16

FRANKIE

Mi chiudo il pesante portone alle spalle e mi ci appoggio con la schiena e la nuca. Sono distrutta, schiacciata dalla stessa stanchezza che ho provato prima, davanti alla casa di Lorcan. Vorrei incontrare qualcuno della famiglia che sta al pianterreno, almeno così saprei di non essere da sola in questo vecchio palazzo pieno di tubazioni rumorose e di scricchiolii misteriosi. Finora l’unica persona che ho visto è la signora anziana che ieri è passata davanti alla macchina di Daniel.

Stanotte, mentre ero rannicchiata sul divano ad aspettare che i sonniferi facessero effetto, sono certa di aver sentito qualcuno che saliva le scale. Fuori soffiava forte il vento, facendo tremare persino le finestre, ma quando si fermava sentivo i gradini di legno scricchiolare sotto il peso di una persona. Il bambino aveva smesso di piangere da un po’, così ho teso le orecchie per cercare di capire dove fossero diretti quei passi, e a un certo punto mi è sembrato che si fossero fermati proprio davanti alla mia porta. Allora, col cuore in gola, mi sono alzata, mi sono avvolta nella coperta e ho strisciato i piedi fino alla porta per guardare dallo spioncino. Ma il corridoio era troppo buio per riuscire a vedere qualcosa. In realtà so bene, per esperienza, che nei vecchi alberghi si possono sentire un mucchio di rumori strani, perciò mi sono detta di stare tranquilla, e devo esserci riuscita, visto che poco dopo mi sono addormentata. Ma due notti passate a dormire poco e male mi stanno mettendo a dura prova.

Faccio per staccarmi dal portone, e mi accorgo di schiacciare qualcosa sotto lo stivale. Abbasso lo sguardo: eccola. La solita busta marrone lasciata sullo zerbino. La raccolgo senza nemmeno sperare che possa essere indirizzata a qualcun altro.

Stavolta però non sembra essere una lettera vera e propria. La busta è più pesante, e dentro c’è qualcosa di più voluminoso di un semplice foglio.

La apro con cautela ed estraggo il contenuto.

Un paio di piastrine di metallo.

 

 

Sto rimettendo tutte le mie cose dentro il borsone per tornarmene a Londra, quando suona il citofono. Guardo dalla finestra. Tuo fratello se ne sta sul vialetto con un’espressione seria in volto, davanti alla mia Range Rover. È venuto per non farmi partire. Poi capisco cosa sta guardando. Hanno tirato delle uova sulla mia macchina, i tuorli rossi risaltano sulla carrozzeria nera. Mi giro, lancio un urlo, sono furiosa.

Gli apro col citofono e lo aspetto sulla porta.

«Ho letto il tuo messaggio. Non te ne puoi andare, Frankie», dice appena arriva. Ha il fiatone e le guance rosse. «E poi dei ragazzini hanno tirato delle uova marce sulla tua macchina.»

Rientro in casa senza una parola e vado in salotto. Lui mi segue. Ho i piedi gelati, tanto che sono stata costretta a mettermi due paia di calze. Sul tavolino di vetro c’è la busta con le due piastrine sopra. Gliele indico mentre mi siedo sul divano. «Ho trovato queste ad aspettarmi, quando sono rientrata.»

Daniel aggrotta la fronte, si avvicina al tavolino, prende le targhette, le esamina perplesso. «Piastrine? Non capisco.»

«Quelle di Jason.»

Fa un’espressione di puro stupore. «Sono quelle di Jason?»

«Be’, non mi aspetto che siano proprio quelle che aveva al collo la sera in cui...» – non riesco neanche a dirlo – «ma sono molto simili. Le portava sempre, ricordi?»

Daniel socchiude gli occhi, come se stesse cercando di richiamare alla mente particolari di Jason da tanto tempo dimenticati. «Vagamente. Ricordo che ne volevo prendere un paio anche io. All’epoca andavano di moda.»

Mi alzo e gliele tolgo di mano. «C’è qualcuno che mi sta prendendo di mira, questo s’è capito. Ma perché recapitarmi delle piastrine?»

Daniel va verso la finestra. «Per metterti paura, è chiaro. E mi pare che stia funzionando, visto che te ne vuoi tornare a Londra a tutta velocità.»

Guarda fuori, e chissà se ti vede anche lui, su quel pontile. Mi avvicino anch’io alla finestra: adesso, con la sua presenza, ho meno paura. Ma tu non ci sei, il pontile è deserto, e il nevischio è tornato semplice pioggia.

Cerco un tono deciso: «Non è per questo che me ne vado». Mi dà fastidio che creda che me ne stia andando per paura. «Ci vuole più di qualche lettera anonima per farmi spaventare. E adesso si sono pure messi a tirare le uova. Patetici.»

«No, credo che le uova siano state opera di ragazzini e basta...»

«Le piastrine no, però. È un messaggio preciso, Daniel. E deve venire da qualcuno che sa di Jason.»

Non gli dico che vederti mi ha spaventato, Soph. Come potrei? Penserebbe che mi stia venendo un esaurimento nervoso. Non gli posso raccontare che sono certa di averti vista, che mi hai seguita fino a casa, che forse stai cercando di dirmi qualcosa, forse vuoi mettermi in guardia...

Lo so, è ridicolo. Io non credo ai fantasmi, eri tu che ci credevi. E l’ironia della cosa non mi sfugge affatto. Hai sempre voluto andartene da Oldcliffe e invece ci sei rimasta persino dopo essere morta. Per tormentare me.

Daniel si lascia cadere sul divano con un tonfo sordo. «Se non è per paura, allora perché te ne vuoi andare? Hai pagato l’appartamento fino a venerdì. A questo punto, resta.»

«Devo lavorare.»

«Avrai pur diritto a qualche giorno di vacanza, no?»

Alzo gli occhi al cielo. «Qualche, appunto.» Mi metto a sedere accanto a lui. Ho ancora il cappotto e me lo stringo addosso; Daniel si alza per accendere il fuoco.

Guardo le fiamme arancioni che cominciano a danzare dandomi conforto e calore, la loro luce ambrata scaccia le ombre e trasforma la stanza facendola sembrare più calda, più accogliente.

Ci chiedevamo sempre come fossero, dentro, queste case. A te piaceva questa parte della città, e ti piaceva tanto anche il pontile, perché non ti fermavi alle tavole marce e al ferro arrugginito, vedevi oltre, dicevi che era come un vecchio divo del cinema: un po’ sfiorito, ma ancora bellissimo. Lo guardavi e sognavi atmosfere da anni ’30: uomini con la paglietta in testa e donne coi vestiti lunghi fino alle caviglie, munite di ombrelli ricamati per proteggersi dal sole. A te quel pontile faceva sognare, io invece lo trovavo semplicemente brutto.

Daniel mi prende la mano e me la strofina. «Sei gelata, Franks. Ti senti bene?»

«Sì. Stavo pensando a Sophie.»

Lui mi guarda con occhi improvvisamente intensi. «Non te ne andare. Per favore. Resta, almeno per qualche altro giorno. Io...» – deglutisce, diventa rosso – «ho bisogno di te.»

«Non lo so...»

«Ma non capisci che lo scopo di chi ti manda queste cose è proprio quello di farti andare via? Perché evidentemente sa che siamo vicini a scoprire la verità.»

Faccio una risata amara. «Ma non lo siamo affatto, Daniel. Non sappiamo niente di quanto è successo quella sera. Non abbiamo scoperto nulla. Ormai è tardi, sono passati troppi anni. Io penso piuttosto che dovremmo rinunciare, e andare avanti con le nostre vite.»

Si avvicina, tanto che adesso le nostre ginocchia si toccano, e per quanto io non voglia sento un brivido di desiderio. Mi stringe la mano e ha il viso vicino al mio, così vicino che riesco a sentire il profumo di menta che viene dalla sua bocca e l’odore speziato della sua colonia. Vorrei toccarlo, baciarlo. Ma non ne ho il coraggio. Non dopo quello che è successo stamattina.

«La tua presenza qui a Oldcliffe sta facendo innervosire qualcuno, Franks. Non puoi non rendertene conto. Aspetta solo qualche altro giorno, per favore.»

«E se dovessi essere in pericolo, Daniel?»

Il suo tono è più dolce. «Qui sei al sicuro. E sei al sicuro con me.»

«Il palazzo è praticamente deserto e la zona è isolata. Io mi sento isolata.»

«C’è una famiglia nell’appartamento di sotto.»

«Che io non ho ancora visto, a parte la signora anziana di ieri. E a parte il bambino, che non ho visto ma l’ho sentito eccome.»

«Probabilmente sono spesso fuori casa, come te del resto. Se non altro sai che ci sono. Quindi non sei proprio del tutto isolata

«Ah, be’, grazie.» La fa facile, lui. Perché ha una fidanzata da cui tornare. Una persona che di notte gli dorme accanto.

Penso a Islington, alla voglia di tornare alla mia vita normale, al mio lavoro che non mi lascia neanche il tempo di respirare. Ma poi mi viene in mente di aver detto a Mike che può restare a casa mia fino al weekend, dunque tornare adesso significherebbe dover affrontare lui, l’imbarazzo, le sue domande. Rischierei persino di cambiare idea, di tornare con lui, di far finta di adattarmi a una relazione sterile... Ha ragione Mike: sono una codarda. Non ce la faccio ad affrontarlo. E allora non ho altra scelta se non quella di restare qui.

Ma se devo essere del tutto sincera con me stessa, il motivo per cui resto non è solo questo. Lo so che tuo fratello ha una fidanzata, ma andarmene adesso significherebbe dovergli dire addio probabilmente per sempre.

Daniel insiste. Ha un tono suadente. «E poi hai promesso che mercoledì saresti venuta con me alla centrale», aggiunge. «C’è ancora lo stesso ispettore di allora. Te lo ricordi? Holdsworth.»

«Quello che ci ha interrogato quand’è scomparsa?»

«Proprio lui, anche se all’epoca in realtà non era ancora ispettore.»

Me lo ricordo bene, Holdsworth. Alto e chiaro di capelli, con gli occhi di due colori differenti. Ci aveva interrogati tutti, ci aveva messo sotto torchio. Poi è stata ritrovata una delle tue scarpe e la polizia ha mollato la presa. O almeno, gli altri poliziotti hanno mollato, perché Holdsworth evidentemente sospettava qualcosa, visto che non ci voleva lasciare in pace. Una volta me lo sono ritrovato a casa che parlava con mia madre. Appena mi ha visto gli si sono illuminati gli occhi e mi ha interrogato per un’ora. Dov’ero quando te n’eri andata dal locale? A che ora ti avevo vista per l’ultima volta? Conoscevo qualcuno che provasse rancore nei tuoi confronti? Domande che mi aveva già fatto un milione di volte. Poi ho scoperto che le faceva anche a tutti gli altri, compresi i miei genitori. Dopo qualche settimana, lo sollevarono dall’incarico. Caso chiuso. Almeno fino a qui.

«Me lo ricordo eccome, sembrava non voler mollare l’osso. Si augurava che Sophie fosse stata uccisa, così si sarebbe aperto ufficialmente un caso di omicidio e lui ci avrebbe goduto un mondo a fare l’investigatore.»

«Però aveva ragione, no?» dice lui cupamente.

Deglutisco, la gola stretta, dolorante. «Non lo sappiamo... Gli hai parlato dei nostri sospetti?»

Scuote la testa. «No. Non ancora. In realtà comincio a pensare che sia il caso di parlargliene. Soprattutto dopo queste lettere. Potremmo farlo mercoledì, che ne dici?»

M’irrigidisco. Il pensiero di coinvolgere la polizia mi agita. E la cosa mi fa capire che non posso andarmene, non ancora. Non posso lasciare Daniel da solo ad affrontare tutto questo. Glielo devo. Vuole che vada con lui. Vuole me, non Mia. Significherà pure qualcosa, no, Soph? «Non so se sia il caso di coinvolgere la polizia. Tanto cosa possono fare? E se ci fosse stato davvero qualche malintenzionato, mi avrebbe già fatto del male, no?» Mi alzo, vado a mettermi davanti al camino e scelgo attentamente le parole che sto per dire: «Credi che la persona che mi ha spedito le lettere e le piastrine sappia anche cosa è successo a Sophie?»

«Sì.»

«E allora il nostro uomo è Leon. Chi altri potrebbe sapere quello che è successo a Jason? E a chi altri potrebbe importare, se non a suo cugino? Del resto è proprio il tipo cui verrebbe in mente di fare cose del genere.»

Leon mi odia da quando ho detto a Sophie che era meglio se lo lasciava. E da come mi tratta è evidente che nemmeno la notte che abbiamo passato insieme ha cambiato un po’ le cose.

Daniel alza le spalle. «Sì, forse... Non lo so. Chi può sapere a chi l’ha detto, sempre che l’abbia detto a qualcuno.»

Aggrotto la fronte. «E di Helen che mi dici? Era una stronza quando andavamo a scuola. Una volta abbiamo litigato e mi ha persino fatto uscire il sangue dal naso. Mi ha chiusa in uno sgabuzzino sapendo benissimo che ero claustrofobica. Forse Sophie si è confidata con lei e questo è il suo modo di punirmi. Le girava sempre intorno, avrebbe voluto liberarsi di me e diventare lei la sua migliore amica. Sophie era troppo ingenua per accorgersene, ma Helen era davvero perfida.»

Daniel sembra scettico.

«Be’, a qualcuno Leon deve averlo detto, altrimenti...» Non finisco la frase. Io non l’ho mai detto a nessuno.

Daniel esita. «Tuo padre», dice infine.

È come se mi avesse dato un pugno nello stomaco. «Che vuoi dire?»

«Credi che possa averlo detto a qualcuno?»

«Cosa? Certo che no! È stato lui a farci giurare di non dire mai niente. E così abbiamo fatto. O almeno è così che ho fatto io. Vale anche per Sophie? Non posso garantirlo. Insomma, Daniel, stava col cugino di Jason. E sai bene che brava ragazza era tua sorella, no? È piuttosto improbabile che sia riuscita a tenergli nascosta una cosa del genere. Si sarebbe sentita troppo in colpa.»

Sei sempre stata quella sensibile, Soph, quella onesta e piena di principi morali. E mi rendevi una persona migliore.

Daniel aggrotta la fronte. «È vero. Ma non ci stava insieme da tanto. Quanto sarà durata la loro relazione, sei settimane? Due mesi a dir tanto.»

Oh, Daniel. Lui non sa niente della vostra storia. Non sa quanto eri innamorata di Leon. Non stavate insieme da tanto, è vero, ma era comunque una cosa seria. «Si sono lasciati poche ore prima che lei sparisse. E quando quella sera le ho chiesto che cosa fosse successo, lei non me ne ha voluto parlare. È scappata in bagno a piangere, e Leon se n’è andato a casa.»

Daniel è agitato, non riesce a star fermo. «Credi che gli abbia detto quello che era successo con Jason e che lui l’abbia lasciata?»

«Non lo so. Sophie mi aveva detto che lui era innamorato, ma a me più che innamorato pareva ossessionato. Nessuno può sapere come stavano davvero le cose tra loro, e come mai si sono lasciati. Ma supponiamo che sia stata lei a mollare lui; sono abbastanza certa che in tal caso Leon non si sia rassegnato tanto facilmente. Lui dice di avere un alibi, ma...»

«Tutti possono crearsi un alibi. Steph? Lorcan? Potrebbe essere che si stiano tutti proteggendo l’un l’altro. Non possiamo avere certezze su nessuno, Franks. Soprattutto sulle persone che ci sono più vicine, perché sono quelle che possono ferirci di più.»

Lo guardo negli occhi. «È strano sentire da te una cosa del genere, non sei mai stato cinico.»

«Già, è vero, ma nella vita si cambia.»

Si alza, va alla finestra. Perderti lo ha cambiato più di quanto pensassi. Del resto non c’è da sorprendersi, eravate molto legati. Io invidiavo il vostro rapporto: vi prendevate in giro di continuo ma restando sicuri del vostro affetto, sempre attenti e protettivi l’uno verso l’altra. E sapere di non averti potuto proteggere, quella sera, per lui dev’essere davvero insopportabile.

Vado in cucina a mettere il bollitore sul fuoco. Quando torno in salotto, trovo Daniel che guarda il telefono e impreca. «Cos’è successo?»

Mi guarda, i lineamenti tesi. «Mi è arrivato un messaggio di Mia. Le ho detto che andavo al lavoro. Sì, lo so...» – mette subito le mani avanti vedendo la mia espressione – «non avrei dovuto mentirle. Ma a volte è un po’ gelosa, e il fatto che passi tanto tempo con te la preoccupa.»

È imbarazzato. Io faccio finta di niente, ma in realtà mi fa molto piacere sapere che Mia mi vede come una minaccia. «E lei sa che le hai detto una bugia, giusto?»

Lui getta il telefono sul divano. «Evidentemente sì. Helen è passata a casa nostra perché voleva parlarmi. Pare si sia ricordata di una cosa importantissima. A ogni modo Mia le ha detto che ero qui da te.»

Non mi stupisce che Helen si sia improvvisamente ricordata di una cosa importantissima. Te l’ho sempre detto che di lei non c’era da fidarsi. E ieri ho capito subito che ci stava mentendo.

Ma cosa può essere questa cosa importantissima che sa e che vuole dirci?

La migliore amica
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