4

L’eccitazione se n’era andata.

Aleksi puntò una somma spropositata sul nero e guardò girare distrattamente la pallina.

Vincere, perdere.

L’eccitazione se n’era proprio andata.

La bionda strepitosa al suo fianco manifestava la sua allegria con gridolini imbarazzanti, batteva le mani, lo baciava euforica, e Aleksi non riusciva ancora a ricordare il suo nome.

Dispensava falsi sorrisi, ricambiava i suoi baci in modo meccanico, beveva champagne senza sentirne il gusto.

Sono tornato! continuava a ripetersi.

La sua suite lo aspettava.

Il paradiso lo aspettava.

Perfino l’oblio.

Era più ricco di dieci milioni, e non riusciva a eccitarsi per la magnifica donna che teneva tra le braccia.

Ah, ma lui conosceva il proprio corpo, sul quale sapeva di poter contare. Come il tocco di Re Mida, non falliva mai. A lui piaceva dilungarsi nei baci e nelle carezze, affondare la faccia nel seno profumato di una donna, lambire, leccare, suscitare gemiti profondi...

Come diavolo si chiamava?

«Scusami un momento» mormorò, con un lieve accento russo.

Nel bagno, si strofinò a lungo le mani. Si sentiva confuso, stordito. Faticava a pensare con lucidità. Si sciacquò la faccia e si asciugò con vigore. Poi alzò la testa. Lo specchio gli rimandava l’immagine di sempre. Capelli neri, lucidi e folti, occhi grigi, pelle compatta, smoking d’ordinanza.

Allentò il cravattino, perché il sangue gli pulsava contro la gola.

Lui sapeva.

Non riusciva a ricordare fino in fondo, non metteva ancora bene a fuoco la notizia, ma lui sapeva qualcosa di importante! Qualcosa che riguardava molto da vicino la sua famiglia...

Era per quello che suo padre l’aveva picchiato da bambino, per ridurlo al silenzio, perché la verità poteva cambiare tutto!

E ora la verità era pronta ad affiorare da un momento all’altro.

Lo squillo inopportuno del portatile lo riportò al mondo scintillante in cui in passato si muoveva come un pesce nell’oceano.

Sullo schermo illuminato era apparso un nome.

Brandy.

Ecco come si chiamava la bionda.

Niente da fare.

D’impulso, Aleksi voltò a sinistra invece che a destra, e si ritrovò nella cucina del ristorante del casinò, ignorò gli esasperati tentativi di farlo tornare indietro. Al secondo squillo chiuse la comunicazione, e telefonò invece al suo autista.

«Porta a casa la ragazza, o dove diamine desidera» gli ordinò.

«Devo dirle qualcosa?»

«Niente.»

Aleksi spense il telefono, lo gettò in una friggitrice abbastanza profonda, lo vide scomparire nell’olio scuro, poi spinse una pesante porta e si ritrovò all’aperto.

Scese dalle scale antincendio, fece lo slalom fra i bidoni dell’immondizia, sbucò sulla strada principale e fermò un taxi.

«Dove andiamo?»

«All’aeroporto» rispose senza pensarci. Era quella la strada su cui si era schiantato contro un albero la sera dell’incidente. Correva come se avesse il diavolo alle calcagna, in direzione dell’aeroporto, chissà perché.

Forse la verità che cercava era nascosta proprio lì, si disse.

In meno di mezz’ora erano arrivati. Aleksi aveva già cambiato idea.

«Mi riporti in città» ordinò, e tacitò le proteste del tassista sventolando un fascio di banconote.

«Dove vuole andare?»

«Continui pure a guidare.»

L’una di notte. Le due.

«Adesso giri a sinistra» mormorò, quando le luci della città cominciarono a diradarsi. «Poi prenda quell’uscita laggiù. Dopo la rotonda continui sempre dritto.»

Infine Aleksi vide la casa di Kate, immersa nell’oscurità. La striscia di prato aveva bisogno di una regolata, la sua auto aveva bisogno di essere lavata, e l’insegna IN VENDITA sembrava abbandonata lì da chissà quanto tempo.

«Si fermi qui.»

Il denaro lo aveva reso conciliante, e il tassista non fece una piega quando Aleksi rimase in auto, combattuto sulla decisione da prendere.

Aveva detto mai più.

Aveva giurato a se stesso di non tornare a trovarla, perché da quelle visite notturne non poteva venire niente di buono.

Già tre volte era arrivato fin lì e poi era tornato sui suoi passi.

L’indomani al sorgere del sole se ne sarebbe pentito.

Non commettere lo stesso errore, per carità!

Invece...

«Vada pure» mormorò. E scese dal taxi.

«Posso aspettare» si offrì l’altro. «Prima controlli se c’è qualcuno in casa.»

«Vada pure» ripeté Aleksi.

Rimase lì fermo, in una zona che conosceva poco, senza cellulare, a guardare il taxi che si allontanava e a domandarsi che cosa faceva lì.

Di nuovo.

Per la prima volta rifletté che, a parte la sua famiglia, Kate era la donna che conosceva da più tempo. La loro storia intermittente durava da cinque anni, ed era la più lunga che lui avesse avuto.

Aleksi si incamminò lungo il vialetto, arrivò alla porta. Si disse che poteva farcela.

Respirò a fondo. E bussò.

Sentendo il colpo alla porta, Bruce abbaiò con un paio di secondi di troppo per guadagnarsi il titolo di cane da guardia. Kate accese la luce. Mezzo addormentata, mentre si avviava ad aprire si impose di non crearsi illusioni.

Qualche volta era convinta di aver immaginato quelle visite.

Fra loro non ne avevano mai fatto cenno.

La prima volta era accaduto qualche mese prima. Lei aveva ripreso da poco a lavorare per la Maison Kolovsky, lui diceva che i giornalisti gli davano la caccia, che proprio per seminarli era finito lì. Kate gli aveva permesso di dormire sul divano. L’automobile argentea di Aleksi era fuori posto, nel suo vialetto. E la mattina dopo, al risveglio, lui non c’era più.

Qualche settimana più tardi c’era stata l’ennesima discussione in famiglia. Lui era venuto per sfogarsi, e quando infine era riuscito a convincerla a prolungare il suo tempo alla Maison, era crollato addormentato sul divano.

L’ultima volta Aleksi tornava da un ballo di beneficenza, aveva bevuto ed era rabbioso con tutti, con sua madre, i fratelli, con Zakahr Belenki e con il mondo intero. Quella notte si erano scambiati il loro secondo bacio, un bacio tenero, fin troppo delicato, che l’aveva lasciata confusa e stordita.

Alle prime ore dell’alba se n’era andato. E poco dopo aveva avuto l’incidente.

Ora Aleksi era di nuovo alla sua porta, arrogante, irrequieto, rabbioso.

«La mia gamba... Hai una pillola?» le domandò, con un filo di voce. Aveva l’aria sofferente e la fronte imperlata di sudore.

Vedendolo in quelle condizioni, Kate trasalì.

«Forse hai bisogno di un’iniezione, piuttosto.»

«Ho smesso di prendere medicinali!» le confessò.

Era così pallido che lei temette di vederlo svenire.

«Dovevi solo ridurre un po’ la dose...» Kate si passò la mano sulla fronte. «Quando hai smesso?»

«Oggi non ne ho prese.»

«Aleksi!» Lei era atterrita. «I medici hanno detto che dovevi ridurle gradualmente, che ci vorranno mesi prima che tu possa farne a meno. Non puoi interrompere così.»

«L’ho fatto perché non riuscivo a ragionare con lucidità» spiegò lui.

«Ma se soffri come un animale...»

«Ascolta!» Aleksi la afferrò per un polso. «Ascoltami bene, Kate. Da quando ho avuto l’incidente, ho continui vuoti di memoria.»

«Era previsto, Aleksi.»

«Esatto.» Lui aveva gli occhi iniettati di sangue. «Vogliono farmi annebbiare la mente. E quel nuovo medico mi ha prescritto altre pillole.»

«È il migliore» insistette Kate. «L’ha trovato tua madre...» La voce le venne meno. Nina non poteva scendere così in basso! Eppure...

«Proprio per questo non posso più fidarmi di lui. Ho preso un appuntamento con l’ospedale, per lunedì.» Aleksi guardò Kate e vide che era sgomenta. «Magari mi consideri un paranoico» mormorò.

«Purtroppo no» ammise, dopo un lungo silenzio. «Magari siamo paranoici tutti e due, ma capisco perché non ti fidi di lei.»

«Per ora non posso far altro che aspettare.» Aleksi si strinse nelle spalle. «Un analgesico dovrebbe bastare.»

Su questo Kate era d’accordo con lui.

Per il resto, c’erano ancora troppi interrogativi che non avevano risposta.

Kate non si sentiva a disagio, quando lui le girava intorno per casa. Per quanto caustico e indisponente fosse, da lei Aleksi era più sereno, anche se il dolore non gli dava tregua. Miracolosamente, sembrava aver lasciato i problemi fuori dalla porta.

«Come si fa a perdere il tappo della vasca?» si meravigliò, dalla soglia del bagno.

Era stata Kate a proporgli un bel bagno caldo, tanto per cambiare. Si guardò in giro, senza risultato. Il tappo sembrava essersi volatilizzato.

«Magari l’ha nascosto Georgie...» No, era stata lei l’ultima a fare il bagno, quella sera.

«Pensa a tutto quello che hai fatto.»

«Che ne dici di una doccia?»

«Sei stata tu a insistere che il bagno è molto più rilassante!» le ricordò, fingendosi irritato.

«Eccolo qui!» esultò. Il tappo era finito tra le pagine del libro che stava leggendo. Kate riempì la vasca e versò una manciata di sali da bagno al sandalo, lasciò gli asciugamani e fece per uscire dalla stanza.

A sorpresa, Aleksi le prese il libro dalle mani.

«Anche a me piace leggere nella vasca» dichiarò, con un lampo divertito nello sguardo.

Come no? si disse lei.

Chissà che cosa spingeva Aleksi a venire lì, si ripeté, mentre andava in camera sua, con uno strano senso di anticipazione.

Non avrebbe dovuto aprirgli, ecco la verità.

Avrebbe dovuto fingere di non essere in casa.

Invece c’era. Era lì, per lui.

Aveva una vita, un lavoro, una figlia.

Aleksi... Aleksi era un dono del cielo.

Il sogno irrealizzabile divenuto realtà. Anche se sapeva che l’indomani avrebbe sofferto, ora Kate voleva godere della sua presenza momento per momento.

«Alla fine Jessica torna con lui?»

Lei trasalì. Aleksi era comparso sulla porta della sua camera, con un asciugamano avvolto intorno ai fianchi. Kate impiegò qualche istante per capire che lui si riferiva al romanzo.

L’ha letto davvero!

«Per un po’ sì» rispose, mentre Aleksi si avvicinava al letto.

«E poi? Scopre che sta meglio senza di lui?» Aleksi si allungò sul letto di fianco a Kate.

«Non sono ancora arrivata fino lì.» In quel momento lui chiuse gli occhi. Ora poteva guardarlo. Appoggiata ai cuscini, osservò l’uomo più bello che avesse mai conosciuto. Si soffermò sui suoi lineamenti decisi, le guance su cui le ciglia ancora umide gettavano un’ombra leggera, il naso diritto e sottile, la bocca piena. E ammirò il corpo atletico, dalla pelle abbronzata, la schiena ampia e i fianchi stretti, ancora meglio di quello che popolava le sue fantasie notturne.

«Questa casa è in vendita?» domandò lui di punto in bianco.

«Sì, il padrone di casa mi ha avvisato la settimana scorsa. Ho un mese di tempo per trovare un’altra sistemazione.» Kate si sforzò di mantenere ferma la voce. Non era mai stata una donna fragile, però ogni tanto anche lei aveva voglia di sfogarsi. «Se il mio datore di lavoro mi fornisce delle buone referenze...»

Aleksi aprì gli occhi.

«Forse negli ultimi giorni sono stato un po’ brusco» ammise, con un mezzo sorriso.

«Togli pure il forse!»

«Non posso permettermi di perderti adesso.»

«Puoi dirlo forte.»

Quando accadde, fu talmente naturale da non sembrare nemmeno la prima volta. Aleksi cominciò a lamentarsi che la gamba gli faceva male, allora lei gli posò le mani sulla coscia, per alleviare il dolore. La pelle era calda e tesa sotto le sue dita, quando iniziò a massaggiare. Quel contatto le procurò un lungo fremito di anticipazione, prima che a poco a poco si abituasse alla sensazione. Anche il respiro riprese il suo ritmo regolare, mentre lavorava sulla sua carne martoriata. Le cicatrici erano ancora violacee e i segni dei punti e dei chiodi ben visibili. Kate prese dell’olio per neonati, l’unico che aveva in casa, per massaggiare la coscia, prima con delicatezza, poi con mani più ferme, insistendo nei punti più dolenti, guidata dalla voce di Aleksi, dai suoi lamenti, dai gemiti soffocati.

Quando imprecò a denti stretti, Kate non riuscì a trattenersi.

«Quando ho partorito Georgie...»

«Per carità!» esclamò Aleksi, con una smorfia divertita e sofferente insieme. «Non dirmi che capisci quanto fa male...»

«Proprio così» confermò lei, senza fermarsi. «Ero in travaglio, e l’ostetrica continuava a dirmi di non preoccuparmi, che era tutto normale, mentre io la imploravo di darmi qualcosa. Non pensavo di poter sopportare un dolore simile. Voglio dire, sapevo che si soffre durante il parto, ma quella era una tortura. E dire che il dolore era appena cominciato.»

«Per quanto tempo è durato?»

«Tutta la notte. Credevo che non finisse mai, invece a un certo punto, quando ero convinta di non farcela più, è cominciato a calare.» Kate sorrise fra sé. Premette le dita nel nodo dolente dei muscoli, gli strappò un sussulto, sospese il trattamento per qualche secondo, poi riprese.

«Ti sei arresa, alla fine?»

«Ho urlato con tutto il fiato che avevo.»

«Io non mi arrendo» proclamò Aleksi. Kate ne era convinta. «Devo mantenere la concentrazione» insistette Aleksi.

«Prova a rilassarti, finché sei qui...» La voce di lei era seducente, la sua carezza sapiente lo induceva all’abbandono.

Allora Aleksi decise di assecondarla. Non era abituato ad affidarsi a qualcuno, ma quella era un’occasione particolare.

Da quel momento si concentrò soltanto sulle mani di Kate.

Nel silenzio della stanza, si sentiva il ticchettio della sveglia sul comodino.

In ospedale lui aveva contrastato i suggerimenti dei medici, che gli consigliavano di abbandonarsi. Ora capiva che avevano ragione. Allentando i muscoli, si allentava anche il dolore.

Non era mai stato accudito così bene prima di allora.

Aleksi rimase sdraiato, con gli occhi al soffitto, completamente a suo agio. Non si era mai trovato così bene con un altro essere umano.

Era sempre lui a condurre il gioco, sempre lui al comando.

A cena, in ufficio, a letto, in ospedale. Era abituato a guidare la conversazione, l’accordo, l’orgasmo, il ricovero. Qualunque fosse l’obiettivo, lui si impegnava allo spasimo per raggiungerlo.

Quella notte, fra pareti sicure, Aleksi Kolovsky lasciò la guida nelle mani di una donna. Gli parve di galleggiare in un mare tiepido, prima che i ricordi lo colpissero di nuovo, con violenza.

Lo stridio di pneumatici, l’odore di gomma bruciata, un grido nato da chissà dove, l’auto che perdeva il contatto con l’asfalto, la sua mente distratta da altri pensieri. Le memorie erano così vive, che dovette stringere i pugni, per non coprirsi la faccia con le mani.

Ignara di quello che stava passando, Kate lo fece spostare su un fianco e passò a occuparsi della parte posteriore della coscia, facendo scivolare le dita sui tendini irrigiditi.

Aleksi trattenne un grido, quando l’inferno dell’incidente tornò a tormentarlo.

«Non pensare a niente» lo invitò la dolce voce di Kate.

Era dietro di lui, così Aleksi si limitò a immaginare la sua espressione concentrata, il rossore sulle guance e un velo di sudore sulla fronte, per l’impegno del massaggio. Sentiva le mani di lei muoversi, instancabili, gli sembrava di vedere i suoi fianchi morbidi che ondeggiavano con un ritmo regolare. Il suo respiro rallentò, come per un incantamento ipnotico.

Quella donna aveva su di lui un effetto incredibile.

L’asciugamano legato in vita si era allentato, rivelando un’eccitazione che non si poteva mascherare.

«Non preoccuparti.» Kate voltò la testa, imbarazzata. «Può succedere, immagino.» Si diede della stupida per quel commento, ma non riusciva a ragionare con chiarezza. Con tutti i fisioterapisti che si erano presi cura di lui, forse era capitato.

«Mai una volta» dichiarò Aleksi, come se le avesse letto nel pensiero.

E così era colpa, anzi merito suo, realizzò Kate, con un moto di trionfo.

Chissà come, ogni volta che Aleksi bussava alla sua porta, il livello di intimità si alzava.

Prima un bacio.

Poi parole più intime.

Ricordi preziosi, coccolati nella sua mente, rivissuti più e più volte, con euforia, incredulità e un vago senso di colpa.

E ora questo.

Lei si interruppe, le mani ferme sulla coscia di Aleksi. A quel punto, non aveva intenzione di abbandonare il campo. Perché in quella stanza, lontano da tutto e solo per poco, Kate Taylor si sentiva bella.

Per la prima volta in vita sua, quando quei profondi occhi grigi incrociavano i suoi, lei si sentiva un’altra.

La sua vita sessuale era stata un disastro. Le sue prime esperienze con Craig avevano avuto come risultato Georgie. A breve distanza, lui l’aveva accusata di volerlo intrappolare, per poi criticarla per essere ingrassata. E infine l’aveva lasciata, a poca distanza dal parto, su richiesta di Kate.

Il sollievo di Craig era stato palpabile, tutta la sua tensione era svanita quando era stato esonerato dai doveri di padre verso la creatura che doveva nascere.

Lui era un ragazzo sportivo e spensierato, non ancora pronto ad assumersi responsabilità.

Ora Craig vedeva sua figlia qualche volta a casa dei propri genitori, le inviava regali per il compleanno e biglietti d’auguri a Natale. Null’altro.

Quando aveva chiuso la porta dietro di lui, Kate aveva giurato mai più.

Era una madre single, con doveri ben precisi.

Non aveva tempo per concedersi alla passione.

Almeno fino a quel momento... Ora accanto ad Aleksi la sua femminilità sbocciava di nuovo, e l’eccitazione le incendiava i sensi.

In quella stanza lei era una vera donna, audace e disinibita, consapevole del proprio fascino, capace di far felice un uomo.

Come guidate dallo sguardo intento di lui, le sue mani ripresero a toccarlo, anche se in modo del tutto diverso.

«Kate!» annaspò Aleksi. Le prese le mani. «Non sei obbligata a farlo.»

«Lo so.» La voce di lei era ridotta a un bisbiglio.

Voleva guidare lei il gioco ancora per un po’, fargli scivolare le dita unte d’olio sulla pelle, in un’intimità voluttuosa, come se fossero amanti, anche se solo per quella notte.

«Kate...» gemette ancora Aleksi. Voleva fermarla, sapeva di doverlo fare. Invece si abbandonò senza protestare alle languide carezze di quelle mani amorevoli. Carezze lente e ritmate, che lo indussero a chiudere gli occhi, con un sospiro beato.

Lo colse il pensiero confuso che forse per Kate quella era una novità. Invece di irritarlo, la sua inesperienza lo lusingava, accresceva ancora il più il suo piacere.

Un piacere inaspettato.

In stato di grazia, Kate proseguiva la sua sensuale esplorazione. Tastava, sfiorava, manipolava con decisione, si tratteneva, temendo di avergli fatto male, per poi tornare alla carica, ammirata dalla perfezione di quel corpo che sognava da anni di vedere nudo.

Un tremore improvviso le dilagò nel petto, incitandola a osare di più. Ora che le mani erano occupate, la bocca chiedeva la sua parte.

Guidata dall’istinto, si abbassò e gli baciò un capezzolo, poi l’altro. Aveva sperato di ricevere un bacio così, ma in passato non era mai accaduto.

Aleksi si lasciò sfuggire un mugolio soffocato. Si agitò, fece per sfilarle la gonna, ma lei lo fermò. Con la foga di un affamato davanti al cibo, scese lungo il suo torace, tracciando un sentiero di piccoli baci avidi. E si spinse più giù.

Kate godeva di ogni istante, assaporava ogni momento, perché sapeva che quelle sensazioni dovevano bastarle per settimane.

Continuò a baciarlo, a sperimentare sul suo corpo caldo nuovi modi di procurare piacere. Non lo faceva certo per compiacerlo o impressionarlo con la propria abilità, piuttosto per assecondare il proprio appagamento. Assaggiò ogni centimetro della sua pelle, la mordicchiò piano, la lambì con la punta della lingua, gli infilò le dita tra i capelli, resa più sicura dalla reazione di Aleksi.

Per lui fu una rivelazione.

Starsene lì, abbandonato sulle lenzuola, la mente leggera, appagato dal tocco di quelle dita e quelle labbra trepidanti, lo mandava in paradiso.

E pensare che credeva di aver provato tutto.

Quella notte, invece... non doveva fingersi interessato o partecipe, non aveva fretta, non c’era nulla da dimostrare.

Quando le carezze di Kate si fecero più intime, lui chiuse gli occhi, con un gemito prolungato.

«Sì, così!» ansimò, lasciando ricadere la testa all’indietro. Non avrebbe voluto raggiungere subito l’orgasmo, ma il tocco di lei da delicato si era fatto insinuante, e lo spasimo finale lo attraversò in un lampo.

Mai Aleksi aveva vissuto una notte come quella, tranquilla, rarefatta, popolata soltanto dalla lingua, dalla bocca e dal respiro di Kate. Una notte in cui il tempo si era dilatato, e che stava per lasciare il posto all’alba.

Quando era arrivato lì, non sapeva che in quel letto avrebbe trovato un conforto e un benessere mai neppure immaginato.

Aleksi aprì gli occhi e cercò lo sguardo di quella compagna di letto così generosa. Con un sospiro riconoscente, l’attirò a sé. Gli piacevano le sue curve pronunciate, che sentiva sotto i vestiti, le gambe tornite, il profumo dei capelli setosi e il peso del seno di Kate contro il suo petto.

Aveva raggiunto una calma a lungo cercata nei mesi seguiti all’incidente, mesi di solitudine, irrequietezza e ripensamenti. La sua mente, abituata a lavorare a ritmo serrato, anelava uno stacco.

Un Kolovsky non può permettersi cedimenti o abbandoni al sentimentalismo, come gli aveva insegnato sua madre.

Calma. Era quella la risposta.

Forse esisteva una parola più adatta, ma lui non la cercò neppure. Stava già scivolando in un sonno meritato e benefico.