farai» disse Troy, annuendo «perché è tuo dovere. Però non voglio vederti nervoso. Se può esserti utile, posso ripeterti da capo le fasi dell'intera operazione».
«Metti che non riesca a trovarne una. Cosa faccio?»
«Va bene, ricominciamo da capo. In primo luogo, ti accompagno in macchina alla stazione della Metrorail di Brickell. Tu la prendi, scendi alla stazione di Dadeland North, e te ne vai a piedi fino al parcheggio di Dadeland. A quell'ora di sera ci saranno almeno un migliaio di macchine, forse molte di più. Almeno una persona su cento si dimentica le chiavi della macchina nel quadro. È una di quelle che chiamano verità statistiche. L'ho letto sul giornale. C'era questa squadriglia di boy scout, un sabato mattina, che voleva fare una buona azione, e si era fatta stampare un bigliettino con scritto NON LASCIATE LE CHIAVI IN MACCHINA. INCITA AL FURTO. Insomma, avevano scoperto che quasi un quinto delle auto nel centro commerciale di Westchester avevano le chiavi nel quadro. Poi avevano lasciato il loro bigliettino sotto il tergicristallo, così i proprietari l'avrebbero trovato al loro ritorno. Così, se dici che non sei sicuro di trovare almeno una macchina su mille con le chiavi nel quadro, stai sparando un mucchio di stronzate. Potrei farlo anche da solo, e tempo un'ora me ne tornerei con una bella e grossa macchina, ma pretendo che tu lo faccia come parte del tuo addestramento. Del resto, io ho ben altro da fare. Dale non può andare, perché ha un viso fin troppo riconoscibile, anche se poi toccherà a lei mettersi al volante. Tra l'altro, proprio per via di Dale, dovrai trovare una macchina col cambio automatico. Lei, quelle col cambio manuale, non le sa guidare. Che altro ti avevo detto?»
«Avevi detto blu scura, o nera».
«Giusto. Ma qualunque colore scuro va benissimo. Basta che non torni con una macchina gialla o rossa, altrimenti ti rispedisco indietro. E non voglio cose tipo Blazer, roba tutta lustra e splendente di cromature e con le scritte bianche sulle gomme. Capito?»
«Sono pronto» disse James, alzandosi da tavola.
«Che stai combinando, Troy?» chiese Stanley. «Stai mandando James a rubare una macchina?»
«Sto cercando di tenerti fuori da questa faccenda, paparino. Davvero, dovresti tenerti buone le domande per quando sarà tutto finito. Ma la risposta è no. James non deve rubare una macchina. Deve semplicemente procurarsene una per la nostra operazione, che ci servirà la domenica mattina per andare all'aeroporto. Il proprietario ne verrà informato dagli addetti del parcheggio dell'aeroporto, e sarà mia cura lasciare una generosa somma a titolo di noleggio nel cassettino del cruscotto. Ti garantisco che ne trarrà vantaggio, il proprietario della macchina che finiremo per usare. Mi segui? Vedi che ti sto spiegando le cose che è bene che tu sappia, via via che ce le troviamo davanti».
Stanley annuì. «Sicuro, Troy. Solo che pensavo, da come l'avevi messa tu, che James avrebbe dovuto rubare una macchina, ecco tutto».
«Tra noleggio e furto c'è una bella differenza, paparino. Mentre io accompagno James a Brickell, vedi un po' se riesci a trovare qualche lama per seghetti da metallo, giù in garage. C'è una morsa, sul banco di lavoro di James, quello con i colori, e mi ricordo di aver visto una scatola di attrezzi, là sotto. Poi, quando sarò tornato, potrai darmi una mano».
Quando Troy e James furono partiti a bordo della Morris, Stanley andò in cucina. «È stata proprio una bella cenetta, Dale, e me la sono davvero goduta. Vuole che porti quel sacco di spazzatura in cortile?»
«No, lo faccio io». Piangeva. «Lei deve andare a cercare quelle lame. Quando Troy dice di fare una cosa, parla sul serio. Come facevo a sapere che voleva il gelato sulla torta? L'avesse detto, mi sarei procurata il gelato e anche il formaggio. Se lei sapesse quanti rifiuti ho dovuto subire in vita mia, signor Sinkiewicz, proverebbe una gran pena per me».
«Mi dispiace già un sacco la sua situazione, Dale. È per questo che ho prestato quei soldi a Troy».
«Le ho mai detto di quell'avvocato con cui ero andata a vivere a Coconut Grove?» Dale si asciugò le lacrime con le mani bagnate, e fu costretta a usare l'angolo asciutto di uno strofinaccio per togliersi il sapone dagli occhi. «Abitavo a casa sua da due mesi, capisce, e ormai ero convinta che fosse innamorato di me. Cristo, ogni mattina gli facevo un servizietto, prima che andasse in ufficio, e mai una volta che lui abbia avuto da ridire. Poi, una sera, era mezzanotte passata, arriva e mi fa 'Mettiti la giacca'. Io ero in camicia da notte, quindi comincio a vestirmi. 'No' mi dice lui 'solo la giacca'. Avevo questa giacca di pelliccia, un suo regalo, ma non me l'ero mai messa. Era un bel capetto, un lapin tinto, ma quando mai c'è bisogno della pelliccia, da queste parti? Insomma, me la metto sopra la camicia da notte, e mi infilo anche un paio di sandali. Non avevo né mutandine né collant, niente di niente. Solo la camicia da notte e la pelliccia. Montiamo sulla sua Mercedes, e lui fila verso il centro, Biscayne Boulevard, e a un certo punto ferma la macchina e mi dice di scendere. Nient'altro. Né una parola di comprensione, o un grazie. Nulla. Tutto questo dopo due mesi. Senza borsa, senza vestiti, senza soldi. Nulla. Per mia fortuna, appena lui se l'è filata via, si è fermata un'altra macchina, un assicuratore di Hialeah. Siamo andati in un motel sulla Settantanovesima, e da lì in poi sono rientrata nel giro. Ma la mia vita è stata un rifiuto dopo l'altro, e a volte ho paura di non farcela più».
«È fortunata ad avere Troy, adesso». Stanley le batté una pacca sulla spalla. «Sono sicuro che non voleva offenderla, con quella storia del gelato. Ha visto come ha costretto James a mangiare le cime di rapa. Questo dimostra quant'è attento ai suoi sentimenti, Dale. La prossima volta che prepara una torta di mele, saprà che deve procurarsi anche il gelato».
«Cerchiamo di essere ottimisti, eh?» Il sorriso storto e sdentato di Dale costrinse Stanley a girare la testa dall'altra parte. «Lei mi piace, signor Sinkiewicz, e sappia che se una volta o l'altra ha voglia di un po' di movimento, non ha che da dirmelo. Basta solo che Troy non sia in zona. Capito?» Allungò con garbo la mano verso l'inguine del vecchio, ma lui aveva battuto in ritirata giusto un istante prima.
«Meglio che scenda in garage a vedere se saltano fuori questi seghetti».
Sotto il banco da lavoro Stanley trovò una scatola metallica, che però era rimasta aperta, e gli attrezzi al suo interno, all'apparenza mai adoperati, erano rimasti a lungo esposti all'umidità e avevano finito per arrugginirsi. C'erano comunque una mezza dozzina di lame da seghetto, avvolte in carta cerata, e il seghetto - pur rugginoso - sembrava ancora funzionante. Il garage era ben illuminato da parecchie lampadine da centocinquanta watt. Una di esse, senza paralume, era sospesa proprio sopra il cavalletto di James, e gli consentiva di dipingere la notte. Stanley rimase a osservare i dipinti di James fino al ritorno di Troy, pensando che il ragazzo era fortunato a non avere bisogno di soggetti da ritrarre. Poteva dipingere notte e giorno, o in qualunque momento, e nessuno avrebbe notato una qualche differenza. Si chiese se all'Art Students League di New York l'avrebbero obbligato a dipingere qualche oggetto specifico. In tal caso, James se la sarebbe vista brutta.
Troy parcheggiò la Morris accanto alla Honda di Stanley. Stanley gli fece vedere le lame, e Troy salì di sopra per prendere dalla valigia quella che definiva la sua doppietta "nuova ma usata". Tornò in garage, bloccò l'arma nella morsa e ne segò via le canne, il più vicino possibile al bocchino. Poi invertì la posizione dell'arma nella morsa e segò anche il calcio. Impiegò molto più tempo a penetrare nel legno che non ad accorciare le canne metalliche. Il risultato fu un'arma dall'aspetto davvero strano. L'unico modo per sparare era impugnarla a mo' di pistola. A Stanley sembrava poco maneggevole.
«Non è che quell'ordigno ti salta via di mano, se fai fuoco?» chiese il vecchio. «Non mi sembra precisa nemmeno per andare a caccia di colombi».
«Guarda, paparino, che non ho nessuna intenzione di sparare, con questa. La caricherò a pallini 00. Se sparo a qualcuno, specialmente da distanza ravvicinata, gli faccio un buco grande come una palla. Ho segato le canne per farla sembrare proprio una lupara, e non una di quelle armi sportive che si vedono nei cataloghi tipo Sears. È un trucchetto psicologico, paparino. La gente associa le canne lunghe col tiro agli uccelli, e i canne mozze con i film di gangster. Così si prende paura, e non c'è bisogno di sparare a nessuno, basta sventolargliela sotto il naso. Se proprio devo sparare, sparerò al soffitto o roba simile, e mi porterò qualche cartuccia di riserva nella tasca della giacca».
«Ha davvero un'aria cattiva, e ormai per gli uccelli non è più buona».
«Era più precisa, o cattiva come dici tu, con le canne lunghe, paparino. Vedi che hai appena confermato la mia teoria? Io comunque non andrei mai a caccia di uccelli con una doppietta. La caccia alla selvaggina, di qualunque tipo, mi fa schifo. Sono assolutamente contrario. L'unica giustificazione possibile per la caccia è il doversi per forza procurare del cibo se ci si è persi nel bosco; allora si può anche sparare a un volatile o a un coniglio. Altrimenti, è solo crudeltà. Non sei d'accordo?»
«A me piacciono le quaglie, e su a Hamtramck avevo un vicino di casa che…»
«Neanche voglio sentirli, questi discorsi, paparino. Se ti vanno le quaglie, manda Dale al supermercato. Tutto quel che vuoi. Le allevano proprio a questo scopo, e puoi comprarle congelate di fresco. Tu non vai a caccia, vero?»
«No, io no, ma avevo questo vicino che…»
«Ti ho detto che non voglio saperlo. Dov'è Dale?»
«Ha lavato i piatti e poi è andata a farsi una doccia, credo. Ho sentito scorrere l'acqua, prima».
«Che te ne sembra di Dale, paparino, adesso che l'hai conosciuta e ci hai scambiato qualche parola?»
«Mi sembra una ragazza abbastanza a posto. Un po' troppo diretta, magari».
«Ti ha fatto qualche avance, in mia assenza?»
«Non saprei. Forse, un pochettino. Si sentiva mortificata perché non hai mangiato la torta di mele».
«È colpa mia, non certo di Dale. Bisognerà che faccia una lista delle cose che mi piacciono e non mi piacciono, così lei non commetterà più errori del genere. Non posso incolpare Dale per la mia sbadataggine. È così sensibile per via di quella faccia, paparino. La sua vita è stata un continuo rifiuto. Quindi, se si offre di farti una pompa, cerca di accontentarla. Altrimenti penserà che non ti piace».
«Certo che mi piace, Troy, ma sono tre o quattro anni che non faccio più una cosa del genere, e mi sa che a questo punto non ne avrei neanche la voglia. Ma se è rimasta qualche braciola di maiale, non mi dispiacerebbe un sandwich di carne fredda, prima di andare a letto».
«Splendido. Lo dirò a Dale, e vedrai che sarà felicissima di prepararti un sandwich, più tardi. Oppure, se preferisci, puoi mangiarti la mia fetta di torta con un bicchiere di latte caldo».
«No, meglio il sandwich».
La doppietta modificata era ancora nella morsa. Con una lima, Troy rifilò le bocche delle canne, che il seghetto non era riuscito a tagliare in modo regolare, e limò le schegge dal calcio.
James si infilò nel cortile a bordo di una Chrysler New Yorker grigioazzurra, e parcheggiò accanto alla Honda e alla Morris. Era una vettura di grandi dimensioni, che faceva sembrare minuscole le altre due. James suonò il clacson, una sola volta, e saltò giù dalla macchina come se stesse andando a fuoco. Si diresse verso di loro, torcendosi le mani.
«È successa una cosa terribile, Troy! E non sapevo cosa fare. Sono stato inseguito, se non avessi tagliato la strada a un camioncino, all'uscita di Miller, mi avrebbero beccato di sicuro!»
«Non è che hai portato qualcuno fin qui, eh?»
«No, ho controllato. Ma non volevo portare via anche il bambino! Non l'ho visto, là dietro, quando ho preso la macchina. A Dadeland c'era questa signora piena di pacchetti, sul marciapiede, ed è arrivata una tipa in macchina». James cercava di riprendere fiato. «Poi, quando la tipa è scesa per aiutare la vecchia, io sono saltato su e me la sono data a gambe. Le chiavi erano nel quadro, e il motore acceso. Tutt'e due le donne si sono messe a rincorrermi, e poi un taxi mi ha inseguito giù per Kendall Drive. Ho bruciato un semaforo rosso e anche lui ha fatto altrettanto. Mi è rimasto alle costole per tutto il tempo, da Palmetto a Miller…»
«Che bambino?» disse Troy, accostandosi alla New Yorker per spalancare la portiera posteriore. «Oh, cazzo» esclamò nel vedere un bimbo assicurato al suo seggiolino, sul sedile posteriore.
«Non ho guardato dietro, Troy. Non c'era tempo. Ho solo preso la macchina, perché in un secondo dovevo saltarci sopra e scappare via. Ha cominciato a piangere solo quando abbiamo imboccato Kendall Drive».
«È una bella automobile, James, proprio quella che volevo io, ma non ci serve a niente. Giù in città saranno ormai tutti a caccia di questa macchina. Cerco sempre di pensare a tutto, ma mi sono scordato di dirti di non rubare una macchina con un bambino dentro. Pensavo che tu avessi un po' più di cervello».
«Non l'ho visto» disse James. «Poi, quando il taxi ha cominciato a inseguirmi, non potevo certo fermarmi e scappare a piedi. Prima dovevo seminarlo».
«Cos'è?» chiese Stanley. «Maschio o femmina? Visto com'è fasciato e tutto…»
«Maschio o femmina non cambia un cazzo, paparino» disse Troy. «Maschio o femmina, lo rivorranno indietro, e tutti gli sbirri di questa cazzo di contea staranno già cercando una New Yorker come questa. Le chiavi sono ancora dentro, James?»
«Sissignore».
«Te l'ho già detto prima di non chiamarmi così, James. In questa faccenda siamo tutti uguali, e quindi non voglio più sentire queste stronzate, nossignore, sissignore. Ti ho soltanto chiesto se le chiavi sono ancora dentro».
James annuì e trattenne il fiato. Aveva la camicia zuppa, perché la sera era calda e umida. Grondava, in viso, come se l'avessero annaffiato con una canna.
«Va bene» disse Troy. «Andrò io a disfarmi di questa macchina e a procurarmene un'altra. Voi due andate di sopra, ma non dite niente a Dale del bambino. Le donne vanno fuori di testa, davanti a dei casini del genere. Non ho idea di quanto starò fuori, ma sappi, James, che appena torno dovrò punirti per questo tuo errore».
James annuì e si terse la faccia con le dita. «Non è tutta colpa mia, Troy. Sono cose che succedono».
«Capisco. E prenderò anche in considerazione il fatto che sei uno straniero con un visto da studente. Ma se non ti punisco in qualche modo, potresti commettere degli errori molto più seri. Ah, paparino, chiedi tu a Dale di prepararti il sandwich».
«Adesso non mi va».
«Quando vuoi».
Troy estrasse la doppietta dalla morsa, la caricò e si infilò qualche altra cartuccia nella tasca della guayabera. Poi saltò sulla New Yorker, fece retromarcia, sgommò e filò via dal cortile.
James andò a farsi una doccia e a infilarsi dei jeans puliti. Quelli vecchi, che indossava a Dadeland, si erano macchiati quando - inseguito dal taxi - si era pisciato addosso. Ne fece una palla e li portò, assieme ai sacchi della spazzatura, al bidone giù in cortile.
Anche Stanley si spogliò e, in mutande, s'infilò a letto, in veranda. Faceva troppo caldo per coprirsi con un lenzuolo, anche se la brezza che spirava dalla baia rendeva la veranda un po' più fresca del soggiorno. La luna era alta in cielo, e gli consentiva un'ottima visuale dalla finestra. L'enorme casa di due piani era come una massa minacciosa, dietro il cerchio di luce che eruttava dalle lampadine accese del garage. James, apparentemente esausto, si era addormentato sul divano del soggiorno, con solo i jeans addosso. Stanley non riusciva a chiudere occhio. Era preoccupato per Troy, che si aggirava per la città con quel bambino sul sedile posteriore. Se l'avessero beccato, l'avrebbero accusato di sequestro di minore, oltre che di furto d'auto. Troy avrebbe dovuto costringere James a riportare la macchina a Dadeland. Ma non era il suo stile; Troy aveva troppo senso di responsabilità per una cosa del genere, malgrado tutti i suoi difetti.
Dale, in camicia da notte, entrò nella veranda e sedette sul bordo del letto. «Le secca se mi sdraio qui con lei, signor Sinkiewicz? Fino al ritorno di Troy. Non riesco a dormire, tutta sola. Quello stanzone così enorme mi mette paura».
«No, non mi secca. Ma non mi stia addosso. Fa troppo caldo per queste cose».
Dale si raggomitolò tutta, mollò un sospiro e si addormentò. Le bastò un istante - e un setto nasale malconcio per mettersi a russare.
Erano passate da un pezzo le due quando Troy si infilò in cortile e parcheggiò una Lincoln Town Car blu scura accanto alla veranda posteriore della casa padronale. Stanley svegliò Dale e le disse di tornare in camera sua. Troy salì di sopra, svegliò James e gli sussurrò qualcosa che Stanley non riuscì a sentire. I due tornarono di sotto. Le luci del garage si spensero. Stanley riusciva a malapena a distinguere i due uomini che si dirigevano verso la Lincoln. Udì sollevare il baule della macchina, e poi abbassarlo di nuovo. Per qualche minuto, si accesero le luci della casa padronale. Dopo una decina di minuti, i due risalirono le scale del garage, in silenzio. Stanley finse di dormire. James tornò a dormire sul divano, e Troy entrò in camera da letto, chiudendo la porta. Adesso che Troy era tornato sano e salvo, Stanley non riusciva più a tenere gli occhi aperti. D'altra parte, perché doveva tenerli aperti? Per un attimo si chiese cosa fossero andati a fare, Troy e James, nell'altra casa, ma poi pensò che Troy avesse voluto fare una scenata a James per aver rubato la macchina col bambino dentro. Che importanza aveva? Come aveva detto Troy, se era necessario che Stanley lo sapesse, glielo avrebbero detto. Dopo tutto, lui in quella casa era un ospite, mica faceva parte dell'operazione.