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SOPHIE
Venerdì, 4 luglio 1997
Il gran fico che era con Frankie la settimana scorsa si chiama Leon McNamara. È metà irlandese, come me, ma ha i capelli castano scuro e gli occhi azzurri più belli che io abbia mai visto. Sono dello stesso colore dei miei Levi’s 501.
Leon. Già il nome mi piace tantissimo. È diverso. Molto più bello di Daniel, James, Simon o qualsiasi altro noiosissimo nome dei ragazzi che conosco. E non è solo il nome a essere fico. Gli piace la musica indie (ma la musica che ascolta non è certo l’unico motivo per cui mi piace) e non ascolta solo gli Oasis, per dire, ma anche gruppi di cui non ho mai sentito parlare, band che hanno nomi di animali, tipo Buffalo Springfield, o i Byrds, o un altro gruppo ancora che si chiama letteralmente Animals! È un tipo serio, direi anche silenzioso. E gli piace leggere. Ma non roba tipo Playboy o NME, qui si parla di libri veri, grandi classici come Il grande Gatsby e Persuasione. Non so se mi spiego: ha letto Jane Austen! Però non è affatto uno presuntuoso, non sta lì a darsi un sacco di arie come tanti che ho incontrato all’università. È un intellettuale pur senza aver fatto molti studi. È cresciuto in periferia, come me, a Brean. È pieno di contraddizioni: sta facendo un corso d’informatica ma scrive poesie e legge Jane Austen.
E poi – l’ho già detto? – è un gran fico!
Ha solo un neo, e adesso provo a chiarire qual è.
Eravamo al Basement, ieri sera, quando Frankie me l’ha presentato. Da quando ci siamo ritrovate ci vediamo praticamente ogni giorno. È tornato tutto come ai vecchi tempi, come se i quattro anni in cui non ci siamo viste non siano mai esistiti. Forse è normale, quando hai un’amica che conosci da così tanto tempo. Quando alla fine ti rincontri è come se fosse passato solo un giorno.
Frankie adesso lavora nell’albergo dei genitori dalle dieci a mezzogiorno: rifà i letti e pulisce le camere. La pagano anche bene, molto meglio di quanto paghino me per lavorare in quel cavolo di chiosco in centro a servire pesce fritto e patatine piene d’olio ai turisti. Be’, lei lavora per i suoi genitori, per cui è normale. Io finisco alle tre, perciò poi abbiamo tutto il pomeriggio per stare insieme. Quando sto con lei mi sento di nuovo un’adolescente. Facciamo le stesse cose che facevamo un tempo: passeggiamo sul Molo Grande, andiamo in sala giochi e mangiamo zucchero filato sulla spiaggia chiacchierando della vita e del futuro. Spesso la sera andiamo al pub, di solito al Seagull, perché lì la birra costa meno (e pazienza se il posto puzza di cane bagnato). Questa settimana però abbiamo speso in fretta quasi tutto lo stipendio, per cui un paio di sere fa siamo andate al vecchio pontile a bere Red Stripe in lattina con Daniel e i suoi amici Sid e Ade. Abbiamo passato la serata a raccontarci storie paurose, soprattutto quella di Greta e del suo bambino. Alla fine mi sentivo così spaventata che ero felice che ci fosse Daniel con me, quando siamo tornati a casa.
Va be’, sto divagando. Torniamo a quello che è successo ieri sera. Torniamo a Leon.
Il Basement è un locale che tira, ma il giovedì l’ingresso non è così caro come nel fine settimana, così siamo riuscite a entrare. Ancora non ci credo che mentre io ero all’università abbiano aperto qui a Oldcliffe un posto favoloso come il Basement. È nel sottoscala di un ristorante, ma con un ingresso indipendente. È piccolo e pieno di fumo, e mettono sempre un sacco di bella musica, quella che piace a me. Frankie pareva conoscere tutti. Non capisco come sia possibile, visto che è stata via tanto tempo, ma è più popolare che mai. Soprattutto tra i ragazzi. E in effetti è stata lei a presentarmi Leon.
Lui stava in piedi davanti al bancone, con una pinta in mano. Aveva una giacca di pelle, jeans scuri e un paio di scarpe scamosciate. Quando mi ha guardato con quegli occhi meravigliosi sono rimasta senza fiato. Lui invece mi ha notata a malapena. Mi ha salutato a mezza bocca bevendo la sua birra. Frankie se l’è prima sbaciucchiato, poi ha ordinato un paio di Diamon White e si è messa a parlare con due tipi, lasciandomi da sola con Leon. Eravamo tutt’e due abbastanza imbarazzati.
A un certo punto gli ho chiesto: «Passi molto tempo qui dentro?» Ma un attimo dopo mi sono resa conto della figuraccia che avevo fatto e temo di essere diventata rossa come un pomodoro. Lui lì per lì mi ha guardato male, però poi ha fatto un sorriso e siamo scoppiati tutt’e due a ridere, cosa che ci ha aiutato a rompere il ghiaccio. «Scusami, certe volte mi vengono fuori cose stupide...» gli ho detto mordicchiandomi le unghie. «Non intendevo dire quello che puoi pensare.» Non sono mai stata molto brava a fare la disinvolta con quelli che mi piacciono.
«Tranquilla», ha detto lui. E poi: «Non ti ho mai vista in giro».
«In realtà vivo qui da quando avevo sette anni. Ma sono stata via per un po’. Sai, l’università...»
«Ah, ecco», ha risposto lui passandomi la birra che mi aveva preso Frankie; in quell’istante le nostre mani si sono sfiorate, e a me è venuta la pelle d’oca. Frankie, che stava alle spalle di Leon, mi faceva un sacco di ammiccamenti per prendermi in giro.
«Io è da poco che vivo qui», ha continuato, totalmente ignaro del mio imbarazzo. Mi ha raccontato di essere cresciuto in Irlanda e di essersi trasferito a Brean quando aveva otto anni. «Sto a Oldcliffe dall’anno scorso. Vivo con mio fratello e la sua ragazza a Dove Way.» Quando gli ho sentito dire che abita praticamente a un passo da me ho dovuto trattenere un gridolino di felicità (avrei fatto la figura della sfigata!). «Devo dire che mi piace abbastanza vivere con Lorcan. È divertente, in pratica mi lasciano fare quello che mi pare.» Mi ha detto che ha appena finito un corso d’informatica, e che adesso lavora appunto come tecnico informatico per una compagnia di assicurazioni. Ha conservato un leggero accento irlandese. Gli ho detto che anche mia madre è irlandese.
L’ho ascoltato parlare di sé mentre sorseggiavo la mia birra e poi gli ho raccontato un po’ di me, confidandogli il mio sogno di lavorare nell’editoria.
«Vuoi fare la scrittrice?»
Mi sono ravviata i capelli con nonchalance. «Mi andrebbe bene qualunque cosa, basta che abbia a che fare con libri e parole.»
«Sai già cosa farai ora che hai finito l’università?»
«Sto inviando un po’ di domande di lavoro. L’anno scorso ho lavorato, il che è buono perché almeno ho qualcosa da mettere sul curriculum. Tra qualche settimana vado a fare un colloquio in una casa editrice nei pressi di Londra.»
Dall’espressione che ha fatto ho capito di averlo colpito.
«Fantastico. E che lavoro andresti a fare?»
«Redattrice. Il mio sogno è diventare editor, ma c’è molta concorrenza.» Non ce l’ho fatta a dirgli dei due colloqui che non ho passato, e nemmeno di tutte le candidature spontanee che spedisco in giro.
«Il mio sogno è sempre stato quello di fare il poeta, ma i miei vogliono che faccia un ’lavoro vero’.» Ha fatto il segno delle virgolette con le dita. «Per loro, andare all’università non serve a niente.»
«Però il corso d’informatica te l’hanno fatto fare, no?»
Lui ha alzato le spalle. «È diverso, perché faccio uno stage e mi pagano. E poi dal loro punto di vista un corso d’informatica offre delle prospettive, perché i computer sono il futuro», mi ha spiegato imitando il tono dei genitori. Nonostante il fare scherzoso, sul volto gli è passata un’ombra e per un istante è sembrato triste, però più saggio, più adulto. In quel momento avrei tanto voluto abbracciarlo.
A un certo punto ha indicato un tavolo in un angolo che si era appena liberato. «Che ne dici se ci andiamo a sedere?»
Io ho annuito, contenta di potermi allontanare un po’ da Frankie, che era ancora lì accanto a chiacchierare con dei ragazzi e che di tanto in tanto si girava per farmi le sue smorfiette di presa in giro. «Quindi scrivi poesie?» gli ho chiesto mentre ci sedevamo. Eravamo praticamente incastrati in un angolino, dunque vicinissimi l’uno all’altra, tanto che potevo sentire il suo dopobarba. CK One di Calvin Klein. Ho sempre avuto buon naso per i profumi.
Lui ha annuito buttando giù un altro sorso di birra. «Sì, scrivo poesie. E pure testi di canzoni, anche se in realtà, ahimè, non so suonare nessuno strumento.»
«Conosci Daniel Collier, mio fratello? Suona la chitarra in un gruppo. Ha imparato da solo.»
Sentendo il nome ha aggrottato la fronte ed è rimasto sul vago: «Sì, mi pare, il nome non mi è nuovo...» In effetti a Oldcliffe mio fratello lo conoscono tutti, come Frankie, del resto. Sono tipi estroversi, fanno amicizia facilmente. Al contrario di me.
Abbiamo parlato di musica e dei gruppi che ci piacciono. Quando gli ho detto di non aver mai sentito i Buffalo Springfield mi ha promesso che mi presterà un CD.
«Devo dire che Jez è un cazzone, ma di musica ci capisce», ha commentato quando il DJ ha messo un pezzo dei Bluetones.
Io mi sono messa a ridere. «Perché dici che è un cazzone?»
Leon ha alzato le spalle. «Guardalo.» Jez era curvo sulla consolle con le cuffie in testa e parlava con una ragazza bionda che aveva una minigonna inesistente e stivali lunghi da cubista. «Ha sempre qualche ragazzetta intorno solo perché è il DJ.»
«Non è che sei invidioso, per caso?» l’ho provocato senza smettere di ridere.
Allora ha riso anche lui, e ha bevuto un altro sorso di birra. «Ho poco da essere invidioso, visto che sono seduto al tavolo con la ragazza più carina del locale.»
«Ma va là, adulatore», gli ho risposto dandogli un buffetto sulla spalla. Allora Leon si è girato e mi ha guardato fisso negli occhi, avvicinandosi piano, magnetico, alla mia bocca.
«Eccoti, finalmente!»
Ho alzato lo sguardo: Frankie era a un passo dal nostro tavolo, i pugni sui fianchi. Ha mandato all’aria tutto. «È un’ora che state qui a chiacchierare. Dai, Soph, andiamo a ballare, tu adori questa canzone.»
Babies, dei Pulp. Non me n’ero neanche accorta. Senza lasciarmi il tempo di opporre resistenza, Frankie mi ha fatto alzare e mi ha portato in pista. Mi sono girata a guardare Leon, che ha scosso il capo e si è messo a finire d’un fiato la birra. Dio, quanto avrei voluto mollarle un calcio in quel momento!
«Perché ci hai interrotto? Stavamo benissimo», le ho sibilato una volta in pista.
Lei è diventata subito seria. «Meglio se lo lasci perdere quello, Soph. Non fa per te.»
Mi è salita ancora di più la rabbia. Ho smesso di ballare, per farle capire che non scherzavo. «E tu che ne sai di chi fa o non fa per me?»
Allora Frankie ha cercato di sminuire la cosa, con la bottiglia di Diamond White ancora in mano. «È un tipo un po’ strano. È insistente... Insomma non è uno che accetta un no come risposta, se capisci quello che intendo.»
Io sono rimasta a bocca aperta. «Cosa?»
«Dai, non prenderla in questo modo. Non è che ci ha provato con me o cose del genere.»
«E allora cosa intendi? È un tuo ex?»
Lei ha scosso la testa con vigore scompigliando i bei capelli neri e si è portata la birra alle labbra per una lunga sorsata. «Gli piacerebbe», ha detto poi mettendosi a ridere, e facendomi infuriare ancora di più. Quando ha capito che non trovavo la cosa divertente, ha smesso di ballare e si è fatta seria di colpo. «Mi piaceva quando l’ho conosciuto», ha ammesso. «Un mesetto fa ci siamo baciati e... Insomma da quel momento è diventato un po’ troppo insistente, ecco tutto.»
«Voleva che vi metteste insieme?»
«Sì. È un bel ragazzo, non lo si può negare, ma non è il mio tipo. Non ha prospettive, non ha ambizioni...» Ho aperto la bocca per risponderle, per difenderlo, ma lei ha fatto finta di non accorgersene. «Ha cominciato a darmi il tormento. Tanto che mi ha costretta a dirgli chiaro e tondo che non m’interessava. L’ho dovuto quasi minacciare, e finalmente il messaggio gli è entrato in testa.»
Sentire quelle parole mi ha fatto male. «Adesso però siete amici, no?» le ho chiesto, visto che la scorsa settimana erano insieme al Mojo.
Lei allora mi ha fatto un mezzo sorriso. «Be’, non è quello che avrebbe voluto lui, però sì, credo si possa dire che adesso siamo amici.»
Detto ciò, si è rimessa a ballare con gli occhi chiusi e tutta la sicurezza del mondo. Io invece me ne sarei andata via sbattendo i piedi. Ma in fondo perché? Non è mica colpa di Frankie se Leon si era preso una cotta per lei. Mi sono rimessa a ballare anch’io, e a guardarla. Il tubino corto e gli stivali alti la facevano sembrare una diva degli anni ’60. Come può non piacere a Leon? Io non posso proprio reggere il confronto.
Ho cercato di localizzarlo in mezzo alla gente e a tutto quel fumo, ma non sono riuscita a trovarlo. Ce ne siamo andate che era l’una passata. Per tutta la strada del ritorno Frankie non ha fatto altro che parlarmi di Jez, che ovviamente le aveva chiesto di uscire.
Solo stamattina ho trovato il bigliettino nella tasca della giacca. Un messaggio scritto sul tagliandino del guardaroba. Deve essere riuscito a corrompere qualcuno dello staff per farglielo mettere nella mia giacca.
Vediamoci al vecchio pontile. Venerdì alle 19. L.