8

FRANKIE

Tornando indietro, Daniel è molto silenzioso. Aziona a tratti il tergicristallo per via della pioggia leggera. La foschia si è fatta più densa. Il cielo è una coltre bianca che ha ingoiato il vecchio pontile.

Ferma la macchina davanti alla casa dove alloggio; non spegne il motore, guarda fisso davanti a sé. La palazzina è immersa in un plumbeo grigiore, sono scure persino le siepi che la separano da quella accanto.

In lontananza scorgo una donna con ombrello e impermeabile che viene verso di noi. Daniel è scuro in volto; non è un’espressione che gli riconosco. Ripenso allo scambio avuto con Leon. Ho forse detto o fatto qualcosa di sbagliato? E cosa voleva dire Leon quando ha insinuato che io sapessi il motivo per cui voi due vi siete lasciati? Alludeva a Jason? Glielo hai detto, Soph?

Non ti biasimo, se l’hai fatto. Quando ti guarda con quegli occhi magnetici, ti senti mancare l’aria. I suoi occhi ti leggono dentro, mi hai detto una volta. Poco fa ho capito cosa intendevi.

Non so cosa gli avrei ribattuto, se il mio telefono non avesse squillato. L’ho preso dalla borsa con un certo sollievo, e quando ho visto che era Stuart ho detto a Leon e Daniel che era una telefonata di lavoro importante, ho chiesto scusa e sono uscita.

In giardino mi si stavano congelando i piedi, colpa degli stivali col tacco che mi sono portata dietro, decisamente inadeguati lontano dai marciapiedi di Londra. Stuart mi ha chiesto mille volte scusa per avermi dovuto disturbare durante il fine settimana, ma aveva notato un errore in una fornitura importante e la cosa rischiava di posticipare di settimane l’inaugurazione dell’albergo. Ho cercato di mantenere la calma, di scordare per il tempo necessario il fatto che Leon e Daniel mi stavano aspettando, e ho provato a ragionare con lui sulle possibili soluzioni. Mi ha fatto uno strano effetto rispondere a una chiamata di lavoro a Oldcliffe, come se i miei due mondi si stessero mescolando... Non è stata una bella impressione. Ho dovuto sforzarmi di non pensare a te, a Daniel, a Leon, e concentrarmi su quello che mi stava dicendo Stuart. Non so quanto sono rimasta al telefono, ma a un certo punto ho sentito che alle mie spalle c’era qualcuno. Mi sono girata e ho visto Daniel che mi aspettava; strisciava un piede sull’erba con indifferenza, facendo finta di non ascoltare la telefonata. «Ti richiamo dopo», ho detto allora. «Tu intanto senti il fornitore. Fa’ finta di non sapere niente, se devi. E metti Paul in guardia, non è la prima volta che fa casini, quello.» Ho rimesso il telefono in borsa, costretta dalla presenza di Daniel a separarmi dagli affari di famiglia per tornare qui a Oldcliffe.

«Andiamocene», mi ha detto lui adombrato e infilando il vialetto con passo deciso, praticamente costringendomi a corrergli dietro.

Da quel momento non mi ha più rivolto la parola.

«È tutto a posto?» gli chiedo adesso, e mi sembra di aver quasi urlato, tanto è stato lungo il silenzio durante il viaggio.

Lui continua a non guardarmi. «Che voleva dire Leon? Cosa intendeva quando ha detto che tu sai qual è il motivo per cui si sono lasciati?»

So di dover essere onesta con lui. Ma come faccio? E se Leon non alludeva a Jason? Magari si stava riferendo a tutt’altra cosa. «Che ne dici se andiamo a mangiare da qualche parte, così parliamo?»

Finalmente si gira a guardarmi, l’espressione meno dura. «Non lo so, Franks... In teoria dovrei farmi vedere in redazione, e...»

«E dai. È l’ora di pranzo, no? Un boccone ci farà bene.»

«Ah, sì? Allora non posso rifiutare.» Fa una risata, ma si sente che è forzata.

«Cosa c’è che ti affligge, Dan?»

Gli cadono le spalle, sembra quasi afflosciarsi. «Non lo so, Franks. Ho solo paura che tutto questo» – allarga le braccia – «non serva a niente. Che alla fine non scoprirò mai cos’è successo a mia sorella.»

«Daniel...» Gli metto una mano sul braccio e cerco il tono più morbido che mi riesca: «In effetti potremmo non sapere mai cosa le è successo».

Lui si adombra, ritrae il braccio dalla mia mano. «No. Non posso neanche pensarci. Io devo sapere, Frankie.»

Ha un’espressione così sofferente che vorrei baciarlo per scacciare via tutto il suo dolore. Poi mi si affaccia un pensiero. «E tua madre? Sta bene?» Con gli anni, il ricordo di Anne si è sbiadito come una vecchia foto, ma rivedo ancora la sua divisa celeste da infermiera, le rughe comparse troppo presto sul suo viso, i capelli ossigenati, troppo chiari per il colore della sua pelle. Una lavoratrice infaticabile, una donna rimasta sola con due figli da crescere, una madre in lutto.

«Sta bene, tutto considerato. Dopo la scomparsa di Sophie è tornata a vivere in Irlanda con la sorella. Hanno una fattoria. Lì ha conosciuto Tim, un brav’uomo. Si sono sposati. L’idea di tornare qui a Oldcliffe non la sfiora nemmeno. Vado io a trovarla, ogni tanto. A ogni modo lei è convinta che si sia trattato di un tragico incidente, proprio come la polizia. Che Sophie sia scivolata e sia finita in acqua.»

«Forse è così... Forse si è trattato davvero di un tragico incidente.»

Daniel sembra stanco e triste. «Sono sicuro di no.»

«Come fai a saperlo?»

«Perché conosco, conoscevo mia sorella, Frankie. Eravamo molto legati, la conoscevo bene. E non era più la stessa, negli ultimi tempi, c’era qualcosa che la preoccupava. Qualcosa che non andava. Avrei dovuto rendermene conto meglio, avrei dovuto osservarla e ascoltarla di più, ma ero troppo preso dalle mie cose, dalla mia vita... E adesso, ripensando a quel periodo, a quell’estate, e rivedendo tutto quel ch’è successo allora con occhi diversi, con lo sguardo più avveduto dell’uomo maturo, sono sicuro che in lei ci fosse qualcosa che non andava.»

«Non devi biasimarti, Daniel. Avevi solo ventitré anni, eri appena un ragazzo. E che dire di me? Con tutto che ero la sua migliore amica, non mi sono accorta che ci fosse qualcosa che non andava.»

Il che non è proprio vero.

Daniel sospira. «Che voleva dire Leon? Perché avevano litigato?» mi chiede di nuovo.

Sono agitata. Non posso dirgli la verità, perciò devo inventarmi qualcosa in fretta. «L’ho messa in guardia su Leon. Le ho detto di stare attenta con lui, perché...» Esito. Mi viene da vomitare.

«Perché?» m’incalza lui, adesso anche con lo sguardo.

«Perché Leon ci aveva provato con me... Io non ero interessata, ma il mio rifiuto non lo aveva scoraggiato... Aveva cominciato a insistere, ad assillarmi... A dirla tutta, ero spaventata.»

Daniel si fa scuro in volto.

Io mi sforzo di continuare, di superare la vergogna. «Devo dirti ancora una cosa... Ci sono andata a letto. È successo circa un anno dopo la scomparsa di Sophie. Ed è successo solo una volta. Ci siamo incontrati per caso, ci siamo messi a parlare di lei... Io avevo bevuto e...»

«E lui se n’è approfittato.»

Sospiro. «Non saprei. Forse è più giusto dire che ce ne siamo approfittati tutt’e due.»

Daniel torna a girarsi dall’altra parte. Guardiamo entrambi la donna con l’ombrello, sempre più vicina. Ha i capelli folti e grigi, e gli occhiali. Passa spedita davanti alla macchina, diretta verso il portone della palazzina dove sto io. Litiga un po’ con l’ombrello, come se stesse facendo il tiro alla fune con un avversario invisibile, poi rovista nella borsa in cerca delle chiavi. Potrebbe essere lei la persona che ha lasciato sullo zerbino la lettera anonima? Evidentemente è una degli inquilini del pianterreno; forse la nonna del bambino che ho sentito piangere tutta la notte. Ha trovato le chiavi e apre sicura il portone. Prima di entrare scrolla l’ombrello girandosi verso di noi, poi lo lascia sul gradino e varca l’ingresso. Qualche istante dopo, si accende la luce nell’appartamento sotto il mio.

«Andiamocene al pub», lo esorto di nuovo. «A parlare della prossima mossa. Posso fermarmi solo pochi giorni, non te lo scordare. Di più non posso proprio trattenermi.»

Finalmente sorride. «Va bene, sei riuscita a convincermi come sempre, Lady Frankie.»

Ecco, ho ritrovato il Daniel che conoscevo: simpatico e allegro. Mette la prima e io riallaccio la cintura, sollevata al pensiero di non dover tornare subito in quell’appartamento. Ma mentre usciamo dal vialetto qualcosa attira la mia attenzione. Alzo lo sguardo: dietro la grande finestra del mio appartamento c’è qualcuno, il viso quasi premuto contro il vetro, gli occhi su di me.

Mi si gela il sangue. Sei tu?

Mi volto per vedere meglio, ma è tardi, siamo già troppo distanti.

 

 

Il Seagull non è cambiato di una virgola. C’è ancora la stessa carta da parati con motivo cachemire e anche gli stessi habitué al bancone con una pinta in mano, rubicondi e più o meno invecchiati, con l’immancabile cane al seguito. È tutto esattamente come me lo ricordavo, compresi l’odore di aceto e patatine e il tanfo di cane bagnato. Persino gli uccelli appesi al soffitto e il gabbiano imbalsamato sul davanzale sono rimasti al loro posto. Come se fossi arrivata qui con la macchina del tempo.

Il pub si trova alle porte di Oldcliffe, davanti al mare burrascoso e alla lingua di spiaggia che diventa sempre più stretta a mano a mano che si prosegue lungo la costa (infatti all’altezza del vecchio pontile è praticamente sparita). C’è un uomo di mezza età seduto da solo a un tavolo in un angolo. Legge un giornale sorseggiando una birra. Ha meno capelli e più pancia, ma lo riconosco subito: è Lorcan, il fratello di Leon.

Daniel saluta quelli al bancone e la barista, una donna in carne intorno ai quarantacinque, i capelli ricci grigio topo. Io resto dietro di lui, sperando che Lorcan non mi abbia riconosciuta.

«Daniel, tesoro, è un pezzo che non ti si vede!» dice la donna con un forte accento di qui. «Hai così tanto da fare al giornale, bello mio?»

Daniel sorride. «Che ci vuoi fare, Helen. Da queste parti si lavora come muli.»

Lei si fa una risata senza smettere di pulire un bicchiere, poi si accorge di me. I nostri sguardi s’incrociano, e all’improvviso capisco chi è.

Helen Turner. Quella del tuo quartiere. Eravate amiche.

Smette di sorridere, scuote la testa incredula. «Guarda, guarda... Frankie? Allora è vero che sei tornata.»

So che non dovrei sorprendermi del fatto che la notizia del mio arrivo si sia già sparsa per tutta Oldcliffe, ma rimango stupita lo stesso, non posso farci niente. Non sono più abituata a vivere in una cittadina di provincia. Però mi viene in mente una cosa: poiché a questo punto è chiaro che tutti sanno che sono tornata, l’autore della lettera anonima potrebbe essere chiunque delle mie vecchie conoscenze.

Helen mi sbircia attraverso il bicchiere che sta pulendo. Ricordo quanto mi odiasse ai tempi di scuola. Ho sempre sospettato che il suo odio fosse dovuto alla gelosia: voleva essere lei la tua migliore amica, al posto mio. Immagino che quando me ne sono andata in collegio abbia fatto salti di gioia. E quanto deve averci rosicato, tre anni dopo, quando siamo tornate a essere inseparabili come sempre. Ti faceva pena, così il sabato sera te la portavi dietro al Basement, ma lei alla fin fine non contava niente per te.

Non era bella nemmeno allora, ma con gli anni è decisamente peggiorata: l’aria di mare le ha rovinato la pelle arrossandola e allargando i pori. «Come stai, Helen?» provo a dire, ma in modo fin troppo formale, per di più senza la minima traccia di accento locale, e ho l’impressione che la mia voce stuzzichi la curiosità degli altri avventori.

«Ehi, non sarai mica venuta fin qui a fare la snob», ridacchia Helen, suscitando riso di scherno anche tra i suoi clienti. «Sei davvero acchittata», aggiunge con finto entusiasmo, facendomi sentire decisamente a disagio coi miei pantaloni neri, il cappotto rosso e la sciarpa di seta. «Com’è che sei tornata?»

Divento rossa, e la cosa mi dà alquanto fastidio. «Io... ehm... veramente...»

«Dillo pure con parole tue, dolcezza», fa uno degli avventori, tutto pelato e con un paio di occhiali enormi.

«È venuta a trovare me», interviene Daniel.

Helen si rabbuia. «Ah sì? Mica lo sapevo che vi sentivate ancora, voi due.» Alza le spalle, come rispondendo da sola alla domanda che si è posta. «Va be’, si sa che la gente è strana. Mettetevi a sedere, che vi porto da bere al tavolo. Te che prendi, Frankie?»

«Vino bianco, grazie.» E temendo che possa farmi qualche battuta sul fatto che avrei potuto prendere dello champagne aggiungo: «Quello della casa andrà benissimo».

«Per me una birra, per favore», dice Daniel. Poi mi prende per il gomito e mi trascina via. «Helen potrebbe avere delle informazioni utili. Era molto amica di Sophie, no?» mi sussurra all’orecchio.

«Be’, non esattamente...»

Sono ancora infastidita dalle battute sul mio accento e sul mio vestiario (gli snob, alla fine, sono stati loro) quando, non avendo altra possibilità, passiamo davanti al tavolo dov’è seduto Lorcan.

Lui alza la testa, e i nostri sguardi s’incrociano. Mette giù il giornale, si pulisce la bocca col dorso della mano. «Mi parevi tu, infatti», dice con voce stentorea, tanto che Daniel si gira. «Francesca Howe.»

Francesca Bloom, mi verrebbe tanto da correggerlo, ma lascio perdere per timore di scatenare chissà quali battute da parte di Helen e dei suoi amici al bancone. Lorcan ha indosso una tuta da lavoro tutta schizzata di vernice. Pur essendo fratello di Leon, e cugino di Jason, non è bello per niente. Anzi, è come se i geni peggiori della famiglia fossero passati tutti a lui, lasciando a Leon i migliori. Un tempo, intorno ai venticinque anni, era vagamente attraente. Aveva il tipico fascino dell’irlandese impertinente, che tante donne subiscono. Ma i tratti del viso sono quelli che sono: ha il naso troppo aguzzo e il mento troppo grosso. Quanto agli occhi, sebbene siano azzurri come quelli di Leon, sono terribilmente vicini.

All’improvviso mi torna in mente un ricordo. Siamo al Basement, lui ti tocca il sedere e tu lo spingi via bonariamente. Ma... Il suo era davvero un gesto giocoso? E la tua reazione è stata davvero divertita e amichevole nei suoi confronti, oppure sono io che ricordo male? Eravamo mezze ubriache e sono passati diciotto anni, eppure adesso ho l’impressione che tu fossi tutt’altro che divertita... Al contrario: eri serissima, incazzata. Poi è arrivato Leon, gli ha dato uno spintone e hanno cominciato a fare a pugni, finché Lorcan non è sparito in mezzo alla folla e al fumo.

Tu piacevi a Lorcan. È incredibile che mi sia dimenticata una cosa del genere. Gli piacevi eccome, e ci ha provato. C’ha provato con la ragazza di suo fratello.

«Tutto bene, Franks?»

Il tono preoccupato di Daniel s’incunea tra i miei pensieri.

Lorcan mi sta fissando con un sorriso. Gli manca un incisivo. «Avevo sentito che eri tornata», dice.

«Chi te l’ha detto? Leon?»

Lui alza le sopracciglia e si picchietta il lato del naso. «Il paese è piccolo, la gente mormora.» Già, come se non lo sapessi. Poi piega il giornale, se lo mette sottobraccio e si alza. «Be’, ora è meglio che vada, non posso mica passare tutta la giornata a chiacchierare con voi, ho un sacco di lavoro da fare.»

Resto colpita: avevo dimenticato quanto fosse alto. Più alto di Daniel, e anche più massiccio. Mi faccio di lato per farlo passare.

«Non vorrei essere nei panni della persona cui deve riverniciare casa, è mezzo ubriaco», commenta Daniel mentre lo guardiamo uscire dal pub.

Rido, sollevata che se ne sia andato, poi ci sediamo proprio al tavolo lasciato libero da Lorcan. Helen ci porta da bere e chiede cosa prendiamo da mangiare. Appena si allontana, mi avvicino a Daniel. «Mi sono appena ricordata di una cosa», sussurro. «Riguarda Lorcan.»

Daniel beve un sorso di birra. «Ah, ci voleva. Cos’è che ti sei ricordata?»

«Gli piaceva Sophie. Una volta ci ha pure provato, al Basement. Era ubriaco, e Leon lo ha preso a pugni.»

«Ma non era già sposato all’epoca?»

«Sì, ma evidentemente non si è fatto scrupoli. Lo stesso Leon diceva che suo fratello era uno che tradiva la moglie come se niente fosse.»

Daniel mi guarda con la sua pinta in mano. «Va bene, ma ora con questo cosa vorresti dirmi, che secondo te Lorcan ha a che fare con la morte di Sophie?»

«Non lo so. Senti, l’hai detto tu stesso: Sophie era spaventata. Magari era proprio di lui che aveva paura.»

Daniel si adombra. «Forse si era fissato con lei e l’ha seguita fuori del Basement. Lui c’era quella sera?»

Mi sforzo di ricordare. «Non lo so, è passato così tanto tempo... A ogni modo ho sempre pensato...»

«Cosa?»

«È una mia supposizione, ma sono sempre stata convinta che dovesse incontrare qualcuno al pontile. Qualcuno che non era al Basement.» Daniel sembra perplesso, aggrotta la fronte. Allora aggiungo: «Perché se ne sarebbe andata senza dirci niente? È strano, no?»

«Certo che è strano», risponde esasperato. «Ed è proprio per questo che voglio andare a fondo di questa maledetta storia, Franks. Non era per niente da lei prendere e andarsene così, da sola.»

Beve una lunga sorsata e restiamo in silenzio, entrambi immersi nei nostri pensieri. Helen si avvicina e ci porta le patate ripiene che abbiamo ordinato. Mi mette il piatto davanti senza nessun garbo, facendo cadere un po’ d’insalata sul tavolo; io la raccolgo e la rimetto a posto con fare seccato, ma lei non ci bada neppure. Si allontana per mettersi a pulire un tavolo canticchiando tra sé. Helen non mi è mai piaciuta; a scuola faceva la prepotente con me, e sembra che crescendo non sia cambiata affatto.

Daniel la indica con un cenno del capo. «Dobbiamo parlare con lei», dice con la bocca piena. «Lei c’era al Basement. Lo so per certo perché me l’ha detto Sid, che proprio quella sera si era messo con lei.»

«Sid?»

«Te lo ricordi senz’altro, faceva parte del mio gruppo. Era il cantante, anche se non sapeva cantare. Si sono sposati e hanno rilevato questo pub.»

«Sì che me lo ricordo. Chi se le dimentica le sue stecche», rispondo giocando col cibo che ho nel piatto. «Solo mi stupisce sapere che quella sera lui ed Helen... E che poi si siano pure sposati.»

Non solo era stonato come una campana, Sid; tutti dicevano che sua madre era l’unica donna che poteva trovarlo bello.

«Dai, Sid non è così male. Comunque sia, Helen potrebbe ricordare qualcosa d’importante. Vale la pena fare un tentativo.»

È possibile che Helen fosse al corrente di qualcosa che riguardava te, mentre io ne ero all’oscuro?

 

 

«Che frustrazione», dice Daniel sbuffando, mentre usciamo dal pub.

Ha ricominciato a piovere. Il mare è in burrasca, le onde s’infrangono con violenza sugli scogli viscidi coperti di muschio. Daniel si dirige spedito verso la sua Astra, costringendomi a lunghe falcate per stargli dietro.

Finalmente, raggiunta la macchina, si ferma. «Perché ho la sensazione che la gente sappia più di quanto voglia lasciare intendere?» Deve quasi urlare per farsi sentire, perche il vento e la pioggia spazzano via la voce. «Leon e Lorcan. E anche Helen. Sento che nascondono qualcosa.»

È chiaro che sta provando una grande frustrazione, ma ho la sensazione che sia arrabbiato con me. Non è certo colpa mia se Helen non ci ha voluto dire niente. Quando le abbiamo chiesto di parlarci di quella sera, lei ha detto di non ricordare nulla e poi si è come chiusa, lasciandoci intendere che non avremmo cavato un ragno dal buco. Però c’era qualcosa nella sua espressione, qualcosa nel modo in cui evitava di guardarmi negli occhi, che mi ha fatto sospettare che sappia più di quanto voglia farci credere. «Posso anche essere d’accordo con te, Daniel, però cerca di non diventare paranoico. Non bisogna dimenticare che sono passati quasi vent’anni.» Come faccio a spiegargli che, se per noi sei un cardine della nostra vita, per molti sei solo una che è scomparsa un sacco di tempo fa?

«Credo che domani dovremmo fare una visitina a Lorcan. Voglio vederci più chiaro.»

Mi sento impallidire. «Daniel, domani è domenica, Lorcan vorrà passare la giornata in famiglia e...»

«A me la famiglia qualcuno l’ha portata via. E potrebbe essere stato proprio lui. Devo scoprirlo.»

Mi fa segno di entrare in macchina, ma io scuoto la testa. «Faccio due passi, un po’ d’aria mi farà bene.» Non sono neanche le tre, non voglio tornare già a casa.

«Sei matta? Piove e tra poco sarà buio.»

È difficile dirgli che preferirei camminare per chilometri, piuttosto che tornare in quell’appartamento. Penserebbe che sono un’ingrata. Non che sia brutto, al contrario, ma è troppo isolato per i miei gusti. Per non parlare del panorama sinistro sul quale si affaccia... «Tranquillo, vado a piedi», insisto.

Lui sale in macchina. «Ti chiamo più tardi. Ciao.» Ma poi tira giù il finestrino. Ha la faccia e i capelli bagnati di pioggia. «Sicura di voler andare a piedi?»

Mi metto a ridere. «Sono adulta e vaccinata, Daniel», gli dico ricordando quella volta che proprio tu mi rispondesti così. Ti volevo mettere in guardia da Leon. Ah, se solo mi avessi ascoltata!

Daniel mi sorride con affetto. «Sei la solita cocciuta, Lady Frankie.»

Ho un tuffo al cuore. Perché quello che vorrei davvero è che venisse a casa con me, ma mi vergogno di chiederglielo. Mi ha detto di non essere sposato, ma non vuol dire che sia single, e del resto l’anello che porta al dito suggerisce che nella sua vita ci sia qualcuno di speciale. Mi attraversa la mente l’immagine di lui che mi bacia e mi spoglia... La rimuovo all’istante, lasciando spazio a un vago senso di colpa: Daniel è tuo fratello.

«Passo a prenderti domattina, verso le dieci e mezzo!» urla partendo.

 

 

Le strade sono deserte, l’aria odora di pioggia e di mare. Le grida dei gabbiani m’innervosiscono. Avevo dimenticato quanto detestassi quei maledetti pennuti. Parassiti del mare, come li definiva mio padre. Ripenso a lui, costretto su quel letto d’ospedale, e poi a quel verso atroce che gli è uscito dalla gola. Non riesco a togliermi dalla testa che cercasse di dirmi qualcosa.

Cammino lottando con l’ombrello che minaccia di girarsi dall’altra parte per via del vento. Alla fine mi arrendo e lo infilo in borsa, lasciando che la pioggia mi bagni la faccia e i capelli. Provo uno strano senso di libertà nel farlo; inspiro profondamente, poi espiro con la giusta consapevolezza, cercando di buttare fuori tutto lo stress accumulato negli ultimi mesi.

Quand’è che la mia vita è diventata così complicata?

Mi fermo davanti al Grand View, il nostro vecchio albergo. Non lo riconosceresti, Soph. A stento lo riconosco io. Alle finestre non ci sono più le tende di merletto ma persiane bianche di legno. L’azzurro della facciata è indubbiamente più elegante rispetto al rosa confetto di allora. Ma nonostante tutto, se mi concentro, mi pare di vedere ancora mio padre davanti all’entrata, giovane e fiero, in camicia di lino e pantaloni leggeri, che osserva la strada serafico e saluta i passanti. Oh, papà. Sistemo la borsa sulla spalla e mi affretto, passando davanti agli altri alberghi e alla sala giochi con le sue insegne luminose. Mi riparo sotto l’entrata per qualche minuto. Dentro c’è un gruppo di ragazzini attorno a uno che sta giocando; non vedo lo schermo, però è chiaro che si tratta del classico percorso a ostacoli su una moto. Quello che gioca ce la sta mettendo tutta, gli altri lo incitano e gli urlano istruzioni.

Mi rimetto a camminare sotto la pioggia, con le urla dei ragazzini e il basso insistente di un pezzo dance che mi accompagnano finché non attraverso per spostarmi sul marciapiede lato mare.

Supero la torre dell’orologio e lo stabilimento chiuso. La passeggiata deserta è spazzata dal vento. Dove di solito d’estate ci sono le giostre, adesso non c’è niente. Giro l’angolo seguendo il ritmo dei miei tacchi sul selciato e mi trovo davanti il vecchio pontile, seppure in lontananza, ma spaventoso più che mai. Qui la zona è più tranquilla, niente negozi né caffè, giusto qualche albergo prima della strada che sale al quartiere collinare, alla casa che mi ha trovato Daniel. Sono fradicia ma non me ne importa, continuo a camminare senza eccessiva fretta.

Sento la vibrazione del cellulare nella tasca dei jeans. L’ho messo lì apposta, dato che col vento e il mare grosso non avrei potuto sentire la suoneria. Sullo schermo il nome MIKE. Rispondo, anche se non vorrei. Si merita di più di un semplice messaggio in segreteria. «Ciao», gli dico. La voce mi trema un po’.

«Fran? Sono io, Mike», specifica lui, senza che ce ne sia bisogno.

La linea è pessima; mi giro per dare le spalle al mare, con l’illusione di sentire un po’ meglio, e premo un dito sul timpano dell’altro orecchio.

«Stai bene?» mi domanda. Per quanto sia arrabbiato, si preoccupa lo stesso di sapere come sto.

Mi sforzo di trattenere le lacrime. «Scusa... Mi dispiace di averti lasciato quel messaggio in segreteria. Hai ragione, sono una codarda.»

«Non importa, hai avuto un mucchio di guai ultimamente...» Mi aspetto che stia per chiedermi di ripensarci, di restare insieme. Invece sta pensando a tutt’altra cosa: «Volevo solo chiederti se potevo restare a casa tua per questa settimana, finché non ritorni».

Resto di sasso. Non voglio più stare con lui, d’accordo, ma accettando la cosa senza una reazione vera, senza nessuna resistenza, ferisce il mio orgoglio. A questo punto l’ideale sarebbe che se ne andasse subito da casa mia, ma come faccio a dirglielo senza sembrare crudele? Tu mi rimproveravi sempre di trattare male i miei fidanzati, Soph, ma il fatto è che non ho mai trovato quello giusto. Solo una volta ho creduto di sì... Ma lui non mi ha voluto.

A ogni modo ingoio il disappunto. «Spero di essere presto di ritorno», dico soltanto.

«Un mio amico ha una stanza dove posso sistemarmi, ma non prima del prossimo fine settimana.»

La comunicazione è sempre più vacillante; urlo nel microfono che va bene, che può restare fino al prossimo weekend, poi cade la linea. Resto a fissare il telefono per un po’, con la pioggia che bagna lo schermo. Poi lo rimetto in tasca e riprendo a camminare.

Storia conclusa, dunque. Ed è chiaro che anche lui, per quanto all’inizio la cosa lo abbia fatto arrabbiare, sa bene che è così. Sono sollevata, certo. Ma il sollievo che provo è rimpicciolito dalla delusione.

La desolazione di questi posti deserti si sposa alla perfezione col mio umore. Saranno passate da poco le quattro, eppure è già quasi buio. Mi guardo intorno: sono effettivamente l’unica persona per strada. In lontananza vedo i lampioni all’inizio del pontile, la loro luce ambrata che contrasta il buio del cielo e mostra la pioggia. A un tratto sento dei passi alle mie spalle; accelero i miei d’istinto, poi cerco di essere razionale: non è davvero il caso di farsi prendere dal panico, mi dico. Sarà pure buio ma è comunque pomeriggio, mica notte fonda. A Londra giro tranquillamente da sola pure alle due del mattino... Che diavolo ha questo posto che mi rende così nervosa?

Sbircio alle mie spalle per capire chi c’è, ma riesco solo a intravedere una figura con un impermeabile nero e un paio di stivali, la testa coperta da un cappuccio. A giudicare dall’altezza e dall’impressione generale che ne traggo dev’essere una donna. Non so perché sono spaventata, per l’aspetto forse, il cappuccio calato sulla fronte trasmette sempre un’inquietudine, c’è poco da fare, ma non vuol mica dire che sotto ci sia per forza un assassino... Oppure mi mette ansia sentire qualcuno che si affretta alle mie spalle. Però, insomma, chi mai se la prenderebbe comoda con un tempaccio simile?

Non c’è verso, l’istinto mi dice di cominciare a correre. Attraverso la strada e mi affretto lungo la salita del quartiere collinare. Anche la figura incappucciata si mette a correre. Ho il cuore in gola: mi sta seguendo davvero?

Continuo a correre, maledicendo i miei stivali così inadeguati. Finisco nelle pozzanghere, inciampo di continuo, e intanto sento ancora lo scalpiccio della persona che m’insegue. A un tratto mi pare di sentire chiamare il mio nome, ma potrebbe essere stato solo il vento. Arrivo in cima alla salita respirando a piena bocca, fradicia di pioggia e di sudore, ma non posso fermarmi a riprendere fiato, mi sta raggiungendo, devo continuare a correre anche se mi fanno male le gambe, anche se non ce la faccio più...

Finalmente raggiungo il portone. Cerco le chiavi dentro la borsa con le mani tremanti e senza nemmeno voltarmi, scacciando la sensazione di due mani gelide che mi afferrano per le spalle. Eccole, le chiavi! Cerco quella giusta... Calma, mi dico, devo stare calma. Al terzo tentativo riesco a inserirla, il portone si apre. Mi lancio dentro, lo richiudo immediatamente e salgo al piano.

Dalla finestra vedo la persona che mi ha seguito in fondo al vialetto. Ha il cappuccio dell’impermeabile sulla testa, le mani in tasca. Non riesco a decifrarne i lineamenti, ma scorgo una ciocca di capelli biondi che si agita davanti al suo viso.

La migliore amica
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