L’estate stava finendo. E con lei, la vendita dei turboventilatori. Mio padre cominciò a valutare le possibilità con cui affrontare i mesi intermedi fino all’arrivo della stagione di stufe e termosifoni. Anche se il caldo fosse continuato in autunno, nessuno avrebbe speso soldi per rinfrescarsi con temperature che, inesorabilmente e a breve, sarebbero calate.
Neppure per me e i miei amici la fine dell’estate coincideva con l’equinozio del 21 marzo ma arrivava prima, intorno al 15, quando l’imminente riapertura delle scuole segnava il termine della stagione in piscina. Contrariamente a quanto si potesse pensare, negli ultimi giorni andavamo al circolo di malavoglia, se la visita medica scadeva non la rinnovavamo, addirittura osavamo mancare qualche giorno, come se per la rabbia volessimo dimostrare che non ce ne importava più niente: se dovevano cominciare le lezioni che cominciassero una buona volta, avevamo la forza di sopportarlo. Sprecavamo interi pomeriggi a scegliere astucci e diari, a provare soprabiti e uniformi a seconda della scuola dove saremmo andati, a comprare scarpe nuove o a rattrappire le dita dei piedi per farli entrare in quelle dell’anno precedente, a foderare libri e quaderni. Alla fine arrivava il fatidico giorno e i nostri doveri scolastici ricominciavano un’altra volta. La soluzione sarebbe stata diventare grandi? Crescere avrebbe significato liberarcene e poter fare quello che volevamo? Ci guardavamo intorno e non ci sembrava che gli adulti l’avessero poi raggiunta tutta questa libertà.
Quando cominciavano le lezioni, era mia nonna che veniva a svegliarmi ogni mattina per andare a scuola; mio fratello, che entrava un po’ più tardi, lo svegliavo io prima di uscire. Dato che mia nonna non viveva con noi ma nella casa accanto, non poteva arrivare fino al mio letto e scuotermi dolcemente o parlarmi all’orecchio per svegliarmi, come supponevo facessero le madri con i propri figli. Lei passava da un varco nella siepe, attraversava il cortile di casa mia, raggiungeva la finestra e batteva con le nocche sulla persiana di legno che tremava contro il vetro, e se ne andava solo quando otteneva la mia risposta, avendo a quel punto la certezza che non mi sarei riaddormentata. Mia madre diceva che veniva a svegliarmi la nonna e non lei perché la sveglia che c’era in casa, quella che mio padre usava per cronometrarmi quando correvo intorno all’isolato, aveva la suoneria fuori uso. Una scusa che permetteva a mia madre di continuare a dormire fino alle undici del mattino. Non ci credeva neanche lei: comprare un’altra sveglia non sarebbe stata certo una spesa onerosa persino per una famiglia come la mia, che si aggrappava con le unghie e con i denti al ceto medio. Tutti sapevamo, invece, che la mamma aveva un problema con il sonno e che non consisteva nella classica insonnia, anzi, l’esatto contrario: dormire come un ghiro in qualsiasi circostanza. Conoscevo fin da piccola la vicenda successa un giorno a Mar del Plata, quando mamma e papà erano andati in vacanza con i nonni senza essere ancora sposati, in stanze separate, tutto offerto da mio padre che allora era un dirigente di banca di successo. Avevano discusso in spiaggia, come avrebbero poi continuato a fare per l’intera durata del matrimonio, e lei era tornata in hotel molto arrabbiata. Dopo un po’ erano rientrati tutti e a turno l’avevano chiamata senza ottenere alcuna risposta. Bussavano alla porta, ma mia madre non dava segni di vita. Si erano chiesti l’un l’altro se qualcuno sapeva qualcosa di lei, ma niente. Le ore passavano e alla fine, di comune accordo, avevano deciso di far aprire la stanza dal portiere. Impossibile, mia madre aveva lasciato la chiave inserita dall’altra parte. Qualcuno aveva buttato lì la frase: “Questa benedetta ragazza non avrà mica commesso una sciocchezza, eh?”. Allora avevano deciso di forzare la serratura. Neanche a quel punto la “benedetta ragazza” si era svegliata, dormiva placidamente senza aver assunto alcun sonnifero, era bastata la collera.
Per arrivare davanti alla mia finestra e bussare, la nonna doveva passare davanti a quella della cucina, dove ogni mattina mio padre, da sempre, beveva il mate, prima che fosse l’ora di svegliarmi. Nessuno si è mai preso il disturbo di spiegarmi perché non veniva a chiamarmi lui. E io non l’ho mai chiesto. Forse rispondeva a una distribuzione dei compiti nella loro coppia, espressa o tacita, secondo la quale svegliare i figli spettava a mia madre e, in sua assenza, l’incombenza se l’assumeva mia nonna.
Comunque, mio padre non era il solo a essere già sveglio. A quell’ora lo ero anch’io. La sua tosse interrompeva il mio sonno ogni mattina, la tosse di mio padre. Non appena metteva sul fornello il bricco dell’acqua, cominciava a tossire. Aspettava che bollisse standosene seduto al tavolo di formica verde e guardando la finestra davanti alla quale più tardi sarebbe passata la nonna. Tossiva via via sempre più intensamente. Prima si schiariva la gola, poi veniva la tosse secca finché, a furia di insistere, riusciva a staccare il muco. Tra tutte le sue maniere di tossire, era quella che più mi disturbava, perché mi faceva immaginare il catarro che saliva e scendeva nel suo petto. I colpi di tosse finivano inevitabilmente con uno scaracchio nel bagno della casetta di tre vani dove vivevamo. Tanti sforzi avevano come coronamento un po’ di quiete, il silenzio interrotto flebilmente dall’acqua in ebollizione e poi dal risucchio della cannuccia con cui beveva il mate.
Lo sapevamo tutti che mio padre tossiva tanto perché fumava due pacchetti di sigarette al giorno. A quei tempi dire “tossisce perché fuma” era una semplice constatazione, una spiegazione di causa ed effetto, ma non era ancora diventato un motivo di grave preoccupazione per i polmoni e la salute di chi tossiva. Mio padre fumava due pacchetti di sigarette al giorno però faceva ginnastica tutti i pomeriggi, giocava lunghe partite a tennis e vinceva, aveva un corpo muscoloso da fare invidia a tanti uomini più giovani di lui, quindi non c’era di che preoccuparsi, la sua salute era garantita. Negli anni a venire i medici ci avrebbero spiegato che compensava tanta nicotina con una progressiva dilatazione dei polmoni che gli permetteva di respirare senza apparente difficoltà ma che costringeva il cuore a lavorare il doppio del necessario. Se non di più. A cedere, dunque, nel giorno della sua morte, non sarebbero stati i polmoni ma il cuore (20).
Eppure, quell’estate che volgeva al termine, mio padre interpretava ancora il ruolo dell’uomo atletico, sportivo e sano. Fumava le Viceroy, e quando cessarono di produrle si rassegnò a passare alle L.M. Mia madre fumava le Jockey Club. Intuivo che vi fosse una sorta di dichiarazione di principio nel fatto di fumare sigarette di marca diversa, rifiutandosi di prenderne una dal pacchetto dell’altro perché “io non fumo quelle lì”. O piuttosto una dichiarazione di guerra, come tante altre fra loro. Io e mio fratello detestavamo vederli fumare. Mia madre fumava molto meno e mai davanti ai nonni, preferiva tenerglielo nascosto. Odiavamo l’odore di fumo che invadeva la casa, le cicche spente negli avanzi di cibo in un piatto o di caffè in una tazzina. Mio padre aveva il dito medio macchiato di nicotina. Ogni tanto usava inutilmente un bocchino con l’illusione di non peggiorare l’alone giallastro. Ma l’unica cosa che otteneva era di aggiungere ulteriori dettagli al rito della sigaretta e un oggetto in più in giro per casa. Io ho fumato una volta, di nascosto, nello stanzino della lavanderia. Presi una Jockey Club dal pacchetto della mamma, non mi sarei mai azzardata a farlo con quelle di mio padre, perché ero sicura che se ne sarebbe accorto soltanto a guardarlo. O guardando me. La fumai tutta, con disgusto, solo per dimostrare a me stessa che se volevo potevo farlo, e comprovare che non mi piaceva. Ed essere sicura che non avrei mai tossito al mattino né avrei avuto il dito medio di un color giallo ocra.
Poco dopo l’inizio della scuola, un mercoledì in cui mi ero svegliata un po’ prima del solito perché avevo il compito in classe di geografia e volevo ripassare fino all’ultimo momento, la nonna non bussò alla mia finestra bensì a quella della cucina, dove mio padre beveva il mate e tossiva. Il rumore era alquanto diverso, le nocche sul vetro facevano tutt’altro suono rispetto ai colpi secchi sul legno delle persiane. Eppure sapevo che era lei. Dal letto, immaginai mio padre che la squadrava stupito, alzando la testa per poi abbassarla con quell’espressione che intendeva dire: “Cosa vuole?”. Mio padre e mia nonna non si davano del tu neppure con i gesti. E immaginai anche lei che gli chiedeva con un cenno del capo di aprirle e lui lo faceva, perché sentii scricchiolare la sedia, spostarla sul pavimento, girare la chiave nella serratura, cigolare i cardini della porta.
Ma non riuscii ad ascoltare cosa dicesse la nonna né cosa rispondesse mio padre. Poi, la porta che si richiudeva, la sedia che grattava il pavimento. E un colpo, forse il pugno di mio padre sul tavolo, perché udii anche il tintinnio della tazza sul piattino. Hanno litigato, pensai. Ma perché, e poi già così presto? Mi stupii del fatto che, qualunque fosse il motivo, non venissero a svegliarmi per andare a scuola. Allora mi alzai e andai in cucina. Mio padre stava preparando il mate con una mano mentre con l’altra si strofinava la faccia. Non mi vide, io mi avvicinai. Sobbalzò. Non dissi niente, attesi un istante che mi raccontasse cosa era successo. Per due o tre volte parve sul punto di farlo, sospirava come se avesse deciso di raccontarmelo subito dopo. Ma le parole gli morivano dentro prima di arrivare alle labbra. O magari le uccideva lui. “Torna a dormire,” disse alla fine. “Niente scuola oggi?” chiesi, senza capire. “L’hanno fatto,” disse tra sé, “alla fine, l’hanno fatto,” e batté il pugno sul tavolo ma stavolta quasi senza forza, come se tenesse un ritmo, tre o quattro volte. Un colpo ripetuto, vacuo. Poi mi guardò e disse: “I militari hanno sbattuto fuori Isabelita”. Quindi, tornò a fissare il tavolo e versò l’acqua calda nel mate sebbene non avesse ancora bevuto quello precedente. L’acqua verdognola traboccò e si sparse sul ripiano di formica; mio padre non si preoccupò di asciugarla. Prima di tornare nella mia stanza, gli chiesi: “Ma a te Isabelita piaceva?”. “Mi piacciono ancora di meno quelli,” rispose.
Poi alzò la testa e lasciò vagare lo sguardo oltre la finestra, su quel terreno che la nonna usava ma che era di mio padre.