XII

Dalla scissione di Renzi al ciclone dell’Umbria

Renzi contro Conte: «Una scissione leale»

Riccardo Fraccaro, sottosegretario alla presidenza del Consiglio e amico di Luigi Di Maio, aveva appena messo a riposo la voce dopo la lettura dei 42 nomi di viceministri e sottosegretari di Stato (21 M5S, 18 Pd, 2 LeU, uno del Movimento associativo italiani all’estero) che Matteo Renzi se n’era andato dal Partito democratico tirandosi dietro 2 ministri e 1 sottosegretario (Anna Ascani, viceministro, è rimasta nel Pd per lavare lo sgarbo di non essere diventata ministro). L’annuncio fu dato martedì 17 settembre, anche se se ne parlava da almeno tre giorni, quando si era visto un sottodimensionamento della sua corrente nei sottosegretari (Renzi aveva anche bisticciato un po’ con Franceschini, ma alla fine era andata così).

Spostò fino a quel martedì un’intervista con Annalisa Cuzzocrea della «Repubblica», decisa già da due giorni, e sparò: «Quello che mi spinge a lasciare è la mancanza di visione sul futuro». Avvertì Nicola Zingaretti con un whatsapp solo mentre usciva l’intervista. «Non mi ha fatto nemmeno una telefonata» mi racconta placido il segretario del Pd.

E così, dico a Renzi, se n’è andato all’improvviso… «Ma quale improvviso! Franceschini e Bettini sapevano tutto. Fin da quando abbiamo deciso di fare il governo con i 5 Stelle sapevano che saremmo andati via. Ero stato esplicito con loro. Dario diceva: “Ti convincerò a fare la scissione il più tardi possibile”. Goffredo suggeriva: “Facciamola ordinata”. Ma tutti sapevano tutto…» (In realtà, nel Pd si aspettavano la scissione dopo la Leopolda di metà ottobre: la sorpresa è stata nell’anticipo.)

D’accordo, gli dico, ma poi Simona Bonafè, coordinatrice del Pd in Toscana, sembrava aver spiegato l’uscita con il fatto che la sua regione, per la prima volta, non era rappresentata al governo. «Simona e con lei il sindaco di Firenze, Dario Nardella, hanno solo fatto polemica perché la Toscana, la regione italiana in cui il Pd è più forte, non ha nessun dem al governo. Ma con le ragioni della scissione non c’entra nulla. Non a caso, sia la BonafÈ sia Nardella sono rimasti nel Pd. Di che parliamo?»

Conte è rimasto spiazzato… «Strano. Mi pare che questi ultimi mesi abbiano dimostrato che il presidente Conte abbia una certa duttilità persino nel cambiare maggioranze e sostenere tesi opposte. Stupisce, dunque, che s’imbarazzi davanti alla semplice creazione di un nuovo partito dentro la stessa maggioranza. Non abbiamo cambiato schieramento, noi. Abbiamo solo fatto una separazione il più possibile consensuale da un partito nel quale eravamo attaccati tutti i giorni. Mi stupisco del suo stupore, insomma. Se fossimo usciti dopo, avremmo messo in difficoltà il governo. Portargli più voti al momento della fiducia è stato un regalo. Quando in ottobre si è votata la nota di aggiornamento del Decreto di economia e finanza, il governo ha avuto solo 3 voti in più della maggioranza assoluta alla Camera. Senza i 25 voti di Italia Viva, Conte sarebbe andato a sbattere. Non dico che mi aspettavo un grazie, ma forse una certa narrazione di Italia Viva come sfasciacarrozze andrebbe corretta: se non avessimo fatto il partito, oggi il governo sarebbe già andato sotto.»

Mi racconta il presidente del Consiglio: «La sera stessa del giuramento dei viceministri e dei sottosegretari, Renzi mi telefonò per informarmi che l’indomani avrebbe annunciato la sua uscita dal Partito democratico e la nascita di un nuovo partito. Mi spiegò che Italia Viva avrebbe continuato ad appoggiare il governo e, quindi, non sarebbe cambiato nulla».

E lei? «Gli dissi che non era affatto vero che non cambiasse nulla. Nasceva una nuova forza politica con cui il governo avrebbe dovuto confrontarsi. Se mi avesse anticipato la sua decisione prima dello scioglimento della riserva, lo avrei potuto coinvolgere sia nell’elaborazione del programma che nella formazione del governo. La nascita di due nuovi gruppi parlamentari cambiava radicalmente le cose.»

Quando uscì l’intervista sulla «Repubblica», Conte chiamò Zingaretti: «Perché non me lo hai detto?». E l’altro: «Guarda che l’ho saputo poco fa».

Mi dice Di Maio: «Mi meraviglio di chi si meraviglia. Si aspettavano che sarebbe rimasto a fare il senatore di Firenze schiacciando il bottone quando si vota? Non ci ho mai creduto. Nelle mie perplessità iniziali ad allearci con il Pd c’era anche questo. Ha il progetto di far cadere il governo? La storia ci insegna che chi lo fa, poi la paga. Ricorda: “Enrico stai sereno”? E anche Renzi alla fine ha pagato. E oggi non condivido la sua campagna acquisti».

E aggiunge: «Teresa Bellanova [capodelegazione di Italia Viva] è una persona ragionevole, con cui si può parlare e lavorare. E non credo che Renzi farà cadere Conte. In ogni caso, dopo quello che abbiamo visto con Salvini, questa è una passeggiata».

«Per inquadrare la scissione di Renzi» mi spiega Zingaretti «bisogna vedere che cosa è accaduto dopo il 14 dicembre 2018 con la mia candidatura alla segreteria. Lui è rimasto in osservazione e in attesa. Stava su un’auto ferma sul ciglio della strada aspettando di rientrare in corsia.»

In un’altra corsia, perché dice che la vostra non era molto ospitale. «Non è vero che la scissione affonda le radici nell’impossibilità di restare dentro un Pd diventato settario. È vero l’opposto. È vero che grazie all’ossessione dell’unità mi son preso critiche per la mia presunta immobilità. Non abbiamo mai vissuto come nel 2019 il pluralismo nelle scelte del partito. Moltissime persone che hanno votato Renzi hanno avuto un approccio più unitario. Si è visto nelle candidature alle elezioni europee. Eppoi, senta: non si può vivere nel Pd perché saremmo un partito settario di sinistra? Gentiloni, Sassoli, Franceschini, Zanda, il nostro tesoriere, le paiono bolscevichi?»

Zingaretti: «Non si può governare insieme solo per paura di Salvini»

Nel caldo ottobre romano del 2019 incontro Nicola Zingaretti nel suo luminoso ufficio dell’antico Collegio Nazareno, nel cuore della Roma politica. Il palazzo dove nel 1630 Giuseppe Calasanzio fondò il collegio è immenso e l’ala occupata dalla direzione del Partito democratico con i suoi interminabili corridoi dà, da sola, un’idea di grandezza legata a tempi passati. Certo, non c’è più l’intimidente solennità del palazzone alle Botteghe Oscure dove andavo a intervistare Enrico Berlinguer e (di nascosto) Giorgio Amendola. E poi Alessandro Natta e Achille Occhetto, fino a Massimo D’Alema, che il giorno del suo insediamento alla segreteria del Pds dopo la batosta elettorale del 1994 mi fece salire sulla terrazza dove si nascondevano gli amanti clandestini Palmiro Togliatti e Nilde Iotti e dove c’erano ancora le pietre da lanciare sulla strada in caso di aggressione fascista.

«Il Nazareno esiste nella narrazione delle cronache» mi dice Zingaretti con sommessa ironia. «Ma non c’è, non si vede.» E mi parla del sempre imminente trasferimento in un’altra sede più periferica (e meno costosa). «Un open space frequentato anche come centro culturale, un coworking al pianoterra…»

Chiedo a Zingaretti perché abbia lanciato un’alleanza durevole e strategica con una forza così diversa in tutto dal Pd come il Movimento 5 Stelle. È una brutta mattina per lui. Il cielo sereno, il caldo estivo di un’ottobrata romana abbacinante contrasta con il sentimento cupo che si respira nel palazzo costruito da Calasanzio. Alle elezioni del 27 ottobre 2019 il Pd ha tenuto rispetto alle elezioni europee di due mesi prima, ma il distacco di 20 punti dalla coalizione di centrodestra è un macigno sull’alleanza con i 5 Stelle e sul segretario, che in agosto non voleva fare il governo e poi ha investito su un progetto strategico.

«Per la verità io ho affermato che è riduttivo governare insieme l’Italia solo per paura di Matteo Salvini o per occupare poltrone; ed è necessario, invece, avviare un confronto sui contenuti e su una possibile visione del futuro. Se si governa insieme, si è alleati, non nemici.»

È facile l’integrazione con il M5S?, gli chiedo. «No, ma è di fondamentale importanza non viverla come esaltazione delle differenze, come è accaduto nel governo gialloverde. L’errore drammatico delle due vicepresidenze Salvini - Di Maio fu alimentare un gioco al massacro con la contemplazione e l’esaltazione delle differenze. Noi dobbiamo cambiare passo. Sulla maggioranza è ovvio che bisogna voltare pagina. Mi auguro una nuova solidarietà nella coalizione, che non può essere un campo di battaglia quotidiana. Questo offusca la bontà delle cose fatte e mina la credibilità di tutti.»

Zingaretti dà l’impressione di voler prendere per mano inquietudini e contraddizioni del M5S e accompagnarlo verso una definitiva scelta istituzionale. «La politica non è fatta di emoticon su Facebook in cui giudichi con il dito all’insù o all’ingiù. La politica è un giudizio.» Per questo ha voluto un governo politico. «Mi avrebbe spaventato più un governo tecnico di quello che abbiamo fatto con i 5 Stelle. Io non ho mai votato per un governo tecnico. Per questo ho voluto un politico come Roberto Gualtieri all’Economia, perché al massimo della crisi occorre il massimo della politica.»

In effetti, è la prima volta dalla fine della Prima Repubblica che un politico puro (gli studi accademici di Gualtieri riguardano la storia) occupa la scrivania di Quintino Sella. All’inizio, anche Giulio Tremonti fu considerato soprattutto un tecnico. Gualtieri ha firmato una legge di bilancio necessariamente povera e fatalmente controversa. («È povera, sì,» precisa il segretario del Pd «ma garantisce una maggiore equità grazie a una precisa scelta di campo.»)

Faccio osservare a Zingaretti le bizzarrie delle proposte di ennesima modifica della legge elettorale. La storia ci dice che vengono sempre fatte più contro qualcuno che per qualcosa. E, in genere, si ritorcono contro i proponenti. Per arginare Salvini, la sinistra valutò una legge completamente proporzionale: rappresentanza per tutti, governabilità complicata. Insorsero giustamente Romano Prodi e Walter Veltroni. Dopo la scissione di Renzi, che sarebbe stato ovviamente favorito dal proporzionale, ci fu una marcia indietro con il ritorno al maggioritario. Dunque?

«Non c’è solo il tema Renzi» risponde Zingaretti. «Nel Pd esiste la cultura del maggioritario, ma è vero anche che questo sistema non ha garantito la stabilità del presidente del Consiglio. Soltanto Berlusconi (2001-2006) ha concluso una legislatura. Con la riduzione del numero di deputati e senatori il problema si è complicato perché, senza una revisione dei collegi, ci sarebbero in alcune aree partiti non rappresentati. Nelle regioni e nei comuni abbiamo un sistema maggioritario. I due paletti del Partito democratico sono, perciò, o un proporzionale con alta soglia di sbarramento o un maggioritario a doppio turno. Di Maio dice: “Vediamo in Parlamento”. Noi siamo disponibili.»

«Io rimango per il maggioritario, perché per questo ho combattuto» puntualizza Renzi. «E per questo ho perso la poltrona di premier: per un sistema in cui si sapesse la sera il nome del vincitore. Inutile piangere sui referendum del passato. Tuttavia, oggi, non abbiamo i numeri per decidere da soli e, dunque, daremo una mano. Per noi andrebbe bene sia se proponessero un proporzionale con sbarramento del 5 per cento come in Germania sia un maggioritario con il ballottaggio al secondo turno. Se faranno altro, ascolteremo.»

Di Maio: «Se Conte si rafforza, è un bene per il governo»

Luigi Di Maio ha subìto con sofferenza il distacco da Salvini. La realpolitik e l’orgoglio gli impediscono di ammetterlo. Ma è così. Aveva fatto un investimento e l’investimento è fallito. È un uomo costretto dalla famiglia a un secondo matrimonio che deve farsi piacere. Ecco, quindi, arrivare nel nostro colloquio parole di sollievo per la nuova esperienza: «Rispetto ai livelli di tensione che avevamo raggiunto con la Lega, questo governo ha una serenità ben maggiore nel lavorare e nel permettere al M5S di ottenere risultati: taglio dei parlamentari, decreto clima, carcere per gli evasori, decreto di stabilizzazione degli insegnanti. Quattro obiettivi raggiunti. Dopo le prime interlocuzioni, il Movimento ha incoraggiato l’alleanza, a partire da Grillo, Casaleggio e Fico».

D’accordo, ma il Movimento vive un momento di grandi fibrillazioni, dalle divisioni per l’elezione dei capigruppo alla rivolta di ex ministre come Giulia Grillo e Barbara Lezzi, che non sono state confermate. Appena lei si allontana, accade qualcosa… Di Maio sorride: «Qualunque cosa faccia, per alcuni è sempre troppo. Il Movimento non è più diviso di quanto lo fosse quando eravamo alleati con la Lega. Ha tre anime: i postideologici, che non si sono mai riconosciuti in un’alleanza piuttosto che in un’altra, i delusi di destra e i delusi di sinistra. In un dibattito politico che va polarizzandosi sempre di più non è facile tenere insieme le diverse sensibilità. Ci siamo dimenticati delle divisioni su Virginia Raggi? E delle polemiche del passato su Beppe Grillo e, soprattutto, su Gianroberto Casaleggio? A Gianroberto ne hanno fatte passare di tutti i colori, soprattutto negli ultimi due anni di vita».

Il Movimento sta cambiando?, gli chiedo. «Certamente. Prima i nostri militanti erano in gran parte giovani, adesso ci sono moltissimi ultracinquantenni. Per questo stiamo attuando una nuova organizzazione. Diciassette persone avranno ruoli nazionali organizzativi e tematici, assumendo una parte rilevante degli attuali poteri del capo politico.»

E veniamo ai rapporti con Conte. I giornalisti – che non a caso Massimo D’Alema chiamava «iene dattilografe» – scrivono con qualche ragione che i rapporti tra i due siano conflittuali, per motivi comprensibili. Dopo quattordici mesi vissuti da liberto al servizio di Salvini e Di Maio, Conte si è liberato del primo con il micidiale discorso in Senato del 20 agosto 2019 e si è progressivamente smarcato dal secondo. Rocco Casalino, considerato anche dagli avversari il miglior comunicatore insieme a Luca Morisi, si è progressivamente allontanato da Luigi in favore di Giuseppe, che prima lo considerava un vigilante, oggi un prezioso collaboratore strategico. Non è un segreto che l’attuale presidente del Consiglio aspiri a essere il candidato premier di un centrosinistra di cui il maggiore azionista è il Pd, con un Movimento sempre più marginalizzato.

Per questo a fine ottobre 2019, prima delle elezioni umbre, Di Maio da un lato e Renzi dall’altro hanno ripreso piena libertà di azione, costringendo il governo di cui fanno parte a dilazionare provvedimenti già approvati e con scadenze vicine, dalla limitazione del denaro contante all’uso obbligatorio del pos presso studi professionali ed esercizi pubblici. Conte e Zingaretti non hanno apprezzato.

«Io non ho problemi a limitare l’uso del contante» mi spiega Di Maio. «Il problema è che l’illustrazione che era stata fatta del decreto fiscale è che, limitando il contante a 2000 euro, moltiplicando le macchinette del pos e multando di 30 euro il commerciante o il ristoratore che non lo usa, sarebbe stata sconfitta l’evasione fiscale. È un’immagine devastante. Quando ho visto che il dibattito prendeva questa deriva ho dovuto attivare una comunicazione forte per fermarla. Il rinvio delle misure ne è il frutto.»

Al contrario di Zingaretti, che ha spalle forti e può guardare in prospettiva, immaginando il risultato dell’Umbria (seppure in dimensioni meno drammatiche) all’immediata vigilia del voto Di Maio mi ha detto: «Non può esserci tra noi e il Pd un’alleanza strutturale. Vedremo caso per caso sul territorio se ci sono le condizioni per lavorare insieme. Il Pd campano non è quello lombardo o emiliano. In Umbria abbiamo condiviso un candidato estraneo alle forze politiche, che alle elezioni comunali aveva votato per il centrodestra. Noi postideologici valuteremo di volta in volta dove sono i presupposti per lavorare».

Alla domanda se Conte non stia giocando sempre più in proprio, il capo politico del M5S non può non avere per lui che parole di plauso: «In questo governo Conte ha una forza e una presenza maggiore, anche perché non è schiacciato nel continuo dibattito tra le due forze di maggioranza, come è avvenuto nel governo precedente. Prima doveva concentrarsi sulla diatriba quotidiana e questo gli aveva impedito di venir fuori con la sua personalità. Oggi, sia pure tra le difficoltà, riesce a ragionare per obiettivi. Acquista sempre più forza dal punto di vista politico? È un bene per il governo».

Se per caso dovesse cadere, voi proseguireste l’alleanza con il Pd con un altro presidente del Consiglio (Mario Draghi o altri) o preferireste le elezioni? «Conte ha tutta la nostra fiducia e io sono una persona concreta, rispondo a scenari concreti, non ai se o a previsioni approssimative.»

Conte, i servizi segreti e gli Stati Uniti

Anche Giuseppe Conte lavora in un clima più rilassato, sebbene il tracollo della sinistra in Umbria sia stato superiore alle attese («Voto da non trascurare, ma non incide sul governo»). Mi dedica due ore del suo tempo senza interruzioni telefoniche nello studio di palazzo Chigi. E quando gli domando se non gli sia sembrato strano trovarsi allo stesso tavolo di palazzo Chigi alla guida di due governi diversi nel giro di qualche giorno, mi risponde: «No. Con i nuovi alleati si è instaurato subito un bel clima. C’è molto entusiasmo. Un maggiore senso di responsabilità rispetto al passato. Se lei guarda la foto dell’ultimo giuramento al Quirinale e la confronta con quella del governo precedente, percepirà subito l’immagine di una crescita istituzionale».

Gli ho chiesto dei due colloqui riservati avuti a Roma dal segretario americano alla Giustizia William Barr: il primo il 15 agosto con il capo dei nostri servizi Gennaro Vecchione, esteso il 27 settembre ai direttori dei servizi di sicurezza per l’Interno e per l’Estero. E gli ho fatto presente che è del tutto irrituale l’incontro di un’autorità politica straniera con dirigenti dei nostri servizi segreti. I colloqui diplomatici avvengono tra omologhi: politico con politico, intelligence con intelligence.

Conte mi ha correttamente risposto che avrebbe riferito al Copasir, il Comitato parlamentare per la sicurezza della Repubblica (l’audizione è avvenuta il 23 ottobre), ma mi ha ricordato che Barr ha il controllo dell’Fbi. Ho obiettato che le cose non cambiano. Sarebbe come se lui – che ha mantenuto il controllo dei servizi segreti – parlasse con il direttore della Cia.

Avrebbe dovuto essere presente al colloquio? Nemmeno. È la presenza dei nostri dirigenti a essere anomala.

Riepiloghiamo. Il mondo dei servizi segreti occidentali, egemonizzato dagli Stati Uniti, si articola su due livelli. Il primo, chiamato «5 Eyes» (Cinque occhi), unisce la Cia e i servizi inglese, canadese, australiano e neozelandese (cioè il mondo anglosassone che si scambia informazioni e non è detto che le trasmetta sempre agli alleati). Il secondo livello comprende la Francia (competenza per l’Africa), la Germania (Europa), Italia (Mediterraneo), Israele (Africa orientale, Medio Oriente con estensioni asiatiche). Seguono altri paesi Nato. Una regola non scritta impone che nessun dirigente dei servizi di un paese abbia mai contatti con autorità politiche straniere.

In giugno fu avviata per via diplomatica una trattativa con l’Italia per avere informazioni su una «pista italiana» che avrebbe danneggiato Donald Trump durante la campagna elettorale del 2016 contro Hillary Clinton. Uomo chiave della vicenda è un ambiguo professore maltese, Joseph Mifsud, molto legato alla Russia. Come scrivemmo nel 2018 in Rivoluzione, secondo il procuratore speciale Robert Mueller, che indagava sui rapporti tra Trump e la Russia, Mifsud avrebbe riferito a George Papadopoulos, consigliere della campagna di Trump, che il governo russo era in possesso di molte mail imbarazzanti di e su Hillary Clinton. Mifsud avrebbe avuto i contatti con Papadopoulos alla Link Campus University di Roma, presieduta dall’ex ministro dell’Interno Vincenzo Scotti, oppure a Londra. Un anno fa feci all’ex ministro della Difesa Elisabetta Trenta, insegnante della stessa università, i nomi della persona sospettata dall’Fbi di aver offerto agli uomini di Trump le mail sulla Clinton e di altri tre pezzi da novanta dell’intelligencija putiniana, e lei mi confermò che in effetti costoro erano inseriti in un progetto di master ideato da Mifsud per la Link e poi mai attuato. Quando i democratici scoprirono che i loro computer erano stati violati, scoppiò il Russiagate e Mifsud scomparve (novembre 2017).

L’inchiesta di Mueller non ha portato materiali sufficienti all’incriminazione di Trump che, in vista della candidatura per la conferma nel 2020, è passato al contrattacco. (Anche perché il supposto scambio di favori con il presidente ucraino per mettere in difficoltà il vicepresidente Joe Biden fa parlare di nuovo di impeachment). Il personaggio chiave è sempre Mifsud, ma, a giudizio di Papadopoulos, la storia delle mail sulla Clinton sarebbe stata una polpetta avvelenata per azzoppare Trump fin dall’inizio. Secondo questa tesi, Mifsud non sarebbe uomo dei russi, ma dei servizi americani (o inglesi o italiani), e sarebbe stato usato sotto l’amministrazione Obama per colpire il candidato repubblicano. Poiché Papadopoulos ha tirato in ballo i servizi italiani durante il governo Renzi, quest’ultimo gli ha sparato addosso una causa milionaria.

Il governo americano ha apprezzato le assicurazioni di Conte sull’acquisto dei caccia F35, sulla permanenza italiana in Afghanistan, sul mantenimento delle sanzioni alla Russia (per noi assai dannose), per l’attivazione di sistemi di sicurezza che arginino la potenza cinese sul 5G. Ricordate gli auguri a «Giuseppi»? In questo clima di rinnovata collaborazione, il giorno di Ferragosto il ministro della Giustizia Barr e il nuovo procuratore John Henry Durham sono venuti a Roma per incontrare il prefetto Gennaro Vecchione, chiamato da Conte come generale di divisione della guardia di finanza a dirigere il Dis, che coordina i servizi di sicurezza. Vecchione ha una visione romantica e bellicosa del mestiere (sul suo profilo whatsapp c’è un’immagine di Russell Crowe in Il gladiatore) e non va affatto d’accordo con i capi dei due servizi sottoposti, Luciano Carta, generale di corpo d’armata della guardia di finanza che dirige i servizi per l’estero (Aise), e Mario Parente, generale di divisione dei carabinieri (prima di essere nominato prefetto) che si occupa della sicurezza interna.

Barr e Durham sono tornati a Roma il 27 settembre, perché sospettano che Mifsud abbia avuto la copertura dei servizi italiani. Vecchione ha convocato i colleghi, che però hanno fatto resistenza richiamandosi all’irritualità dell’incontro, così che il loro direttore ha dovuto invitarli per iscritto. Barr e Durham ritengono che noi possiamo aiutarli a rintracciare Mifsud: vorrebbero interrogarlo. Quali informazioni hanno avuto i due americani?

Per la prima volta nella nostra storia parlamentare, uscito dall’audizione al Copasir, coperta da segreto, il presidente del Consiglio ha tenuto una conferenza stampa in cui ha chiarito che l’incontro non è stato uno scambio di cortesie con Trump per la benedizione impartita a «Giuseppi» e che si è limitato ad accogliere la richiesta di informazioni sull’operato dell’intelligence americana in territorio italiano, escludendo un nostro coinvolgimento nella vicenda. Ha inoltre attaccato Salvini per la vicenda del Metropol, di cui ci siamo già occupati in questo libro.

A metà ottobre 2019 si è saputo che l’ufficio di Barr è in possesso di due cellulari BlackBerry di Mifsud ricevuti, secondo i media americani, dai servizi italiani, i quali negano però tale circostanza. Il 25 ottobre Barr ha aperto un’inchiesta penale per accertare se quelli che chiameremmo «servizi deviati» americani hanno cercato di danneggiare Trump e ha annunciato di avere «prove» che avrebbe raccolto a Roma e che Conte, invece, nega di avergli fornito.

Ho chiesto a Conte se, a suo giudizio, Salvini si è troppo esposto in favore della Russia e la sua risposta è stata: «No comment».

Non crede, gli ho domandato, che un rapporto stretto con gli Stati Uniti anche per questioni di presunto spionaggio possa crearci qualche difficoltà con la Russia? «Noi non saremo mai in difficoltà né con gli Stati Uniti né con la Russia. La nostra politica estera procede su binari ben chiari: da un lato, collocazione atlantica e integrazione europea; dall’altro, un multilateralismo efficace. Come primo responsabile del governo mi muovo sempre per conservare credibilità e prestigio. Nessuna inchiesta metterà in discussione la credibilità internazionale dell’Italia.»

Veniamo a Salvini: che cosa gli rimprovera nel suo standing internazionale? «Ha pensato troppo alle campagne elettorali, non rendendosi conto che il ruolo e le responsabilità di ministro dell’Interno richiedono un atteggiamento completamento diverso.»

Nei giorni successivi alle elezioni in Umbria, Salvini ha battuto sul presunto conflitto d’interessi di Conte per un parere che ha dato su una grossa operazione finanziaria sulla quale sta indagando il Vaticano per sospetta corruzione. Nell’aprile 2018 due cordate societarie si fronteggiano per stabilire quali debbano essere i manager che guideranno Retelit (azienda di telecomunicazioni che dispone in Italia di una rete di 12.500 km di fibra ottica garantendo il collegamento digitale di 9 grandi città): da una parte c’è il fondo Fiber 4.0 (8,9 per cento del pacchetto azionario), di proprietà al 40 per cento del finanziere Raffaele Mincione, dall’altra un cartello di azionisti, guidato dal fondo tedesco Svm-Axxion (9,99 per cento) e dai libici di Bousval (14,37 per cento), che alla fine ha prevalso. Ma Mincione non ci sta e si rivolge all’avvocato Giuseppe Conte per avere un parere legale in suo favore, sperando di ribaltare la situazione. Secondo il finanziere, infatti, la cordata vincente avrebbe dimenticato di comunicare al governo di avere ormai il controllo di Retelit. Omissione tanto più grave perché Bousval è una società libica, il che renderebbe nulla l’operazione.

La sera del 13 maggio Conte incontra in una suite dell’hotel NH di largo Augusto, a Milano, Matteo Salvini e Luigi Di Maio, che gli annunciarono la sua candidatura alla guida della coalizione gialloverde. Il giorno dopo, Conte, ancora nelle vesti di avvocato, firma un parere pro veritate, dando ragione a Mincione: a suo dire, esisteva l’obbligo di notifica al governo, proprio in ragione del fatto che Bousval è di proprietà libica. E nel parere ricorda che il governo avrebbe potuto sanzionare la mancata comunicazione sul nuovo assetto di controllo di Retelit, precisando che «in casi eccezionali di rischio … il governo può opporsi, sulla base della stessa procedura, all’acquisto».

Il 7 giugno, al secondo Consiglio dei ministri, il governo gialloverde, presieduto da Salvini (il premier era al G7 in Canada), ribalta la decisione dell’assemblea societaria di Retelit e accoglie l’istanza della cordata che si era rivolta a Conte, «mediante l’imposizione di prescrizioni e condizioni volte a salvaguardare le attività strategiche della società nel settore delle comunicazioni». Il supposto conflitto di interessi di Conte nel giugno 2018 fu alla base di un’interrogazione dei deputati del Pd Michele Anzaldi e Carmelo Miceli.

Un anno dopo, il 27 ottobre 2019, giorno delle elezioni regionali in Umbria, il «Financial Times» ha rivelato che il denaro con cui Mincione aveva conquistato la posizione di guida all’interno di Fiber 4.0, circa 200 milioni di euro, proveniva dalla segreteria di Stato del Vaticano. Proprio quest’ultima e i suoi giri di affari con le società di Mincione erano al centro di un’indagine della polizia vaticana, che all’inizio di ottobre ha portato alle dimissioni di 5 dipendenti della segreteria di Stato e al sospetto che milioni e milioni di euro siano stati sottratti alle casse del Vaticano per realizzare investimenti azzardati. Conte ha replicato che «non era a conoscenza e non era tenuto a conoscere il fatto che alcuni investitori facessero riferimento a un fondo di investimento sostenuto dal Vaticano e oggi al centro di un’indagine».

Il 28 ottobre 2019 Conte ha reso noto un giudizio del 24 gennaio 2019 a lui favorevole sulla vicenda da parte dell’Antitrust.

Renzi: «Vista l’Umbria, ho salvato io il governo»

Renzi è contento di essere tornato al centro dei giochi. «Veramente stavo bene a fare le mie conferenze in giro per il mondo. E avevo fatto più vacanze negli ultimi 18 mesi che negli ultimi 18 anni» mi dice. «È vero, però, che se non mi fossi mosso, ci sarebbero state le elezioni e i pieni poteri a Salvini. Ho potuto fare la mossa vincente perché mi davano tutti per morto. La zampata del leone ferito di cui nessuno si occupa più.»

E aggiunge: «I cellulari sono un termometro micidiale. Nell’estate del 2018 il mio era morto, come quello di Lorenzo Guerini. Nei giorni di Ferragosto di quest’anno Lorenzo mi chiama ironico e mi dice: “Anche il tuo cellulare, Matteo, è tornato a bollire? Perché io ricevo centinaia di messaggi di amici che mi scrivono: ‘Sono a disposizione’”. Detesto certe italiche attitudini…» Non lo dica a me, che ho scritto un libro sui voltagabbana.

Ora, dove pensa di arrivare?, gli chiedo. «Voglio far crescere una start up generazionale. Italia Viva può rappresentare uno spazio incredibile per la politica italiana: una grande casa liberale e democratica, che rifiuti gli estremismi di chi sta con i sovranisti, come Salvini e Meloni, e di chi punta a un’alleanza strutturale tra 5 Stelle e Pd. Per Italia Viva non c’è uno spazio: c’è una prateria. In questo progetto io sono contemporaneamente un punto di forza e uno di debolezza. Alla più grande Leopolda del decennio c’erano migliaia di persone commosse. E queste persone erano lì soprattutto per me. Ma io sono anche uno dei leader più odiati, diciamo la verità. Mi hanno costruito addosso un’immagine vergognosa: leggo i giornali e mi sto antipatico da solo. Vedo i talkshow e mi scopro a pensare che io, questo Renzi, non lo voterei mai. Non fosse una cosa seria, ci sarebbe da ridere.»

Si è chiesto la ragione? «Più di una. I miei errori: chi fa, sbaglia. Diceva Philip Roth che è così che si scopre di essere vivi, sbagliando. E poi il potere rende antipatici. Aggiunga una campagna diffamatoria quasi senza precedenti: ho chiesto risarcimenti danni milionari; penso che le azioni civili di risarcimento costituiranno la mia pensione. Infine, la maggiore quantità di fuoco amico che si sia mai vista in un partito, come ha riconosciuto qualche giorno fa un osservatore indipendente come Paolo Mieli. Ma adesso sono tornato a sorridere.»

Vede rosa il suo futuro? «Sì. È rosa anche il mio presente: ho fatto il premier, il sindaco, sto bene, sono felice con la mia famiglia e vedo crescere i miei figli. Ma vedo rosa il nostro futuro, perché sono certo che riusciremo a trasformare il partito personale in un partito delle persone. Italia Viva andrà oltre il 10 per cento nei prossimi tre anni. Arriverà gente dal Pd, da Forza Italia, dai 5 Stelle. Ma, soprattutto, arriveranno persone di qualità dalle professioni, dall’associazionismo, dal terzo settore. Un partito pro-crescita, pro-business, che abbassa le tasse e che allarga i diritti. Tutti lo vogliono, noi possiamo farlo.»

Certo, se poi arriva Mara Carfagna… «Deciderà lei, senza tirare nessuno per la giacchetta. Non è un mistero che io la stimi molto, e non solo io. Però capisco anche il suo sincero travaglio interiore. Italia Viva avrà in ogni livello decisionale un uomo e una donna alla guida. Molti saranno parlamentari e amministratori provenienti dal Pd, qualcuno da LeU, da Scelta civica, dall’associazionismo. Ma ci sarà spazio anche per persone che vengono dal centrodestra, e con ruoli di rilievo, non come figurine. Voglio, ad esempio, che il dipartimento Giustizia sia guidato da solidi garantisti: il giustizialismo è una piaga della nostra società. Aver introdotto la responsabilità civile dei magistrati, coronando dopo trent’anni un sogno di Enzo Tortora, è stato solo un primo, timido, passo. Io credo nella giustizia e non nel giustizialismo. E penso che le sentenze vadano rispettate sempre: ma le sentenze sono quelle della Cassazione, non quelle di Facebook o di qualche giornale schierato politicamente.»

In Umbria, la prima alleanza Pd-M5S è stata disastrosa… «Se avessi dato ascolto a Zingaretti e Gentiloni,» mi racconta Renzi «il risultato delle politiche sarebbe stato lo stesso che in Umbria: un trionfo dei sovranisti di destra. L’Italia sarebbe stata un’Umbria più grande e per cinque anni Salvini avrebbe dominato ovunque. Anziché attaccarmi, mi dovrebbero ringraziare.»

E prosegue: «Una sconfitta figlia di un accordo sbagliato nei tempi e nei modi. Lo avevo detto, anche privatamente, a tutti i protagonisti. E non a caso Italia Viva è stata fuori dalla partita. In Umbria è stato un errore allearsi in fretta e furia, senza un’idea condivisa, tra 5 Stelle e Pd. E non ho capito la “genialata” di fare una foto di gruppo all’ultimo minuto portando il premier in campagna elettorale per le regionali. Nello staff di Chigi, evidentemente c’è qualcuno che pensa che Conte possa fare i miracoli, intervenendo in campagna elettorale e cambiando i risultati: ignorano, questi signori, che i sondaggi sulla fiducia nei leader non si traducono mai in voti. La percentuale di gradimento ti dice quanto sei simpatico, non quanto sei votabile. E non sempre le due cose coincidono. Lei sa meglio di me, caro Vespa, quanto nella storia repubblicana leader con un altissimo livello di fiducia personale non sono riusciti a trasformarlo in consensi elettorali. Perché è quella che si chiama “fiducia istituzionale”: gratifica l’ego, ma non incide alle elezioni. Fare uno scontro tra l’alleanza organica Pd - 5 Stelle e l’alleanza sovranista è stato un errore in Umbria e, se replicato ovunque in futuro, apre a Italia Viva un’autentica prateria».

Dunque, non è d’accordo sulla strategia unitaria organica ovunque?, gli chiedo. «No» mi risponde senza esitare Renzi. «L’idea che ha qualche ex compagno del Partito democratico di sentirsi investito della missione divina di civilizzare i barbari – considerando tali i 5 Stelle, che spesso, in realtà, sono molto più “istituzionali” e amati dal sistema di quanto lo siamo noi – è arrogante e fuori della realtà. E quando vedo che in Umbria si mettono le penali a chi esce dal Pd, penso che il Pd stia copiando la Casaleggio Associati. E me ne dolgo. Io voglio fare politica, non essere eterodiretto dalla Piattaforma Rousseau. Voglio essere libero e voglio fare politica, non seguire il populismo.»

Berlusconi: 11 cani, 12 nipoti

«Ormai ho 11 cani e 12 nipoti» dice Silvio Berlusconi accogliendomi nel caldo ottobre brianzolo di villa San Martino ad Arcore. È stato preceduto da un festoso barboncino bianco. È Dudù?, chiedo al maggiordomo. «No, è Sciu Sciu.» Figlio di Dudù e di Dudina? «No, loro hanno tre figli, ma Sciu Sciu è della signora Marina.»

Berlusconi prende posto su un divano e un barboncino bianco gli si accuccia sotto il braccio. Questo è Dudù?, azzardo. «No, è Peter, figlio di Dudù.» (Quando andiamo a tavola, il Cavaliere serve tre piatti di pollo ad altrettanti barboncini bianchi, per me indistinguibili.)

Come sta Berlusconi?, si chiede molta gente. Ha compiuto 83 anni, come ricorda un grande tabellone augurale che gli hanno regalato. Sta bene, se si pensa ai quattro seri interventi chirurgici che ha subìto, alle cure che ne conseguono, alla vita che ha fatto, agli «88 processi che ho subìto (ne restano 8…), alle 3672 udienze, ai 105 avvocati e consulenti che ho incontrato e pagato. Da ventisei anni devo dedicare alcune ore del finesettimana a preparare udienze…».

Avrà sbagliato qualche volta, ma nessuno al mondo ha avuto una vita giudiziaria paragonabile alla sua. Come deve sentirsi un uomo di 83 anni che ha ricevuto per regalo di compleanno l’ennesima accusa di essere sodale della mafia, al punto di aver organizzato le stragi del 1993, alla vigilia della sua discesa in campo, compresa quella tentata ai danni di Maurizio Costanzo e di sua moglie Maria De Filippi? («Un vecchio amico e una star di Mediaset, pensi un po’! Masochismo assoluto… Ho ricevuto moltissime testimonianze di vicinanza. Certo che l’ho sentito, Costanzo. Che vuole che dica dinanzi a un’accusa del genere?»)

È scontato che adesso la nostra conversazione parta da Matteo Salvini. Sono ventisei anni che incontro Berlusconi per il mio libro natalizio in quanto leader indiscusso del centrodestra e nessuno avrebbe mai immaginato che, in sei anni, la Lega sarebbe passata dal 4 per cento delle elezioni politiche del 2013 (con il Popolo delle Libertà oltre il 21) al 34 per cento delle europee 2019 (con Forza Italia all’8,8).

«Salvini» mi dice il Cavaliere «è una persona di grande energia e di grande dinamismo – ha saputo trasformare la Lega in un’importante forza politica nazionale – e ha una straordinaria capacità di comunicazione e di mobilitazione del suo popolo. Ha commesso a mio giudizio degli errori, il primo dei quali è stato il disastroso governo gialloverde, che non solo ha tenuto in vita per più di un anno, ma che ha anche tentato di riesumare nei giorni più difficili della crisi di governo questa estate. Sentire il leader della Lega che riproponeva Di Maio come premier – anche se è stata solo una mossa tattica – è stato davvero qualcosa di inascoltabile per noi e, credo, anche per molti dei suoi elettori.»

Adesso come sono i vostri rapporti? «Mi pare che ora Salvini abbia capito che, per loro come per noi, non c’è spazio fuori dal centrodestra, e che si tratta di costruire una coalizione plurale nella quale vi sia spazio sia per le sensibilità della destra sovranista sia per quelle dei liberali. Se è davvero così, potremo collaborare lealmente e vincere insieme non solo le tante elezioni regionali che abbiamo davanti, ma anche le consultazioni politiche, quando finalmente ci saranno, e tornare insieme al governo del paese. Salvini ha visto anche quanto siano stati indispensabili i nostri voti per la vittoria nelle elezioni regionali svoltesi finora.» (Per la prima volta, in Umbria questo non è avvenuto.)

Come segno di attenzione, Berlusconi – che centellina ormai le sue apparizioni pubbliche – è andato in Umbria alla vigilia delle vittoriose elezioni regionali di fine ottobre e alla grande manifestazione promossa dalla Lega in piazza San Giovanni a Roma il 19 ottobre.

Mi pare che, dopo la manifestazione, nei suoi rapporti con Berlusconi sia tornato il sereno, dico a Salvini. «È vero, d’altra parte governiamo insieme in tanti comuni e in metà delle regioni italiane. È evidente che, nei tempi nuovi, la Casa degli italiani non possa essere la somma dei tre partiti del vecchio centrodestra. Dobbiamo far crescere la coalizione, coinvolgere governatori senza patria, come Giovanni Toti in Liguria e Nello Musumeci in Sicilia, allargarci alle realtà civiche e alle imprese, ampliare i nostri orizzonti in ogni direzione.»

Invece con Giorgia Meloni ci sono tensioni ricorrenti… «Ma no, a San Giovanni ci rimproverò di aver portato sul palco il simbolo della Lega. D’altra parte, la manifestazione era stata organizzata da noi. Ma non vedo nuvole: l’opposizione al governo è unita nelle commissioni parlamentari e sul territorio. Una grande squadra comune.»

Le due anime di Forza Italia

Ci sediamo a tavola, dove si parte con un flan di parmigiano al tartufo bianco. Chiedo al Cavaliere di guardare dentro il suo partito: c’è chi spinge per stringersi alla Lega, chi guarda a Renzi come a un possibile futuro socio.

L’ala filoleghista viene guardata con simpatia da Niccolò Ghedini, uomo forte del partito anche se si muove dietro le quinte, e sostenuta apertamente da Licia Ronzulli, Paolo Romani e da altri parlamentari del Nord, convinti che solo Salvini possa garantire loro il seggio. L’ala «autonomista» è guidata da Antonio Tajani e dalle capogruppo Mariastella Gelmini e Anna Maria Bernini, dispostissimi a seguire Berlusconi se desse davvero corpo ad Altra Italia.

Il 1° agosto 2019 Giovanni Toti ha lasciato Forza Italia per fondare un suo partito, Cambiamo!. Era stato elevato al rango di coordinatore nazionale insieme a Mara Carfagna per il rilancio di Forza Italia. Gli fu chiesto: vuoi farlo con Berlusconi, senza Berlusconi o contro Berlusconi? «Con Berlusconi!» rispose. Ma, di fatto, provò a emarginarlo. La Carfagna sperò di restare sola. La inserirono invece in un comitato a cinque con Tajani, Gelmini, Bernini e Sestino Giacomoni, storico assistente di Berlusconi. E lei non la prese affatto bene. Il comitato, peraltro, non si è mai riunito e abbiamo visto che, non a caso, Renzi corteggia la Carfagna con insistenza.

«Sono francamente stanco di vedere Forza Italia rappresentata in questo modo. La parola definitiva l’ho detta da molto tempo, facendo sintesi di quello che pensa la grande maggioranza, direi anzi la totalità degli aderenti, degli eletti, dei militanti di Forza Italia. Noi siamo una grande forza moderata, liberale, cattolica, riformatrice, siamo gli eredi delle migliori tradizioni politiche italiane, siamo gli unici portatori coerenti dei valori alla base della civiltà occidentale. Siamo il partito della libertà, del mercato, del garantismo. Questo significa che siamo qualcosa di profondamente diverso dalla Lega e dalla destra – pur essendo con loro lealmente alleati – e che siamo del tutto incompatibili con la sinistra in qualsiasi forma. Forza Italia non fa parte del centrodestra, Forza Italia è il centrodestra. Se qualcuno davvero pensasse a un soggetto unico del centrodestra, farebbe un grave errore, perché siamo profondamente diversi dai nostri alleati e ci rivolgiamo a elettorati diversi.»

D’accordo, faccio notare, ma Renzi ha l’obiettivo dichiarato di succhiarvi una fetta di elettorato. «Con l’ennesima mossa spregiudicata della sua storia politica, Renzi è stato il primo artefice della nascita del governo giallorosso, il governo più a sinistra della storia della Repubblica. Come potremmo trovare un punto d’accordo? Renzi è un uomo che ha costruito tutto il suo percorso di vita nei partiti della sinistra. Certo, la sua è un’interpretazione della sinistra più moderna di quella di alcuni esponenti del Pd o di Liberi e Uguali, ma comunque non ci riguarda. Noi giochiamo nell’altra metà campo. Se qualcuno credesse davvero nella possibilità di un accordo con Renzi – o, al contrario, pensasse di passare dall’alleanza alla confluenza con la Lega – sarebbe fuori da Forza Italia. Ma tutto questo, mi creda, non esiste.»

Quindi, non vede uno spazio politico autonomo per un nuovo partito centrista. «Si sta tornando di nuovo al bipolarismo. Centrodestra contro centrosinistra. Una al governo, l’altra all’opposizione. Lo spazio sterminato che molti vedono al centro non supera l’8 per cento.»

Per ribadire la sua posizione moderata, lei ha parlato dei suoi alleati come «fascisti» e «secessionisti». Loro non hanno gradito… «Era un riferimento al 1994, quando feci entrare nel circuito costituzionale il Msi, che ne era tenuto fuori dopo la Liberazione, e la Lega, che voleva smembrare l’Italia.»

Teme fughe di suoi parlamentari?, chiedo al Cavaliere. «Non temo nessuna fuga,» risponde «e non ne vedo il rischio. In ogni caso, ricordo che chi ha lasciato Forza Italia non ha mai fatto una bella fine politica. Anche la riduzione del numero totale di deputati e senatori dalla prossima legislatura, fra l’altro, non renderebbe conveniente per nessuno andare ad accasarsi in gruppi che, comunque, subiranno un forte ridimensionamento alle future elezioni.»

Forza Italia, però, ha votato per la riduzione dei parlamentari… «Condivido il principio, non le modalità. Ricordo, anzi, che i primi a realizzare davvero un taglio netto del numero dei parlamentari siamo stati noi, nel 2005, con la riforma costituzionale approvata dalla maggioranza di centrodestra, e fatta cadere dalla sinistra con un referendum tutto giocato sull’antiberlusconismo e non sui contenuti. [La riforma del 2005 prevedeva la riduzione dei deputati da 630 a 518 e dei senatori da 315 a 252. Quella approvata l’8 ottobre 2019 prevede 400 deputati e 200 senatori.] Se quella riforma fosse entrata in vigore, già da dieci anni avremmo avuto molti parlamentari in meno, ma questo sarebbe avvenuto all’interno di una riforma complessiva del ruolo del Parlamento e dell’equilibrio fra i poteri dello Stato, attraverso l’introduzione di un sistema presidenziale che avrebbe consentito ai cittadini di scegliere direttamente a chi affidare la massima guida del paese. Oggi si è trattato di un semplice atto di propaganda antipolitica dei grillini, che ha anche conseguenze gravi sul piano della rappresentanza: avremo, per esempio, intere regioni d’Italia dalle quali scomparirà la possibilità di eleggere parlamentari delle minoranze.»

«Urbano Cairo non scenderà in politica»

È vero che ha visto di recente Urbano Cairo, chiedo a Berlusconi, e, se sì, avete parlato di politica? «Sento e vedo periodicamente Urbano, al quale mi legano un’antica amicizia e collaborazione. Con lui è scontato parlare di politica e so che molte sue idee sono simili alle nostre. D’altronde, Cairo ha dimostrato di essere un grande imprenditore con la nostra stessa cultura dell’impresa e del lavoro. Se, però, la sua domanda allude alla possibilità di un suo diretto impegno politico, l’ha esclusa più volte e non ho motivo di ritenere che abbia cambiato idea. In questi anni ho sollecitato molti imprenditori a scendere in campo come ho fatto io venticinque anni fa: credo che la politica italiana avrebbe tutto da guadagnarne. Ma proprio la mia esperienza, quello che ho dovuto passare in questi anni, e con me la mia famiglia, le mie aziende, i miei amici, scoraggia molte persone dal correre gli stessi rischi.»

Naturalmente, Forza Italia non apprezza la politica fiscale del governo, che ha ribattezzato: «Più tasse e più manette». «Ne penso malissimo, ma non mi attendevo nulla di meglio dal governo più a sinistra della storia della Repubblica. Le tasse e le manette sono due aspetti dello Stato nemico della libertà, uno Stato che ci priva del nostro denaro e dei nostri diritti. È il contrario dello Stato liberale. È lo Stato etico, che si basa su una presunta superiorità morale del pubblico rispetto al privato, delle istituzioni rispetto ai cittadini. È un modello pericolosissimo, che nel Novecento ha portato alle peggiori dittature. Al tempo stesso è anche un modello del tutto inefficiente: l’abuso delle manette non ha mai diminuito il numero dei reati, l’abuso delle tasse non ha ridotto la povertà né ha messo a posto i conti pubblici.»

Berlusconi è critico anche sul complesso della nuova manovra economica: «Siamo inchiodati da tempo alla crescita zero, siamo il fanalino di coda dell’Europa e nella manovra non c’è nulla che possa rimettere in moto lo sviluppo. Al Sud, la situazione è drammatica. Ma anche qui al Nord, per le imprese è sempre più difficile lavorare in queste condizioni. Condivido il grido d’allarme lanciato dal presidente di Assolombarda, Carlo Bonomi, all’assemblea della sua associazione. È il grido d’allarme di tanti imprenditori, ma anche di artigiani, commercianti, agricoltori, professionisti. Di tanti lavoratori sottopagati per colpa di una tassazione sul lavoro insostenibile. E, a questo proposito, si è fatta tanta propaganda sui tagli al cuneo fiscale: magari lo avessero fatto davvero, questo taglio! Invece le somme stanziate sono davvero drammaticamente insufficienti per fare un intervento credibile ed efficace.»

Questa legislatura, gli domando, secondo lei giungerà al termine? «Spero di no, ma non lo escludo affatto. Se hanno messo insieme le diverse sinistre, lo hanno fatto evidentemente per durare, per impedire che il centrodestra, la maggioranza naturale degli italiani, conquisti il governo del paese. Tutto è possibile, perché le loro contraddizioni sono tante, ma il potere è un collante formidabile, ci sono da fare nomine importantissime, si avvicina l’elezione del capo dello Stato. Almeno fino a quella data è probabile che la legislatura duri, sempre che le diverse elezioni regionali in programma nei mesi a venire non diano un risultato talmente chiaro, talmente clamoroso, da sconfessare platealmente la sinistra, dimostrando al di là di ogni possibile dubbio che la coalizione rossogialla è maggioranza in Parlamento, ma minoranza nel paese.»

Berlusconi non vuole commentare la polemica sui servizi segreti che ha toccato Giuseppe Conte circa presunti favori all’amministrazione americana. «Sinceramente non mi piace avventurarmi in dietrologie. Lo scontro politico va mantenuto su un altro piano: se è accaduto qualcosa di improprio, saranno gli organismi competenti a farlo emergere. Credo, però, sia doveroso tutelare le istituzioni e anche chi pro tempore le ricopre da ogni macchina del fango, al di là delle appartenenze politiche. Voglio essere ancora più esplicito: non condivido nulla delle politiche del presidente Conte, né del suo primo governo né di questo, ma lo rispetto e non apprezzo tentativi opachi per screditarlo. In politica vogliamo vincere attraverso il confronto delle idee, non con i pettegolezzi e le insinuazioni. Se poi, invece, dovessero emergere, nelle sedi competenti, elementi concreti in qualsiasi direzione, a quel punto li valuteremo.»

L’apprezzamento di Berlusconi per Conte si spiega con una strategia sotterranea del Cavaliere. L’ala dialogante ed europeista di Forza Italia ha visto con favore la promozione di Paolo Gentiloni a Bruxelles e la nomina di Roberto Gualtieri all’Economia. Lo stesso Berlusconi, durante le consultazioni, disse a Conte: noi non possiamo entrare nel governo, ma se ci fossero provvedimenti che condividiamo, potremmo dare una mano…

Mentre compaiono in tavola il delizioso riso/non riso coreano al pesto dello chef di casa Michele Persichini e un branzino in crosta che sembra una scultura, chiudiamo la parte politica italiana con una riflessione sul futuro di Forza Italia.

«L’ultimo governo nato come diretta e coerente espressione delle urne elettorali» osserva il Cavaliere «è stato il governo Berlusconi nel ٢٠٠٨, più di undici anni fa. Uno studio che abbiamo fatto realizzare di recente ci dice che sono 7 milioni gli italiani che non vanno più a votare, ma che si definiscono liberali o conservatori. Evidentemente non sono i contenuti e gli atteggiamenti della Lega – né quelli della sinistra – che potrebbero convincerli. Sono forze politiche che si rivolgono a un altro elettorato. Quello dell’altra Italia è il nostro spazio, è il nostro futuro.»

Ecco, l’ha detto: l’Altra Italia. È un fatto che se Forza Italia ha perso 8 punti tra le elezioni europee del 2014 e quelle del 2019, la sua attrattività è fortemente diminuita. Si era immaginato che Berlusconi volesse addirittura ripudiare la creatura originaria e sostituirla con Altra Italia, rifondata daccapo. Mi spiega, invece, che pensa a un’alleanza tra i due movimenti.

Gianni Letta invita da tempo il Cavaliere a fare una scelta: «Vuoi rilanciare Forza Italia o lanciare Altra Italia? Se decidi per la seconda soluzione, devi distinguerti da Salvini. Il campo centrista si allarga: Carlo Calenda [che ha abbandonato il Pd dopo l’alleanza con i 5 Stelle] e soprattutto, dopo la scissione, Matteo Renzi. Se non decidi, il moderato che non ama Salvini va con Renzi. Devi restare alleato di Salvini per vincere e andare al governo insieme, ma distinguerti da lui. Devi moderarlo…»

«Penso alla creazione di due o tre nuclei di Altra Italia per ogni regione,» precisa Berlusconi «prendendo anche il meglio delle liste civiche che s’ispirano ai nostri valori. Una struttura giovane che si federi con Forza Italia senza ruoli di preminenza dell’una sull’altra. Da qui potrà nascere il mio successore.»

Che finora non è mai stato individuato… «Ho sempre cercato il successore nei coordinatori nazionali. Se ne sono avvicendati tanti, ma quelli che si candidavano come miei successori non stati avvertiti come tali dal nostro Movimento e se ne sono andati…»

A proposito, ha cercato di trattenere Toti?, chiedo a Berlusconi. «No. Non l’ho fatto con nessuno: Alfano, Fitto, Verdini, Scajola… Il nostro è un partito di persone libere.»

E l’incomprensione con la Carfagna? «È stata appunto un’incomprensione. Quando Toti è andato via, ho pensato a un gruppo più esteso di persone (Antonio Tajani, le due capogruppo Anna Maria Bernini e Mariastella Gelmini e Sestino Giacomoni) per suggerire modifiche al nostro statuto e preparare il congresso nazionale. La Carfagna non ha condiviso questa procedura, ma troveremo una soluzione.»

I suoi gruppi parlamentari sono divisi tra chi è più vicino a Salvini e vorrebbe una nuova legge elettorale maggioritaria e chi vuol restare indipendente e preferisce il proporzionale. «Noi restiamo favorevoli a una riforma che porti all’elezione diretta del capo dello Stato e a un sistema elettorale tendenzialmente maggioritario, ma che consenta con una quota proporzionale a tutti i partiti di essere rappresentati in tutte le regioni, cosa impossibile con l’attuale riduzione del numero dei parlamentari.»

Parliamo di Europa, croce e delizia da tanti anni per gli italiani. Berlusconi è felice per l’accoglienza ricevuta anche da parlamentari di gruppi diversi dal suo, «segno di apprezzamento per il lavoro svolto in tanti anni». «L’obiettivo che mi sto ponendo è duplice» mi spiega il Cavaliere. «Da un lato, naturalmente, c’è la tutela dell’interesse nazionale italiano, che è sempre una priorità e che deve indurre tutti gli italiani a collaborare in Europa al di là del giudizio sul governo nazionale del momento. Questo spiega, per esempio, il nostro sostegno al commissario italiano, Paolo Gentiloni, del resto giustificato anche dalla mia stima personale per l’ex presidente del Consiglio. L’altro obiettivo, ambizioso ma necessario, è quello di costruire un centrodestra europeo, che sposti l’asse della politica continentale e restituisca un ruolo all’Europa nel mondo, sulla base della nostra identità di europei, dei nostri valori comuni, della nostra idea di libertà e di dignità dell’uomo, fondata sulle nostre radici greco-romane e giudaico cristiane. Questo può farlo una classe dirigente europea che, accanto al Ppe, veda i liberali, i conservatori, altre forze politiche autonome, e – perché no – i sovranisti illuminati e ragionevoli. Un sovranismo europeo è molto più sensato degli anacronistici e forse pericolosi sovranismi nazionali.»

Salvini confidava in un asse tra i sovranisti e il Partito popolare europeo, sperando che il capogruppo Manfred Weber diventasse presidente della Commissione. Invece… «Weber era, in effetti, il nostro candidato» conferma Berlusconi. «Quando i socialisti hanno proposto Frans Timmermans, noi abbiamo preferito condividere la scelta di Angela Merkel, che ha proposto il suo ministro della Difesa Ursula von der Leyen. La Lega ha deciso di non votarla, ma non ci siamo sentiti con Salvini su questo.»

È realistico pensare a una Lega nel Partito popolare europeo? «Il tema non è l’ingresso nel Ppe, che non è all’ordine del giorno. Il tema è che la Lega, in Europa, deve scegliere da che parte stare. Se rimanere isolata in una posizione simile ai lepenisti francesi, quindi con una buona massa di voti ma senza esercitare alcun ruolo, oppure se portare le proprie idee e i propri valori, che sono sicuramente democratici, all’interno di una coalizione più vasta, nella prospettiva che dicevo poco fa del centrodestra europeo. Un centrodestra che, naturalmente, non può che avere come fulcro la più grande famiglia politica d’Europa, il Partito popolare europeo, che noi orgogliosamente rappresentiamo in Italia. Io, personalmente, nel 2006 ho avuto la responsabilità di riscrivere e aggiornare la Carta dei Valori del Ppe, approvata poi dal congresso di Roma e tuttora in vigore.»

Da premier, Berlusconi provò a portare la Turchia nell’Unione europea, temendo di lasciarla sola o alleata con paesi non amici. Però, ben prima della tragica guerra ai curdi dell’autunno 2019, il presidente turco Recep Erdoğan non aveva fatto molto per integrarsi. Il Cavaliere resta sulle sue posizioni. «Rimango convinto – ben sapendo di avere su questo un’opinione diversa dai miei alleati del centrodestra – che abbiamo perso un’occasione storica con la Turchia. Per miopia, egoismi o semplici calcoli elettorali di alcuni leader europei si è chiusa la porta in faccia alla Turchia, inducendo Erdoğan a guardare ad altri orizzonti politici e – per reazione – a favorire l’islamizzazione della società turca. Cosa abbiamo guadagnato da questo? Solo un problema in più alle porte di casa, e una minore possibilità di intervento e di mediazione in situazioni di crisi come quella che oggi riguarda i curdi. Fra l’altro, Erdoğan ospita milioni di profughi e potrebbe facilmente aprire il rubinetto dei flussi migratori verso l’Europa, con tutti i rischi e i problemi che questo determinerebbe.»

Che cosa pensa della guerra dei dazi tra America e Cina?, gli chiedo. «È del tutto evidente che non possiamo essere indifferenti» risponde Berlusconi. «L’America, al di là di ogni valutazione sulle singole amministrazioni, è un alleato strategico, è il cuore dell’Occidente, è il simbolo del mondo libero e dell’economia di mercato. In Cina, oltre a non esserci nessuno spazio per il dissenso politico né religioso, l’economia è totalmente dominata dal governo, e quindi dal Partito comunista, che utilizza sul piano internazionale gli strumenti del mercato per realizzare un disegno egemonico rivolto non solo all’Asia, ma per esempio all’Africa e, in prospettiva, anche all’Europa e al mondo intero. Quindi, siamo ovviamente dalla parte dell’America. Però questo non ci impedisce di vedere, per esempio, che gli Stati Uniti pensano al confronto con la Cina in termini bilaterali e non multilaterali, sembrano interessati più a una sfida diretta fra due paesi che agli equilibri globali del pianeta. Le guerre dei dazi sono peraltro sempre rovinose. I dazi fanno male sia a chi li impone sia a chi li subisce. Questo vale per i rapporti con la Cina, ma anche, per esempio, per le relazioni fra America e Unione europea. A essere danneggiati sono prima di tutti i consumatori, e di conseguenza anche i produttori, persino coloro che in una primissima fase sembrerebbero trarne vantaggio. Anche per questo è fondamentale che l’Europa sia capace di svolgere un ruolo nello scenario internazionale, sia in grado di avere una politica economica, una politica estera, una politica di difesa comune. Noi siamo amici dell’America, al di là delle amministrazioni, ma siamo profondamente europeisti. L’Europa e l’America insieme, in un rapporto costruttivo e di collaborazione con la Russia di Putin, che dovremmo smettere di considerare come un nemico, possono e devono essere la chiave della stabilità di un mondo sempre più esposto a nuove tensioni e a nuovi pericoli.»

A proposito di Europa, come procede la campagna internazionale di Mediaset? È preoccupato per la sentenza del tribunale di Madrid che ha accolto la richiesta di Vivendi di bloccare la fusione di Mediaset e Telecinco? «“Media for Europe” è un progetto serio. Dovrebbe affiancare a Mediaset e a Telecinco la principale rete privata tedesca, con possibilità di espansione alla Francia. Nessun altro mezzo di comunicazione europeo potrà presentarsi alle aziende multinazionali offrendo per i loro prodotti un pubblico più vasto. Svilupperemo anche attività comuni per la produzione di fiction.»

Il vostro socio francese Vivendi è escluso da questo progetto? «Visto il comportamento di Vincent Bolloré, una sua partecipazione è da escludere.»

Conferma che Mediaset non è in vendita? «Gruppi internazionali e importanti fondi di investimento ci hanno fatto ottime offerte. Ma non abbiamo mai preso in considerazione ipotesi di vendita.»

Il Cavaliere mi accompagna all’uscita attraverso un labirinto di corridoi e di sale zeppe di quadri di secoli diversi, accatastati secondo i soggetti ritratti. Ci sono centinaia di Madonne con Bambino di varie epoche, una collezione di Ecce Homo e di crocifissioni, sei serie complete di Via Crucis, tonnellate di vedute di scuola napoletana e di dipinti di vita quotidiana degli aristocratici del Settecento («I comunisti odiano questa roba»). Ci sono dipinti di grandi dimensioni con ragazze e sfondi di paesaggi italiani: «Sono regali di Putin». (A proposito di Putin, il Cavaliere è andato a fargli gli auguri di compleanno: «Cena nel palazzo presidenziale di Soči. Dodici commensali. Dieci amici russi e io. Ciascuno di noi aveva il piatto con la propria immagine…».)

La cappella di villa San Martino è sommersa di soggetti sacri, il salone delle «cene eleganti/bunga-bunga» ha il tavolo imperiale da 40 posti perfettamente apparecchiato sulla tovaglia porpora, ma è impraticabile per l’enorme quantità di quadri che vi è appoggiata, tutti preziosamente incorniciati. (Segno che presenze profane mancano da parecchio tempo.) «In quarantanove anni» mi racconta il Cavaliere «ne ho comprati più di seimila, anche attraverso le televendite. L’anno prossimo, per il cinquantesimo anniversario, ho chiesto a Vittorio Sgarbi di condurre una trasmissione televisiva in cui molte di queste opere verranno messe all’asta. Il ricavato andrà in beneficenza.»

Silvio Berlusconi ora sorride. Mi ha mostrato il passatempo di un uomo costretto alla clausura. Anche le ragazze vennero qui per portare allegria, ma il padrone di casa eccedette in entusiasmo e finì come finì.

Dal contrattacco su Facebook a piazza San Giovanni

I milioni di persone che seguono Matteo Salvini sui social ebbero uno sbandamento – come tutti i suoi elettori, e non solo – quando fu aperta la crisi. Luca Morisi aveva avvertito il Capitano: se c’è rottura, salta la pace sociale. Salvini è seguito e ammirato anche da una parte del popolo dei 5 Stelle (si sarebbe visto con i flussi delle elezioni in Umbria). Così, tra il 9 e il 15 agosto perse 20.000 like su Facebook, mentre Instagram e Twitter non ne risentirono. «Per noi Facebook è il termometro per eccellenza del sentimento nazionale» mi spiega Morisi. «Vedere quante persone interagiscono, incrociare i nostri commenti con quelli degli altri, vedere come rilanciano le testate online. A un occhio allenato basta poco per notare dove va il vento.» (Gli altri social sono meno efficaci. Twitter è molto istituzionale e autoreferenziale. Instagram è utilizzato soprattutto dai giovani che non vogliono essere spiati dai genitori su Facebook.)

Per rispondere alle critiche, fu utilizzata soprattutto la pagina della Lega. Poi si passò al contrattacco con l’immagine sorridente del Capitano. «Riprendiamoci la nostra Italia. Ci stai?» «Il mio premier è lui.» «La parola torni agli italiani.» «Se voi ci siete, io ci sono.»

Già all’inizio di settembre, i commenti negativi cominciarono a trasferirsi sui 5 Stelle. Giuseppe Conte manteneva un livello di popolarità elevato, ma cominciò a perdere qualche colpo – insieme al Movimento – quando la campagna social di Salvini si fece più dura. «Conte chiede aiuto alla Merkel per battere Salvini» (video). «Conte dopo le europee si è avvicinato all’asse franco-tedesco.» «Ursula von der Leyen eletta con i voti determinanti dei 5 Stelle.» «I 5 Stelle hanno votato David Sassoli alla presidenza del Parlamento europeo per avere una vicepresidenza pur non aderendo ad alcun gruppo.»

Morisi alimentò la narrazione che Conte e i 5 Stelle si fossero venduti agli odiati Poteri Forti di Bruxelles, Parigi e Berlino. Si aggiunga che il video con Di Maio che prometteva «Mai col partito di Bibbiano» ha avuto milioni di visualizzazioni.

Lo stesso scivolone sui «pieni poteri» (parole che per Salvini devono essere interpretate, ovviamente, all’interno dei rigidi paletti costituzionali) è stato utilizzato come elemento di motivazione. «Emergi solo se polarizzi» mi spiega Morisi. «La grande corsa al centro è ridotta ed elitaria. Se motivi le tue truppe, la gente va a votare.»

A questo punto il Capitano doveva dare una prospettiva al suo popolo. E la diede con la grande manifestazione romana del 19 ottobre a piazza San Giovanni.

Quattro giorni prima, martedì 15 ottobre, Salvini si confrontò con Renzi a «Porta a porta». Erano tredici anni che non avveniva un dibattito televisivo tra due leader di partito. Il 15 marzo 2006 si erano incontrati nello stesso studio Romano Prodi e Silvio Berlusconi. Da allora, più niente. Il confronto tra Renzi e Salvini ebbe 8 milioni 700.000 contatti: è il numero di persone che, nonostante l’ora assai tarda, vide almeno un pezzo della trasmissione.

Chi ha vinto? I sondaggi riservati diedero a Salvini un leggero vantaggio, ma il risultato ha poco senso, perché i due contendenti parlavano ciascuno al proprio pubblico. Renzi aveva un’argomentazione più brillante, Salvini una narrazione più concreta. Renzi voleva accreditarsi al centro: ho lasciato il Pd perché è troppo a sinistra, ma sono l’unico in grado di tenere testa a Salvini. Il Capitano lo ha quasi ignorato: parlava ai suoi elettori, ai suoi fan, ribadiva i suoi temi con la tecnica del chiodo ribattuto all’infinito.

A piazza San Giovanni non c’erano le 200.000 persone dichiarate dalla Lega, ma c’era comunque una folla enorme. La Lega a Roma? Roba da matti. La Lega riempie la piazza storica del Pci di Togliatti e Berlinguer? Un’eresia. La Lega porta Berlusconi nella piazza che il Cavaliere riempì nel 2006 con una storica manifestazione del centrodestra? Una svolta, un passaggio di testimone.

E il ciclone Umbria fece molte vittime

Qualche giorno prima delle elezioni in Umbria, Nicola Zingaretti mi mandò un whatsapp con la mappa della regione elaborata dall’Istituto Cattaneo di Bologna dopo le elezioni europee del 26 maggio 2019. Era verde, con una piccola macchia rossa nella parte orientale, più o meno da Castiglione del Lago a Città della Pieve. «Questa è la verità» scriveva il segretario del Pd.

Dopo lo scandalo della sanità che nella primavera del 2019 aveva decapitato la giunta Marini, per la sinistra la regione era persa, ma, senza l’alleanza con il M5S, la sconfitta sarebbe passata quasi sotto silenzio. Perché allearsi quando la somma degli schieramenti alle europee dava comunque un vantaggio di 6 punti al centrodestra? Zingaretti ha risposto nelle pagine precedenti: serviva avviare una strategia di lungo periodo. Di qui la spericolata esposizione comune a Narni del presidente del Consiglio insieme a Zingaretti, Di Maio e Roberto Speranza (LeU).

Nessuno però, nemmeno Salvini, si aspettava un risultato così devastante: il 57,6 per cento di Donatella Tesei, avvocato, candidata del centrodestra, contro il 37,5 per cento di Vincenzo Bianconi, l’albergatore pescato all’ultimo momento come «esponente della società civile». La tragedia sta nei dettagli. Il Pd (22,3) ha tenuto: solo un paio di punti in meno delle ultime elezioni europee. Ma il Movimento 5 Stelle (7,4) ha dimezzato i voti presi soltanto cinque mesi prima (14.6) e perso 20 punti sulle politiche del 2018 (27,5), piazzandosi dopo Fratelli d’Italia (10,4) che, a sua volta, ha doppiato Forza Italia (5,5), mentre la Lega (37) ha perso 1 punto rispetto alle europee, ma ha quasi raddoppiato il voto del 2018 (20,2). Un quarto degli elettori del M5S alle europee ha votato centrodestra.

Luigi Di Maio ha abbandonato immediatamente la prospettiva di ripetere l’alleanza con il Pd nelle successive elezioni regionali. Gli attacchi interni contro di lui si sono moltiplicati, ma per il Movimento si apre un problema non di leadership bensì di identità. Cresce se è all’opposizione (dove pensava di restare più a lungo di quanto ci è rimasto), crolla se va al governo. I cinque anni magici (2013-2018) sembrano irripetibili. Forse esagera Ernesto Galli della Loggia («Corriere della Sera», 29 ottobre 2019) quando richiama l’Uomo Qualunque del dopoguerra. Se non altro perché il M5S ha celebrato nel 2019 il decennale, mentre il partito di Guglielmo Giannini visse solo tra il 1944 e il 1946. Certamente, il Movimento è a un bivio: tornare all’opposizione con una forte testimonianza o scivolare progressivamente verso una posizione satellite del Pd, che però lascerebbe ai Calenda e, soprattutto, ai Renzi il ruolo di moderati del centrosinistra?

Nessuno dei giallorossi ha messo in discussione il governo Conte, ma un governo ha senso se governa. E il gabinetto, prima e dopo le elezioni in Umbria, è stato troppo strattonato – in particolare da Di Maio e da Renzi – per poter continuare a lungo così. Un volo transatlantico fatto solo di turbolenze e vuoti d’aria non è un viaggio. È un incubo.

L’entità della sconfitta giallorossa in Umbria colpisce perché il candidato Bianconi aveva l’esplicito appoggio delle gerarchie ecclesiastiche. Ha dunque ragione Galli della Loggia quando parla di tramonto storico del «blocco cattolico-postcomunista» che è stato finora il cardine del potere in Italia? Matteo Salvini non comunica mai le sue strategie, se ne ha. Gli basta la tattica. La conquista del territorio paese per paese, casa per casa. Le sue campagne elettorali lasciano attoniti gli avversari. Se va in un paese di 2000 abitanti, sa di raccoglierne tutti i voti. Nel paese vicino diranno: se è andato lì, verrà pure qua. E così via, battendo sempre su immigrazione, tasse, lotta alla legge Fornero.

Il declino di Forza Italia (in Umbria fisiologico) pone al Cavaliere l’urgenza di rifondarsi. La sua testimonianza è decisiva per garantire al centrodestra un credibile aggancio in Europa, ma rischia di ridursi appunto a testimonianza. A meno che non faccia con Renzi quel famoso Partito della Nazione che era la prospettiva del Patto del Nazareno (18 gennaio 2014). Alleato e non più avversario della forte destra di Matteo Salvini.

Il 28 ottobre 2019, uscendo dalla trasmissione postelettorale di «Porta a porta» l’ho buttata lì a Salvini: «Scommettiamo che alla fine Renzi il governo lo farà con voi?». Se ha gradito la lettura di questo libro la preghiamo di venire a trovarci su: marapcana.today clicchi su questo testo e troverà la biblioteca completamente gratuita più fornita ed aggiornata del web! La aspettiamo!