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FRANKIE
Sta’ calma, mi ripeto ancora mentre accendo tutte le luci dell’appartamento, sta’ calma, non essere sciocca. Ma sono agitata. E mi manca il coraggio di ammettere quello che sto pensando: eri tu la persona che mi seguiva. Non può essere, lo so benissimo. A livello razionale, almeno. Tu sei morta. E io non credo ai fantasmi. Mi rifiuto di credere ai fantasmi.
Ma appena entro in salotto lascio cadere la borsa a terra: capisco subito che c’è stato qualcuno qui dentro, mentre io ero fuori. È difficile da spiegare, si tratta di una sensazione, però netta. Il salotto è diverso da come l’ho lasciato. C’è un odore diverso, più floreale, e le tende che avevo lasciato aperte adesso sono chiuse. Inoltre sono certa di avere lasciato il libro sul divano, mentre ora è sul tavolino. Mi vengono le palpitazioni. Stamattina dalla macchina di Daniel mi è sembrato di vedere qualcuno alla finestra. E sembravi proprio tu. Poi mi sono detta che doveva essere solo un po’ di condensa sul vetro, un inganno degli occhi. Ma ora...
Ho i brividi. Non ho mai sofferto di esaurimento nervoso, ma ho visto mia madre lottare contro una forma di depressione profonda, soprattutto quando ero più giovane. Attacchi, li chiamava mio padre. Non ne ho mai parlato neanche con te, Soph. Volevo far finta che non esistessero. Mamma si chiudeva in camera per giorni, rimaneva a letto senza neanche la forza di alzarsi finché mio padre non la convinceva ad andare dal medico per chiedergli di aumentare il dosaggio delle medicine, o cambiarle del tutto. A volte se ne andava addirittura, per rimettersi. Papà non mi ha mai detto dove andasse, per proteggermi, ma immagino che la ricoverassero in una clinica, in qualche ospedale psichiatrico. Quando tornava a casa stava bene, almeno fino al sopraggiungere di un nuovo attacco. E ogni volta faceva finta che non le fosse mai successo niente, o forse davvero nella sua testa tutto spariva come d’incanto, depressione e ricoveri. Negli anni questa cosa ci ha allontanate, e io di conseguenza mi sono avvicinata a papà. Perché con lui era tutto più semplice. I suoi sentimenti per me erano costanti, a differenza di quelli di mia madre, che passavano da un amore asfissiante alla pura indifferenza. Alla fine è rimasta solo l’indifferenza, o giù di lì. A ogni modo io ho sempre avuto il timore di aver preso da lei. Ho sempre temuto che un giorno quel genere di attacchi possano venire anche a me.
Prendo il telefono e chiamo Daniel, ma risponde la segreteria.
Butto il telefono sul divano con stizza, poi mi dico di respirare, di ragionare, di mettere a fuoco le cose, non sono una che si fa prendere dall’isteria. Deve esserci una spiegazione razionale. C’è sempre. Quella donna per strada non stava affatto seguendo me, ed è solo una coincidenza il fatto che vagamente ti somigliasse. Mi sono spaventata e mi sono fatta prendere dal panico. Le tende? Forse stamattina ho dimenticato di aprirle, tutto qui. Avevo dormito poco e avevo mal di testa. Spiegazione che vale anche per il libro sul tavolino. Oppure forse il proprietario di questo appartamento ha una persona che viene a fare le pulizie, anche se a dire il vero come ipotesi non regge molto, visto che di solito gli appartamenti vengono puliti prima dell’arrivo degli ospiti, non durante il loro soggiorno.
Cerco di distrarmi un po’, di far passare in qualche modo questo avanzo di pomeriggio. Mangio un toast, guardo un programma idiota alla tv, anche se si vede malissimo, e mi scolo quasi un’intera bottiglia di vino. Ma neppure così riesco a rilassarmi.
Ho ancora addosso la sensazione di essere osservata. Prima qualcuno mi ha seguito, è così, non può trattarsi di una coincidenza. Quella persona è rimasta all’inizio del vialetto a fissarmi finché non sono entrata nel portone. La londinese che c’è in me avrebbe affrontato quella persona, sarebbe andata a chiederle cosa diavolo volesse e a che gioco stesse giocando, ma da quando sono tornata qui a Oldcliffe mi sto lentamente trasformando nella ragazzina di un tempo. Non sia mai: non voglio tornare a essere la Frankie insicura di allora. Adesso sono Fran, ovvero una donna adulta, di successo, sicura di sé.
Questo posto non mi fa bene. Troppi ricordi, troppi fantasmi.
Stamane, al risveglio, mi sento in una versione surreale del film Ricomincio da capo. Il bambino ha ripreso a piangere nel cuore della notte, e ogni suo gemito è stato per me una pugnalata nel cuore. Per anni ho desiderato avere un figlio; l’ho desiderato così tanto che la cosa è diventata un’ossessione, un sogno così grande che avrei fatto qualsiasi cosa per realizzarlo. Ma a un certo punto, dopo una serie di aborti spontanei, non sono più riuscita a restare incinta. Allora mi sono sottoposta a trattamenti per la fertilità, e al terzo ciclo sono di nuovo rimasta incinta. Ero impazzita di gioia. Ma qualche giorno prima dell’ecografia che si fa alla dodicesima settimana, ho avuto un altro aborto spontaneo. Non dimenticherò mai il dolore lancinante, tanto fisico quanto emotivo, che ho provato nel perdere anche quell’ultimo bambino. Sentivo che insieme coi grumi di sangue stavo perdendo anche gli ultimi brandelli di speranza. Era una punizione per quello che era successo a Jason. Non meritavo di essere felice.
A ogni angolo di strada c’era una donna con una nidiata di figli che mi ricordava quello che io non avrei mai potuto avere. Sei mesi dopo, ho scoperto che Christopher mi tradiva con una collega di lavoro. Mi sono sempre chiesta che cosa ne avresti pensato, di lui. Mi piace credere che lo avresti detestato, che lo avresti bollato come un bastardo e un idiota. Quando l’ho affrontato, Christopher mi ha giurato che l’avrebbe lasciata, che sarebbe stato un marito migliore. Ma ormai era troppo tardi, non sarei riuscita a perdonarlo, così gli ho detto di andarsene, e che volevo il divorzio. Da allora non ho più permesso a nessun uomo di avvicinarsi abbastanza da potermi ferire. Non l’ho permesso nemmeno a Mike. Ma ormai sono passati tre anni, Soph, e io ho voglia di tornare a innamorarmi.
È questo che succede quando ci si sveglia nel cuore della notte. Si ha tempo per pensare e per autocommiserarsi. E allora, per non sentire le urla del bambino e dimenticare i brutti ricordi, ho preso un sonnifero, l’ho buttato giù con un bicchiere di vino e sono caduta in un sonno pesante sul divano. Solo che adesso, al risveglio, ho un mal di testa terribile.
Mi faccio una doccia e m’infilo un maglione e un paio di jeans, pentendomi di non essermi portata dietro un altro paio di scarpe oltre a questi scomodissimi stivali col tacco. Entro in cucina e vedo le tre bottiglie di vino che mi sono già scolata: devo andare a fare rifornimento.
Sto scaldando una ciotola di fiocchi d’avena nel microonde, quando qualcuno bussa alla porta facendomi sussultare. Non dev’essere qualcuno che viene da fuori, visto che non ha suonato prima al citofono. Mi avvicino alla porta in punta di piedi e guardo dallo spioncino. È Daniel, la sua immagine distorta dalla lente convessa.
Apro la porta. «Come sei arrivato qui? Non ti ho aperto il portone.»
Lui alza le spalle, noncurante. «Me l’ha aperto la signora del piano di sotto. Stava uscendo e mi ha fatto entrare. Ma perché mi guardi così?»
«Non mi piace che faccia entrare estranei nel palazzo. Che ne sa lei se sei un mio amico? Avresti potuto essere chiunque.»
«Caspita, Franks. Perché tutte queste paranoie?»
Come faccio a dirgli della lettera anonima e della persona che mi ha seguita ieri senza dovergli poi raccontare anche di Jason e del passato? All’improvviso mi sento molto sola. «Entra, dai. Non ho ancora finito di fare colazione.» Daniel mi segue in cucina. «Vuoi un po’ di fiocchi d’avena?»
Lui fa segno di no con la testa e il ciuffo si muove. «No, grazie. Ho già fatto colazione.»
Mi metto a mangiare in piedi, appoggiata al bancone, un po’ in imbarazzo che Daniel stia lì a guardarmi. La cucina è microscopica, lo spazio consente appena di muoversi, è quasi da claustrofobia. Dopo qualche cucchiaiata, metto nel lavandino la ciotola ancora mezza piena.
«Mangia, non voglio rovinarti la colazione.» Poi vede le bottiglie vuote. «Accidenti, Franks, ne hai bevuto di vino in questi due giorni.»
«Ho passato due notti qui dentro, e ti assicuro che l’unica cosa possibile era ubriacarsi. Ho provato a chiamarti ieri sera, ma ha risposto la segreteria.»
Daniel mi guarda stupito. «Io veramente non ho trovato nessuna chiamata persa. Ma è anche vero che qui il segnale è pessimo. Mi dispiace.» Si avvicina e mi prende la mano. «Sono stato io a chiederti di tornare, e tu l’hai fatto. Non sai quanto ti sono riconoscente per questo. Mi dispiace non potermi dimostrare un amico migliore. Avrei dovuto passare una serata con te, ma non è facile. Sai... adesso vivo con una persona, una donna. È una cosa recente e...»
Non finisce la frase, ma ha detto comunque abbastanza. Provo a ingoiare il disappunto, ma non va giù, rimane a pesare sul cuore. «Ho capito», riesco a dire, senza guardarlo negli occhi per non tradire quello che sto pensando.
«Lei sa quel che provavo un tempo per te», mi dice con un filo di voce.
Allora sì, alzo la testa e ci guardiamo, occhi negli occhi. Non aveva mai ammesso apertamente i suoi sentimenti, anche se l’ho sempre saputo. Tu mi prendevi in giro per questo, perché a me piaceva sapere che gli piacevo. Sarebbe andato tutto diversamente se avessi provato le stesse cose che provava lui? Ma in fondo al cuore so che all’epoca non sarebbe mai stato possibile: Daniel era soltanto quell’impiastro di tuo fratello maggiore. Mi vergogno ad ammetterlo, Soph, ma ho sempre pensato che Daniel non fosse abbastanza per me, quando eravamo ragazzine. Non era ambizioso, non era intraprendente, bighellonava tutto il giorno e poi la sera giocava a fare la rock star. Adesso invece capisco cosa mi sono persa: una persona che mi fa ridere, una persona cara e leale, un amico. Lo so cosa mi risponderesti tu: che Mike è tutte queste cose. Ed è vero, lo è. Ma non mi fa provare quello che sento con Daniel.
Mi avvicino e gli accarezzo la guancia. È fredda e ruvida. «Daniel...» sussurro. Ci guardiamo negli occhi e io avvicino il viso al suo, perché ho bisogno di sentire le sue labbra sulle mie.
Ma non appena gli sfioro la bocca, lui si allontana come se lo avessi punto. «Frankie... non posso. Mi dispiace.» Si gira dall’altra parte, si passa una mano tra i capelli. «Non sei... Non sono... Maledizione», impreca tirando un calcio all’armadietto, in preda a una lotta interiore.
Sono mortificata. «Daniel, mi dispiace. Mi hai appena detto che stai con qualcuno. Non avrei dovuto provare a baciarti. Scusami.»
Si volta, lo sguardo accusatorio. «Una volta ti amavo davvero.» Poi scuote la testa tristemente. «Scendo giù. Ti aspetto in macchina.»
Sento la porta sbattere. Chiudo gli occhi. Vorrei non doverli riaprire per ore.
Invece passo dieci minuti a cercare di ricompormi in fretta. Mi trucco, poi sistemo la cucina ed esco, con la paura di trovare un’altra lettera anonima. Stavolta sullo zerbino non c’è niente, ma non faccio in tempo a tirare un sospiro di sollievo: dalla cassetta della posta penzola, come una linguaccia, una busta marrone come quella di ieri. La prendo, sforzandomi di restare calma. Sopra c’è il mio nome. Mi si contrae lo stomaco, ma devo aprirla, adesso.
Un foglio. E una sola parola, al centro, stampata a lettere grandi e scure:
ASSASSINA