Fu una fortuna che mia nonna ascoltasse la radio tutte le mattine (21). Alcune delle mie amiche avrebbero saputo che quel giorno la scuola era chiusa solo al momento di arrivarci davanti, quando una suora le mandò via. “A casa, a casa, oggi niente lezioni,” diceva suor Lourdes in piedi sul portone per sbarrare l’ingresso. Ma non spiegava per quale motivo. Nonostante la frase laconica, le mie amiche non ritennero necessaria alcuna spiegazione per girare i tacchi e tornarsene a casa: se ti dicevano che la scuola era chiusa ringraziavi e non facevi domande. Soprattutto se quel giorno c’era il compito in classe di geografia e i fiordi svedesi erano troppo lontani rispetto a ciò che ci interessava in quel periodo della nostra vita. E quando qualcuna provò a domandare, suor Lourdes non chiarì, anzi, fu ancora più determinata: “Andate, andate a casa e chiedetelo ai vostri genitori,” e intanto agitava le mani, energicamente, i palmi rivolti alle alunne, come se le stesse spingendo indietro, e scuoteva la testa in un “no” che poteva assumere diversi significati: non chiedete, non entrate, non statemi addosso. Oppure, non mi piace quello che vi dovrei dire.

Ma alcune delle mie amiche non lo avrebbero saputo neppure una volta arrivate a casa. Se in famiglia non c’era l’abitudine di comprare un giornale, a differenza di casa mia, o di ascoltare la radio come faceva mia nonna, i genitori si sarebbero resi conto che era caduto il governo solo recandosi sul posto di lavoro o uscendo a fare una commissione. A casa mia, quel giorno, fin dalle prime ore alla radio si aggiunse il giornale: mio padre, dopo aver appreso dalla nonna che i militari avevano rovesciato Isabelita, andò all’edicola che era ancora chiusa e aspettò che aprisse. Quando lo sentii uscire lo seguii fino al portone, ero preoccupata che andasse in giro in un giorno come quello. E che lo facesse senza essersi neppure vestito, con addosso soltanto una vecchia maglietta e le mutande, così come lo aveva visto la nonna quando era andata a dargli la notizia. L’edicola era a pochi metri da casa, sul marciapiede di fronte, in diagonale. Dal portone potevo vederlo distintamente. Si era infilato un paio di pantaloni grigi. Teneva le mani in tasca; faceva oscillare lievemente il corpo avanti e indietro con un movimento involontario, quasi impercettibile, che avrei ereditato da lui nelle attese cariche di inquietudine o per noia; lo sguardo fisso a terra; la tosse, la sua tosse, di tanto in tanto. Non lo sentivo tossire, ma lo vedevo portare la mano alla bocca e sussultare, poi si puliva la mano sulla flanella grigia e la rimetteva in tasca. Quando il giornalaio passò frettolosamente davanti al portone di casa mia diretto all’edicola e mi salutò, mi sentii scoperta e rientrai di corsa.

Il colpo di stato avvenne all’alba di un mercoledì. Solo il lunedì seguente saremmo tornati a scuola. Le elementari avevano riaperto già dal venerdì. “Ritorno alla normalità,” dicevano i notiziari, ma i miei genitori non mandarono mio fratello a scuola quel giorno. Il fine settimana lo trascorsi in casa a guardare film alla televisione. Mio padre non andò a giocare a tennis come faceva di solito al sabato mattina. Quando qualcuno telefonò chiedendo di lui, mia madre rispose: “Ha il raffreddore”. Mio fratello dava calci al pallone sfidando un portiere invisibile. Tutti e quattro restammo chiusi in casa. Seguivamo i notiziari più di quanto non facessimo abitualmente. Il lunedì andai a scuola a piedi, come ogni altro giorno. Qualche isolato prima, mi raggiunse Mónica. Ci incontravamo quasi sempre a quel punto del tragitto, io passavo davanti a casa sua e suonavo il campanello, se non la trovavo già ad aspettarmi sul portone. Non ci eravamo mai messe d’accordo ma era diventata un’abitudine. Quel giorno, invece, proseguii e Mónica mi raggiunse a due isolati dalla scuola. Vedendomi, fece di corsa l’ultimo tratto. “Ti stavo aspettando,” disse. “Ho suonato ma non ha risposto nessuno,” mentii. Respirò a fondo un paio di volte per riprendere fiato dopo la breve corsa. “Hai sentito cos’è successo, no?” chiese dopo un po’, e io risposi di sì. Ma quando la guardai, Mónica sorrise e il suo sorriso mi fece dubitare che si riferisse alla stessa cosa a cui pensavo io. Allora aggiunse: “Finalmente si troverà in giro anche la carta igienica,” e quell’affermazione mi sconcertò ancora di più. Cosa c’entrava la carta igienica con il colpo di stato militare? Me lo chiesi seriamente, credevo di non aver capito per colpa mia, perché mi mancava qualche dato. Ma evitai di domandarlo a Mónica, non lo feci neppure nel corso della mattinata, quando avrei sentito parlare più volte della carta igienica.

Durante la ricreazione non notai nulla di diverso rispetto agli altri giorni. Formavamo capannelli e chiacchieravamo di ragazzi, di quello che avevamo fatto nel fine settimana, compravamo panini al salame o merendine Capitán del Espacio, a seconda di chi preferisse il salato o il dolce. Mentii nuovamente quando mi chiesero del fine settimana: siamo andati a trovare una zia, dissi. Ogni tanto qualcuno tirava fuori la questione di Isabelita spodestata, ma dai commenti delle mie amiche nessuna di loro manifestava la preoccupazione che aleggiava a casa mia, anzi, più che altro facevano battute ironiche. E nelle conversazioni comparivano altre cose che, come la carta igienica, finalmente non sarebbero mancate: olio, zucchero e ordine.

Mi rifugiai nel silenzio, come tante altre volte prima e dopo quel giorno. Allora non mi passò per la mente che forse c’era anche qualcun’altra che restava zitta. Credevo di essere l’unica diversa, quella che non rientrava nella norma. Io e la mia famiglia. Il silenzio mi proteggeva, mi faceva passare inosservata, mi metteva in salvo, ma al contempo mi pesava, me lo sentivo gravare sulle spalle rendendomi difficile andare avanti. Notavo che ogni tanto le mie amiche mi guardavano aspettando che dicessi qualcosa. Provai a farlo, ma non sapevo cosa dire. Loro avevano una speranza, secondo mio padre era la più sbagliata. Una speranza complice, anche se loro non lo sapevano. Io invece non avevo niente, niente da offrire in cambio. Mio padre detestava i militari, considerava Isabelita un’incapace, e le elezioni di qualche mese dopo non preannunciavano alcuno scenario possibile (25). Lui sapeva sempre cosa non voleva, però non offriva un’alternativa. Allora neanch’io ne avevo una per le mie amiche. Forse non c’era proprio. “Peggio dei militari non c’è niente,” diceva. E allora, niente. In certi casi essere intelligenti, come lo era mio padre, non si dimostrava un buon affare. Uno ha bisogno di convincersi che qualcosa andrà bene. “I militari metteranno ordine, finalmente,” diceva Mónica. “A me i militari fanno paura,” mi sarei sorpresa a dire in mezzo alle mie amiche, senza averci pensato o quasi. “Paura?” chiese lei in un tono che non sapevo se definire stupito o sprezzante. “Lo sai che disastri potrebbero fare i sovversivi se non ci fossero i militari a difenderci?” mi chiese, sebbene non sembrasse importante sentire la mia risposta quanto enunciare le sue convinzioni, ed ebbi la sensazione che a Mónica parlare di “sovversivi” la facesse sentire importante, come se in questo modo si dimostrasse più adulta di noi. O almeno di me, che non avevo ancora capito se “sovversivi” era una parola positiva o negativa, e perché a casa mia non li chiamavano così ma guerriglieri. “Non hai sentito che hanno messo una bomba in una scuola e hanno ammazzato un mucchio di ragazzi?” disse. “In quale?” chiesi. “In una,” rispose lei. “Sì, l’ho sentito anch’io, e non era in una sola ma in diverse,” intervenne un’altra amica. “Ce lo faranno fare lo stesso il compito di geografia?” chiese una terza, e tutte entrarono in aula.

Quando finiva la nostra ricreazione cominciava quella delle classi elementari. Di solito non ci incrociavamo, ma quel giorno il tempo scorreva più lentamente, e io andavo ancora più lentamente degli altri. Il fatto è che rimasi indietro e mi ritrovai tra i bambini di sesta che invadevano il cortile. Li accompagnava la signorina Julia. Vederla, mi causò una fitta allo stomaco. Scomparvero dalla mia testa Isabelita, la carta igienica e i sovversivi di Mónica che mettevano bombe nelle scuole per ammazzare ragazzini, e riaffiorarono il circolo, il campo da tennis e la canzone di Gian Franco Pagliaro. La sbirciai con la coda dell’occhio, preferivo evitare di salutarla. Sembrava assente, un po’ persa, costretta a compiere il proprio dovere mentre pensava a tutt’altro. Quando mi passò accanto non riuscii a tenere lo sguardo in basso. Anche la signorina Julia mi stava guardando, avvertii nei suoi occhi una certa complicità, come se lei e io sapessimo qualcosa che gli altri ignoravano, come se condividessimo un codice comune. In quel momento non capii e addirittura mi infastidì quella sensazione effimera, sentire che lei mi considerava dalla sua parte. La sua parte non era la mia parte, potevo associarla solo a mio padre e a quello che avevo visto quel pomeriggio sul campo da tennis. E con ciò che non avevo visto ma sospettavo. La lasciai andare con i suoi alunni e mi affrettai a entrare in classe prima che arrivasse la professoressa di matematica, sempre puntuale, pronta a riempire la lavagna di equazioni. Ma passando davanti alla sala degli insegnanti mi fermò la direttrice, una suora di rango superiore a quella che aveva fermato le mie compagne sul portone nel giorno del golpe militare o quella che ci vendeva i panini e le merendine durante la ricreazione. La direttrice stava uscendo; andando nella direzione contraria alla mia e, come se avermi vista le avesse salvato la vita, si fermò, si voltò e disse: “Corri a chiamare la signorina Julia e dille che c’è il marito al telefono”. Il marito. Lo feci, tornai in cortile, la raggiunsi e le dissi: “C’è suo marito al telefono”. E anche se morivo dalla voglia di chiederle se suo marito era ancora suo marito, o l’ex marito come si diceva in giro, e se quella telefonata poteva significare una riconciliazione, e in tal caso un sollievo per me, non dissi nulla. La signorina fece tornare gli alunni in classe malgrado le loro proteste e, senza che me ne rendessi conto, mi trascinò dentro con loro. Una volta in aula disse di prendere il sussidiario e di ripassare la lezione che poi li avrebbe interrogati, e quindi si rivolse a me: “Rimani un minuto qui a controllare la scolaresca,” e andò a rispondere al telefono. Non era un ordine, direi piuttosto una richiesta, ma in ogni caso non potevo rifiutarmi. E restai lì, in piedi, di fronte a trenta ragazzini di undici anni che erano arrabbiati perché la loro ricreazione era stata bruscamente interrotta. Non sapevo dove mettermi, se vicino alla finestra o alla lavagna, o restare semplicemente dov’ero, accanto alla cattedra della signorina Julia. E non riuscendo a prendere una decisione, rimasi lì e cominciai a dondolarmi avanti e indietro come faceva mio padre, finché uno degli alunni mi chiese di stare ferma perché il mio movimento lo distraeva. Arrossii, e non mi succedeva spesso, ma anche se non potevo vedere la mia faccia lo intuivo dalla vampata di calore sulle guance. Per darmi un contegno andai alla finestra e mi misi a guardare la strada dando le spalle alla scolaresca. Trascorso un tempo che mi parve interminabile, la signorina Julia tornò. Si vedeva chiaramente che aveva pianto, non tanto dagli occhi quanto dal naso, che ancora gocciolava. E quel pianto infranse le mie speranze di una riconciliazione con il marito che l’avrebbe allontanata da mio padre.

Tuttavia, pochi giorni dopo il marito della signorina Julia tornò nella casa in cui avevano convissuto. Non lavorava più in banca, e rimaneva sempre chiuso in casa. Addirittura qualche vicino dubitava che fosse davvero lì dentro. Fino a una sera in cui lo videro uscire.