Aprile trascorse senza infamia e senza lode (26). Eppure, era il mese del mio compleanno e dell’anniversario di matrimonio dei miei. Non ricordo che lo abbiano mai festeggiato, o che si siano fatti dei regali. Non ricordo neppure un bacio particolare in quel giorno, almeno non davanti a noi. Io, da parte mia, da qualche anno non festeggiavo più il compleanno. L’ultimo ad aver radunato la famiglia era stato quando avevo compiuto undici anni, e oltre ai fratelli di mia madre con cui ci vedevamo ogni domenica al pranzo preparato dalla nonna, c’erano le zie paterne, che venivano a trovarci solo per ricorrenze come quella. A un certo punto mia madre aveva cominciato a discutere con una di loro per questioni politiche a me incomprensibili. L’unica cosa che cercavo di decifrare era il tono e la violenza con cui si rivolgevano la parola. E i brevi silenzi. Quando per qualche motivo la discussione si fermava, poi, anziché scendere di intensità come speravo affinché alla festa di compleanno tornasse la calma, le urla riprendevano con maggiore virulenza. Ero rimasta lì, ad ascoltare, finché non compresi che quello scontro di parole non avrebbe mai avuto fine, mentre continuavo a non capire perché litigassero, visto che discutevano anche di cose non dette chiaramente, di vecchi rancori, e allora ero andata a rifugiarmi a casa della nonna. Avevo pregato, a quei tempi lo facevo ancora, chiedendo che a casa mia madre e la zia si rappacificassero: per piacere, Dio mio, fa’ che smettano di litigare, per favore, fallo per me. Era il mio compleanno, e non mi importava più di spegnere le candeline, né che mi avessero rovinato la festa degli undici anni, ma mi assillava il sospetto che la lite tra la mamma e la parte di famiglia che rimaneva a mio padre rovinasse tutti i miei compleanni a venire. In fondo la lite aveva a che vedere con me: se non avessi compiuto gli anni in quel giorno o se non avessi festeggiato, la zia non sarebbe venuta, mia madre non avrebbe discusso con lei, la discussione non avrebbe preso quella piega e nulla di orribile sarebbe successo, come invece stava accadendo.

Ma quel buon Dio non aveva fatto niente per aiutarmi. Le urla mi arrivavano così forti che mi sembrava di stare ancora nella cucina di casa mia anziché nella sala da pranzo della nonna. Restai calma, ferma in mezzo alla stanza, con le mani in tasca, a fissarmi le scarpe. Mi dondolavo avanti e indietro. Il gatto della nonna mi girava intorno, mi passava tra le gambe e si strusciava. Avevo voglia di dargli un calcio, non era il momento di venirmi a rompere le scatole, ma prendere a calci un gatto era una cosa da non fare e io, allora, non mi azzardavo a fare ciò che non si doveva fare. Finché, a un certo punto di quell’interminabile pomeriggio, il vociare si affievolì e la nonna comparve in sala da pranzo: “Vieni, che andiamo a spegnere le candeline”. La guardai ma senza riuscire a muovermi. “Vieni,” ripeté, fece qualche passo avanti e mi prese per mano. Attraversammo il cortile insieme ed entrammo in casa mia. L’aria mi sembrava irrespirabile. Se ne stavano tutti in piedi intorno al tavolo della cucina, in attesa che arrivassi io. Cantarono un tanti auguri in tono spento, le zie indossavano il cappotto e avevano le borsette al braccio; soffiai sulle candeline, loro applaudirono e poi se ne andarono.

Le sorelle di mio padre, le uniche parenti ancora vive dei pochi familiari che aveva avuto, non sarebbero tornate mai più. E io non avrei più sentito parlare della questione. Pensavo che una volta superato il brutto momento, mio padre avrebbe dato ragione a mia madre perché su tutto ciò che riguardava la politica loro stavano sempre dalla stessa parte. Ma come avevo intuito tra le urla, quel pomeriggio non si discuteva solo di politica, e qualcosa di quella litigata sarebbe rimasto ad aleggiare nell’aria, come una cambiale da pagare che non si poteva cancellare. Non sentii mai dire da mio padre: “Per colpa tua non vedo più le mie sorelle,” cioè per colpa di mia madre, non mia, quella la sentivo soltanto io. Ma potrebbe averlo detto. E comunque, nelle sporadiche visite che le sue sorelle facevano prima di quel compleanno, lui si faceva vivo soltanto verso la fine del pomeriggio, quando stavano ormai per andarsene, dopo aver trascorso ore con mia madre, mio fratello e me. Persino con la nonna. Se per lui fosse stato così importante, avrebbe potuto continuare a vederle fuori di casa, andando a trovarle ad Avellaneda, e pranzare con loro. Per giunta, mio padre era l’unico che avrebbe potuto fermare quella discussione accesa il giorno del mio compleanno. Lui avrebbe potuto farlo. Eppure, non lo aveva fatto. Per colpa tua non vedo più le mie sorelle avrebbe potuto voler dire che mia madre gli aveva fornito il pretesto perfetto per non doverle rivedere più. Ma nonostante ciò, il conto veniva presentato di tanto in tanto. E in particolare sotto Natale. A partire da quel mio undicesimo compleanno, mio padre smise di andare alle cene della Vigilia a casa della nonna. La versione ufficiale era che siccome non mangiava niente di quello che lei preparava per l’occasione, preferiva rimanere da solo a casa per poi comparire verso mezzanotte, quando le coppe erano piene di sidro per il brindisi. Era una scusa plausibile: lo sapeva l’intera famiglia che lui, al momento di mangiare, si inventava tutte le complicazioni possibili e immaginabili (27). Una scusa plausibile per tutti tranne che per me. Qualche volta gli avevo proposto di portarsi una bistecca da mangiare durante la cena natalizia, ma non l’avrebbe mai fatto. “Non ti preoccupare, sto bene così.” E poteva anche essere vero che a lui stesse bene così, e anche a mia madre, sempre considerando cosa significava per loro stare bene. Persino mio fratello, che già alle otto di sera cominciava a chiedere quando arrivavano i regali, come se fosse la sua unica preoccupazione, sembrava ignorare l’assenza di papà. Ma io no, io non stavo affatto bene e non riuscivo a distrarmi con l’attesa dei regali. Passavo la Vigilia pensando a lui, da solo, a mangiarsi la sua bistecca rinsecchita in cucina, mentre tutta la famiglia – la nonna, il nonno, mia madre, mio fratello, gli zii e i cugini – rideva e mangiava stuzzichini e insalata russa. Allora, ogni tanto, trovavo una scusa per andare a casa e vedere come stava. E lui era lì, a masticare la sua bistecca bruciacchiata e ridotta a una suola di scarpa perché era quello il punto di cottura che preferiva, o fumava e gettava la cenere sull’osso spolpato e il grasso raggrumato nel piatto. Oppure guardava alla televisione un film natalizio già visto e stravisto. Serio, taciturno, rabbuiato, io entravo con il pretesto di cercare qualcosa e lui mi guardava aggrottando la fronte come se fosse arrabbiato anche con me. E di fatto lo era, ma non perché le zie se ne erano andate via quel giorno del mio compleanno per non tornare mai più, bensì perché mio padre era arrabbiato con il mondo intero e io ne facevo parte. Un mondo in cui a mezzanotte del 24 dicembre si levavano le coppe dicendo: Buon Natale!, allora, poco prima che questo succedesse, tornavo lì a prenderlo. Solo a quel punto si infilava un paio di pantaloni decenti e veniva a salutare la famiglia di mia madre. Brindava, mangiava un po’ di noci e mandorle, riceveva in regalo dei fazzoletti o la colonia Old Spice a seconda di cosa gli toccasse quell’anno, ma a malapena diceva qualche parola. E subito dopo salutava e andava a dormire.

Neanche nell’aprile del ’76 festeggiai il mio compleanno né i miei genitori il loro anniversario, ma almeno questo non era colpa dei militari. Invece, le riunioni per la rivendicazione del Monumento alla bandiera continuavano a seguire il loro corso senza alcun inconveniente. “Hanno solo scambiato qualche figurina con altre,” disse mio padre. Una volta esautorata Isabelita relegandola nella residenza ufficiale del Messidor, a La Angostura, adesso ci si preoccupava di come arrivare a Jorge Rafael Videla. “Non sarà difficile,” disse Bengolea, “anzi, al contrario, e me ne occupo io.”

Prima del solito, già verso la fine di aprile, ci fecero cominciare le prove per la marcia alla sfilata del 20 giugno intorno alla piazza e al monumento. Per tanti anni la sfilata in paese si era tenuta il 9 luglio, ma date le circostanze e su pressante richiesta della Commissione per la rivendicazione del Monumento, quell’anno tutti gli sforzi puntavano sul Giorno della bandiera. Ci portavano in strada praticamente tutti i giorni, scegliendo le vie poco trafficate dietro la scuola, e marciavamo per almeno un’ora. Prima ci mettevamo in fila per altezza, davanti le più alte e dietro le più basse. E poi ci dividevamo per quattro. Alla testa delle squadre si metteva una professoressa di educazione fisica che avviava la marcia guardandoci e, quindi, dando le spalle alla direzione di marcia, per poter correggere i nostri errori. Marcava il ritmo dei passi agitando un braccio in aria come se dirigesse un’orchestra. Prima marciavamo sul posto, senza avanzare. Alzavamo i piedi per posarli nello stesso punto. La professoressa ripeteva, all’inizio in tono dimesso: “Sinistr destr, sinistr destr,” senza pronunciare l’ultima a, finché non riteneva che fossimo pronte e allora partiva con “aavaaanti march!” e a quel punto ci muovevamo. Lei faceva qualche passo con noi per poi mettersi di fianco a controllare se le diverse file marciavano compatte. Se qualcuna di noi avanzava con la gamba destra quando doveva farlo con la sinistra o viceversa, la soluzione era un saltello che permetteva di cambiare piede e riprendere la marcia correttamente.

Anche durante le prove, una volta raggiunta una certa coordinazione, fingevamo che un albero, o il pilone di una casa, o un’auto parcheggiata fosse il palco delle autorità nel giorno della sfilata. Allora, quando passavamo davanti al palco immaginario, la professoressa gridava: “Sguaaardo al paaaalco!” e noi, senza smettere di marciare, giravamo la testa nella direzione indicata. “Non bisognerebbe portare la mano alla tempia?” chiese una volta una delle mie compagne. “No, noi no,” rispose la professoressa.

Infine, dovevamo imparare come svoltare, variando la lunghezza del passo a seconda della posizione che avevamo nella fila. Se la professoressa diceva: “Fiaaanco destr!...” allora quella che stava sulla destra marcava il passo sul posto, ruotando il corpo nella direzione indicata, mentre quella all’estremità sinistra allungava il passo facendo un semicerchio da sinistra a destra. Lo sguardo rimaneva sempre fisso sulla spalla della compagna per non perdere mai il contatto fisico. Finché tutte e quattro non ci ritrovavamo con la faccia nella direzione di marcia, ben inquadrate. E quando echeggiava nuovamente “aavaaanti march!” riprendevamo ad avanzare. Un giorno mi resi conto che non avevo mai sentito impartire l’ordine di “fianco sinistr”. In una pausa dell’addestramento andai a chiederlo alla professoressa. Ci pensò su per qualche secondo e poi rispose: “La svolta a sinistra non si fa quasi mai perché in piazza si marcia in senso orario, e le lancette dell’orologio vanno sempre verso destra”. Pensavo che la cosa sarebbe finita lì, ma dopo aver marciato per un altro paio di isolati, la professoressa ci fermò, mi guardò dalla posizione in testa alla fila, e gridò: “Fianco siniiistr,” e mentre giravamo in modo un po’ più goffo eseguendo quell’ordine mai impartito, lei mi lanciò un’altra occhiata.

“Chissà se verrà a vederci Videla,” mi disse Mónica mentre tornavamo a scuola dopo l’ennesima prova della sfilata. Non risposi. Proprio quella mattina a colazione mio padre aveva detto: “Non penserai mica di partecipare alla sfilata, vero?”. “Se non ci vado mi danno un’insufficienza,” avevo ribattuto. “Sai che novità, fessacchiotta,” aveva sbottato lui, “la resistenza, a volte, si fa con piccoli gesti,” ed era andato a chiudersi in bagno.