30

FRANKIE

I miei sogni sono affollati di volti. Volti del passato: il tuo, quello di Leon, quelli di Helen, di Daniel, di Jason. Persino quello della sorella di Jason. Non ricordo nemmeno come si chiama, ricordo solo il suo viso triste al funerale del fratello, e la sua massa di capelli biondi. Sono anni che non penso a lei, ma Oldcliffe e quelle lettere anonime hanno riportato a galla tutto: immagini, emozioni, dolore, sensi di colpa. Tutto.

Ho il sonno agitato. Dormo e poi mi sveglio di soprassalto, tanto che alla fine sono contenta quando vedo le prime luci del giorno che filtrano dalle tende. All’inizio non capisco come mai mi trovo in camera da letto, poi ricordo la chiamata a Daniel alle due del mattino, la sua voce ancora mezza addormentata, il sollievo di trovarlo qualche minuto dopo davanti alla mia porta, coi capelli arruffati e un sorriso assonnato. E in quel momento ho capito con incredibile chiarezza di amarlo davvero. Io lo amo, Soph. Sono innamorata di tuo fratello. È stato la mia roccia negli ultimi giorni. È tutto quello che mi è mancato in questi anni. A essere onesta, credo di averlo sempre amato, semplicemente non volevo ammetterlo perché ero convinta di aver bisogno di una persona ambiziosa, enigmatica, indipendente. Ero convinta che mi piacessero i tipi alternativi, come Jez e Leon. Come Jason. E invece avevo bisogno di un uomo affidabile, quadrato, coi piedi per terra. Ero talmente impegnata a scappare dalla Frankie del passato da non capire che in realtà tutto ciò di cui avevo bisogno era sempre stato qui.

Ma poter stare con lui è un sogno irrealizzabile. Lo sai, vero, Soph?

Mi alzo, prendo la vestaglia appesa alla porta ed entro in salotto in punta di piedi. Daniel è sul divano, completamente vestito e coperto appena da un lenzuolo. È costretto a tenere le gambe piegate perché sono troppo lunghe per quel divano. Dorme sereno, con la bocca chiusa e il respiro leggero. Vorrei tanto scostargli i capelli dalla fronte. Resto lì per un po’ a guardarlo, a pensare quanto sia fortunata Mia; poi lui apre gli occhi e si guarda intorno, confuso dal fatto di trovarsi in questo salotto, e di trovare me in vestaglia (che tengo leggermente aperta sulla scollatura, perché mi conosci, Soph, non sono cambiata, alla fine).

Daniel si mette seduto e si strofina la faccia. «Che ore sono?»

«Le otto e qualcosa. Vado ad accendere il bollitore», dico girandomi per andare in cucina.

Lui impreca sottovoce e si alza subito, perché sicuramente deve tornare da Mia. Chissà com’è, questa Mia. Lui ne parla a malapena, ma proprio questa sua riservatezza la dice lunga.

Accendo il bollitore e aspetto. Qualche istante dopo compare sulla porta, i capelli scompigliati, la camicia sgualcita fuori dei pantaloni. «Scusami, Franks, ma devo andare. Devo passare da casa a fare una doccia e poi scappare al lavoro.»

Mi promette che mi chiamerà dopo, mi lancia un bacio e se ne va. E io resto sola in questo appartamento, che senza di lui sembra vuoto ed enorme.

 

 

Faccio una doccia e mi vesto, poi vado in cucina a fare colazione, sforzandomi di mandare giù qualche cucchiaiata di fiocchi d’avena. Guardo l’orologio sulla parete: già le otto e mezzo. Devo uscire, trovare un bar col Wi-Fi, voglio assolutamente scoprire di chi è l’appartamento di fronte. Sta succedendo qualcosa di troppo strano, qui. Svegliarmi col pianto di un bambino... Perché mai qualcuno dovrebbe decidere di farmi una cosa del genere? È come se sapessero, Soph. Ma com’è possibile? Come?

Quando Daniel è venuto qui, stanotte, io tremavo e piangevo. È andato a dare un’occhiata nell’appartamento di fronte, poi ha cercato di farmi calmare spiegandomi la sua teoria: secondo lui il computer aveva un timer e qualcuno aveva dimenticato di disattivarlo. Quella registrazione non era indirizzata a me, era solo una coincidenza. «Magari serve per una ricerca, o per un film. Potrebbero esserci mille motivi per cui una persona ha bisogno di tenere la registrazione del pianto di un bambino nel computer.»

Secondo lui c’è una spiegazione razionale per tutto. Ma quella registrazione è stata messa lì per me. E la busta col mio nome sopra io l’ho vista, c’era davvero, anche se poi è magicamente sparita.

Ripenso a quello che ha detto Jez ieri, alle accuse che ha fatto contro tuo fratello. Quando ne ho parlato a Daniel, lui ha sminuito la cosa sostenendo che Jez semplicemente ha raccontato cazzate, che non era lui quello che Jez sosteneva di aver visto davanti al pontile a litigare con te, quella sera. Tuo fratello è sempre stato una persona trasparente, uno che gli si leggeva in faccia quello che pensava e sentiva. Uno che ti raccontava qualsiasi cosa gli passasse per la testa. Diarrea verbale, la chiamavi tu.

Eppure ieri... Si capiva benissimo che mi stava nascondendo qualcosa.

I pianti di quel bambino. Sembra proprio uno scherzo crudele da parte di qualcuno che ha come scopo quello di ferirmi. A Daniel ho confidato il mio desiderio di avere figli, lui è l’unica persona di Oldcliffe cui ne abbia parlato. Mi vaga un pensiero nel cervello, talmente brutto da volerlo accantonare, perché non ce la farei proprio ad accettarlo.

Devo fidarmi di Daniel. Un tempo mi amava, e so che tuttora ci tiene a me. Devo concentrarmi su questo, Soph, perché a parte lui, non ho nessun altro.

Chiudo gli occhi e mi massaggio le tempie. Sento la testa ovattata, ho una forte emicrania. È la mancanza di sonno; troppe notti passate su quel maledetto divano a bere vino. La settimana che ho davanti mi sembra interminabile. Non posso neanche decidere di andarmene prima, a meno che non voglia ritrovarmi con un ex fidanzato ostile in casa. Sempre che Mike ci sia arrivato, a casa. Non si è fatto più sentire da quando se n’è andato via furioso, ieri mattina.

Finisco il caffè e infilo computer e cellulare nella borsa. Ma mi fermo un attimo prima di uscire, improvvisamente preoccupata di quello che potrei trovare sul pianerottolo. E se la persona che ieri notte mi ha terrorizzata con quell’inquietante registrazione fosse dietro la porta a spiarmi?

Mi affaccio con cautela. Dalla finestra del pianerottolo entra un debole sole invernale. La porta dell’appartamento di fronte sembra chiusa. Chissà se è solo accostata come al solito, o se invece qualcuno è venuto a chiuderla a chiave mentre io e Daniel dormivamo. A ogni modo, sollevata dal fatto che non ci sia nessuno, esco e chiudo la porta alle mie spalle.

Ma un attimo dopo la sento col piede. So già di cosa si tratta, lo so anche prima di abbassare lo sguardo. E mi si ferma il cuore.

Sullo zerbino c’è l’ennesima busta marrone. Mi chino e la raccolgo, accorgendomi subito che ha una macchia di sangue sull’angolo in alto a sinistra. Una specie di macabro francobollo, che non lascia dubbi: si tratta della stessa busta che ieri stava sulla scrivania. La busta che poi è misteriosamente scomparsa.

Dentro c’è un foglio.

 

Ti tengo d’occhio

 

Mi vengono i brividi. Mi volto di scatto come se mi aspettassi di vedere qualcuno che mi spia dalla porta socchiusa dell’appartamento di fronte, ma non c’è nessuno, solo una porta bianca con un numero tre in ottone che brilla debolmente alla luce del sole... Ho il respiro grosso, il cuore a mille. «Vaffanculo», dico rivolta alla porta, pronunciando bene ogni sillaba e alzando il dito medio. Vorrei scappare, lanciarmi giù per le scale il più velocemente possibile, è l’istinto che mi urla di farlo. Ma resisto. Mi faccio coraggio e scendo normalmente – pur tenendomi con forza al corrimano – cercando di convincermi che non c’è nessuno che mi segue, nessuno pronto a darmi una spinta, ad ammazzarmi facendomi cadere giù per le scale.

Solo dopo essere uscita dal portone, e avere attraversato il vialetto di ghiaia, ed essermi sistemata al volante, solo adesso mi concedo di abbandonarmi al pianto.

Non posso più negarlo, Sophie. Ho paura. Ho davvero tanta, tanta paura.

 

 

Per miracolo riesco a trovare un bar che ha il Wi-Fi in una traversa del lungomare, praticamente dietro il nostro vecchio albergo. È piccolo e quasi vuoto. Pur non essendo sul mare, dal tavolino vicino alla finestra dove mi vado a sedere sento le grida dei gabbiani e il profumo di sale nell’aria, due tratti distintivi che mi ricordano dove sono: ancora a Oldcliffe.

La cameriera mi porta il caffè e il cornetto che ho ordinato e cerca di attaccare bottone. «Non l’ho mai vista da queste parti», mi dice con un marcato accento di qui mentre poggia il bricchetto del latte sul tavolo. In realtà avevo chiesto un americano, ma vista la faccia che ha fatto mi sono corretta e ho preso un caffè normale. Mi stupisce che non sappia chi sono, visto che pare saperlo chiunque, qui a Oldcliffe.

Rimane davanti al tavolo, si sistema il grembiule e mi guarda. Sta cercando di capire chi sono. La guardo anch’io. Avrà la mia età, è rossa di capelli e ha le lentiggini. Forse andavamo a scuola insieme?

«Frankie? Sei Frankie, vero? Mi parevi tu, infatti.»

Le sorrido, cercando di ricordare il suo nome.

«Jenny. Jenny Powell. Eravamo in classe insieme, ricordi?» Poi si adombra, col suo blocchetto e la penna in mano. Sta ricordando. Di come la gente ha cominciato a trattarmi dopo la tua sparizione. «Una brutta faccenda», dice scuotendo la testa. «La gente non si è mai più ripresa dopo la sua scomparsa. E adesso viene fuori che è morta.» Continua a scuotere la testa e a guardarmi, però adesso ha qualcosa di diverso nello sguardo: è pronta a impicciarsi. «È per questo motivo che sei tornata? Per scoprire cosa sia successo?»

Vorrei risponderle, ma non me ne lascia il tempo.

«Sono passati un sacco di anni... Diciotto, vero?»

Annuisco.

Lei mordicchia la penna senza mai staccarmi gli occhi di dosso. «Ah, brutta faccenda.»

Solo adesso ho capito chi è. Portava le trecce, a scuola. La madre gliele faceva con precisione matematica, e così strette che resistevano intatte per tutto il giorno. Le davano un aspetto molto serioso. Era amica di Helen, e credo che le sarebbe piaciuto diventare anche amica tua, non fosse stato per me.

«Mi piaceva molto», dice, quasi rivolta a se stessa. «Era carina con me. E anche con Helen. Noi due eravamo quelle strambe, quelle sfigate.»

Ora ci ride, ma s’intuisce che all’epoca ci soffrisse. Hai sempre avuto un debole per gli sfigati, Soph, perché lo eri stata anche tu, prima che io ti prendessi sotto la mia ala. Ma ho sempre pensato che fossi migliore di me. Non meritavi quello che ti è capitato, Soph. «Era fantastica, le volevano tutti bene», dico tristemente.

Vedendomi così, Jenny mi mette una mano sulla spalla. «Mi dispiace tanto. Dev’essere stata dura per te tornare qui, immergerti nei ricordi e in tutto il resto.»

Le dico che sì, è dura. Soprattutto perché ci sei anche tu, ma questo lo tengo per me.

«Dovrebbero demolirlo quel vecchio pontile, è orrendo. Oltre al fatto che è pericoloso. Non capisco proprio perché lo tengano ancora lì.»

«Lo vorrei tanto anch’io.» Tu invece non saresti d’accordo. Le cose antiche ti piacevano molto.

Lei mi sorride con comprensione, poi finalmente mi lascia in pace per andare a servire un altro cliente.

Bevo un sorso di questo caffè tremendo che mi ha portato, sforzandomi di buttarlo giù. Poi clicco su Safari e tiro un sospiro di sollievo nel vedere che si apre regolarmente. Entro nel sito del Catasto e vado sulla ricerca dei proprietari in base all’indirizzo dell’immobile. Non mi aspettavo che sarebbe stato così semplice. Digito l’indirizzo della palazzina dove alloggio, aggiungo l’interno tre e invio, il cuore già in accelerazione. Ma compare subito una finestra: per visualizzare le informazioni richieste devo pagare una piccola somma di denaro. Prendo il portafogli dalla borsa e mi guardo intorno per assicurarmi che non mi stia spiando nessuno, ma nel bar c’è solo un altro cliente, un signore sulla sessantina che legge il giornale. Inserisco i dati della carta di credito e aspetto di visualizzare il nome del proprietario. Mi sudano le mani, mi brontola lo stomaco.

Ispiro bruscamente. L’uomo col giornale si gira a guardarmi. Io guardo lo schermo, e non credo ai miei occhi.

 

Indirizzo: Interno 3, Beaufort Villas, Hill Street, Oldcliffe-on-Sea, Somerset

Data di acquisto: settembre 2004

Nome del proprietario: Leon James McNamara

La migliore amica
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