VIII

Il delitto Matteotti anticamera della dittatura

Giacomo Matteotti, implacabile «Tempesta»

Giacomo Matteotti, trentino di famiglia benestante residente a Fratta Polesine (Rovigo), laurea in giurisprudenza, neutralista durante la guerra, deputato di terza legislatura, aveva seguito Filippo Turati nella scissione riformista del Psi del 1922 ed era diventato segretario del nuovo Partito socialista unitario. Come segretario della Cgl di Ferrara, aveva conosciuto e combattuto le violenze fasciste. I fascisti lo odiavano, oltre che per la feroce opposizione nei loro confronti, per il suo neutralismo bellico e, come scrivono gli storici fascisti Giorgio Pini e Duilio Susmel, per essersi «opposto come consigliere provinciale di Rovigo alla concessione di sussidi ai profughi del Friuli e all’impianto di un ospedale della Croce Rossa in Arquà Polesine, dichiarando che per lui gli italiani erano più assassini degli austriaci». Antonio Salandra lo aveva definito «acre e increscioso avversario» e per il «Corriere della Sera» (1921) era «il Marat del Polesine».

Nel 1924 Matteotti aveva 39 anni. Riformista nelle idee, era massimalista nel carattere e nelle posizioni politiche. Non a caso, i suoi compagni lo chiamavano «Tempesta». Coraggioso, preparato, metodico, documentato, studioso scrupoloso dei dossier, soprattutto economici, era per qualunque governo un avversario temibile. (Gli stessi Pini e Susmel gli riconoscono il merito di aver indagato «sul losco affarismo politicante» di Filippo Filippelli, direttore del fascista «Corriere italiano», e dei suoi amici.) Ogni suo discorso in Parlamento era una filippica, ogni parola una denuncia, ogni sospiro un grido.

Nell’aula della Camera, il 30 maggio 1924, pronunciò una tonante requisitoria contro il governo. Chiese l’annullamento delle elezioni in tutte le circoscrizioni, in quanto invalidate da brogli e violenze. (In effetti, come ricorda Antonio Spinosa nel suo Mussolini, «la custodia delle cabine era affidata a militari fascisti in uniforme, in alcune regioni i seggi elettorali erano composti esclusivamente da tesserati del fascio, c’era stata una incetta di certificati elettorali» per cui alcune persone poterono votare più volte.) Abbiamo visto, però, che il listone di Mussolini, con annessi notabili liberali, aveva ottenuto i due terzi dei voti. Difficile, quindi, che un uomo del rilievo di Matteotti pensasse davvero di poter ottenere quel che chiedeva. E infatti Renzo De Felice ritiene che, più ragionevolmente, il deputato socialista volesse aprire una campagna di durissima opposizione al governo, chiamando ad atteggiamenti più radicali lo stesso Turati. Come emerge dal Carteggio, Anna Kuliscioff manifestò al compagno la sua grande preoccupazione per il «catastrofismo» di Giacomo Matteotti e Giuseppe Modigliani, poiché anche lei era convinta che il fascismo fosse un fenomeno temporaneo e politicamente gestibile.

Il 30 maggio, nell’aula di Montecitorio furono pronunciate due frasi destinate a fare storia. La prima fu di Matteotti che, quando ebbe finito di parlare, avrebbe sussurrato a un compagno: «Io il mio discorso l’ho fatto. Adesso preparate il discorso funebre per me». La seconda è quella alla quale fu «impiccato» Mussolini. Il lungo intervento del deputato socialista fu interrotto più volte dai deputati fascisti, mai dal presidente del Consiglio, che però, irritatissimo, alla fine sibilò al suo confidente Cesare Rossi: «Cosa fa questa Ceka? Cosa fa Dumini? Quell’uomo, dopo quel discorso, non dovrebbe più circolare…».

La «Ceka», che prendeva il nome dal primo servizio segreto sovietico, era una squadra di polizia interna al Partito fascista di freschissima costituzione: era stata formata nel gennaio-febbraio 1924 «per ragioni informative e di sorveglianza». L’aveva organizzata Giovanni Marinelli, che abbiamo incontrato nelle pagine precedenti come fascista della prima ora e segretario amministrativo del partito, il quale ne aveva affidato la guida allo squadrista fiorentino Amerigo Dumini (pronuncia Dùmini), 30 anni, membro di un «battaglione della morte» durante la guerra e decorato con la medaglia d’argento. Diceva di essere diventato fascista dopo aver subìto un’aggressione da militanti di sinistra all’uscita dall’ospedale dove era stato ricoverato per le ferite riportate in combattimento. Inviato in missione all’estero per scoprire gli assassini di militanti fascisti e assassino a sua volta (in Marcia su Roma e dintorni Emilio Lussu gli attribuisce questa autopresentazione: «Piacere, Dumini. Nove omicidi»), si era distinto per la violenza nei pestaggi. «Un po’ anarchico, un po’ massone, valoroso in guerra, ma disadattato nella vita civile» lo descrive Spinosa. «Si atteggiava a intellettuale, voleva fare il giornalista, frequentava i salotti della Sarfatti e di Ada Negri.» Ma era pur sempre uomo di inaudita ferocia.

Nel primo pomeriggio di martedì 10 giugno 1924, un giorno di gran caldo, Dumini aspettava che Matteotti uscisse dalla sua abitazione di via Giuseppe Pisanelli, nel centralissimo quartiere Flaminio, per dirigersi a piedi verso la biblioteca della Camera dei deputati. Era a bordo di una Lancia Lambda, gioiello della casa automobilistica torinese, uscita appena un anno prima ma già famosa per eleganza, velocità e tenuta di strada: sei posti comodi, un vetro di separazione tra il posto di guida e il resto dell’abitacolo, come usava nelle limousine abitualmente condotte da un autista. L’automobile era stata prestata a Dumini da Filippo Filippelli, che, a sua volta, l’aveva noleggiata con il pretesto di una gita con alcuni camerati.

Nella vettura sedevano altri quattro squadristi: Albino Volpi, falegname, che aveva servito negli Arditi e aveva precedenti per reati comuni; Giuseppe Viola, commerciante, pregiudicato per rapina; Augusto Malacria, ex ufficiale degli Arditi, condannato per bancarotta; Amleto Poveromo, macellaio, anch’egli pregiudicato. Definire la banda un pugno di avanzi di galera è quindi perfettamente legittimo. Quel giorno, sul lungotevere stazionavano altre due persone, lo squadrista Aldo Putato e un giovane austriaco, un personaggio assai ambiguo, Otto Thierschald, che si era insinuato nella vita di Matteotti, lo conosceva bene e ne aveva rivelato agli squadristi le abitudini.

Il delitto e le responsabilità di Mussolini

Matteotti uscì di casa alle 16.30. Contrariamente alle sue abitudini, era senza cappello, un dettaglio che ne rendeva meno immediato il riconoscimento. Piegò a destra su via Pasquale Stanislao Mancini, raggiunse poco oltre il lungotevere Arnaldo da Brescia e ne percorse 500 metri in direzione di piazza del Popolo. (Gli scherzi del destino. Il padre di Mussolini era un ammiratore del religioso e martire antipapista dell’anno Mille, al punto da imporre il nome Arnaldo al fratello minore di Benito.) Mentre costeggiava la spalletta del fiume, fu affiancato dall’auto guidata da Viola. Ne scesero dapprima Volpi e Malacria, ma la reazione di Matteotti li sorprese, finché non sopraggiunse Poveromo, che gli assestò un colpo al capo con un pugno di ferro, fiaccandone la resistenza. Poi arrivò anche Dumini e, in quattro, lo caricarono di peso sull’auto. Matteotti resistette ancora e lanciò dal finestrino un documento (il tesserino di deputato) su Ponte Risorgimento, dove la vettura aveva piegato a sinistra per raggiungere Ponte Milvio e la periferia nord di Roma, percorrendo il lungotevere opposto.

Nel diluvio di testimonianze contrastanti, sembra verosimile che, scalciando, Matteotti abbia rotto il vetro divisorio dell’abitacolo e abbia colpito sui testicoli Viola, il quale avrebbe risposto con una coltellata che gli avrebbe reciso una carotide, come dice Indro Montanelli, o lo avrebbe colpito mortalmente tra l’ascella e il petto, come sostengono altri. A quel punto, i rapitori persero la testa. Vagarono a lungo e senza meta per la campagna, poi finalmente decisero di seppellire il cadavere nel boschetto della Quartarella, a 23 chilometri da Roma. Non erano affatto preparati alla bisogna, tant’è vero che scavarono una buca profonda solo mezzo metro utilizzando il cric dell’automobile.

Il cadavere era talmente in superficie che il 16 agosto bastò il fiuto del cane di un carabiniere in licenza a segnalarne la presenza. Le domande su cui, da quasi un secolo, si accapigliano gli storici sono due: la banda Dumini voleva veramente ammazzare Matteotti? Fu Mussolini il mandante del delitto? Se la logica ha un senso, chi decide di rapire e ammazzare una persona, qualche cautela la prende. L’automobile, innanzitutto. All’epoca ne giravano poche e davvero rare erano le Lambda, vettura lussuosa e perciò vistosissima. Una limousine zeppa di uomini e a lungo ferma nei pressi della casa di un deputato importante non passa inosservata. E, infatti, una coppia di portieri di uno stabile in via Mancini ne annotò il numero e qualche giorno dopo lo confermò alla polizia, che identificò così l’illustre proprietario. Gli assassini, in genere, si attrezzano per la sepoltura della vittima. La banda Dumini era impreparata e la sepoltura fu improvvisata. Questo non vuol dire, come vedremo tra poco, che la morte del deputato socialista non facesse comodo a parecchia gente. Ma le modalità dell’azione sono troppo dilettantesche per far pensare a un piano ordito non sappiamo se direttamente da Mussolini, ma certamente dai vertici dello Stato.

L’ipotesi tuttora più verosimile è che i delinquenti che rapirono Matteotti volessero impartirgli una pesante «lezione». Il deputato era già stato vittima della violenza squadrista in Polesine e altre aggressioni intimidatorie erano avvenute nei confronti di persone autorevoli e notissime, come Giovanni Amendola, Piero Gobetti e Olindo Malagodi, direttore della «Tribuna», che era stato rapito da squadristi fiorentini il 31 ottobre 1922, ficcato anch’egli in un’automobile e bastonato a sangue, anche se riuscì a non bere l’olio di ricino che tentarono di fargli trangugiare.

Nell’ottica fascista, una «bastonatura esemplare» a Matteotti ci stava tutta e con il massimo di pubblicità (intimidatoria) possibile, anche se Montanelli ritiene che quella squadraccia fosse deputata a operazioni di più basso livello, come l’aggressione di fascisti dissidenti. Sempre bastonature, comunque. Ma l’omicidio, con tutte le devastanti conseguenze che si sarebbe trascinato dietro? D’altra parte, in Storia d’Italia nel periodo fascista Luigi Salvatorelli e Giovanni Mira scrivono: «Dati i tipi, con quell’arma [il pugnale] e con tanto sangue, sembra difficile escludere l’intenzione micidiale, e in ogni caso dell’esito letale nessun cavillo giuridico potrebbe fare, di fronte alla coscienza morale dell’umanità, un “omicidio preterintenzionale”».

Al rientro a Roma, l’auto (insanguinata e con qualche graffio per la gita campestre) fu portata prima nel cortile del Viminale, poi in un garage dove fu trovata prestissimo dalla polizia, grazie a una testimonianza occasionale. Dumini andò a riferire a Filippelli («Alla notizia, svenni» avrebbe dichiarato più tardi), che informò Marinelli e il capo della polizia Emilio De Bono. Questi corse subito da Mussolini: «Stanno gettandoti addosso le responsabilità» gli disse. E lui rispose: «Questi vigliacchi mi vogliono ricattare!», riferendosi, come vedremo, alla destra fascista che osteggiava le sue aperture a sinistra.

Com’è ovvio, Dumini raccontò l’impresa a Marinelli, che – si dice – scoppiò in un pianto dirotto. Il segretario di Mussolini, Arturo Fasciolo (poi allontanato insieme a Cesare Rossi e Aldo Finzi come «infedele»), sostiene invece che il Duce sia stato informato dell’accaduto da Marinelli la mattina dell’11 giugno. Lo storico Bruno Gatta posticipa l’orario dell’informazione al pomeriggio, dando credito al comportamento di Mussolini nelle udienze del mattino e alla testimonianza dello stesso interessato che, nel 1940, avrebbe raccontato al suo biografo Yvon de Begnac: «L’11 giugno del 1924 non pensavo minimamente a quanto nell’ombra la sorte stava tramando ai danni del fascismo … Al banco del governo, alla Camera, eravamo ancora in stato di euforia per il mio discorso del 7. Sorvegliavamo allegramente l’atteggiamento di un collega questore cui era stata inviata una lettera firmata da una inesistente ammiratrice … La sera giunse come una folgore la triste notizia».

A Matteotti non fu resa giustizia. Il 24 marzo 1926 Dumini, Volpi e Poveromo furono condannati a 5 anni, 11 mesi e 20 giorni di carcere, di cui 4 condonati per amnistia; Viola e Malacria assolti per non aver commesso il fatto; Marinelli, Filippelli, Rossi e Pippo Naldi, che incontreremo tra poco, prosciolti in istruttoria, dove i primi giudici furono sostituiti. Il 4 aprile 1947, al termine del terzo processo Matteotti, Dumini, Viola e Poveromo vennero condannati all’ergastolo, pena commutata in trent’anni di reclusione. Dumini fu scarcerato nel 1953 e graziato nel 1956.

Le accuse di Rossi e la difesa di Croce

Il 7 giugno 1924 Mussolini aveva pronunciato il suo primo discorso parlamentare dopo la grande vittoria alle elezioni di aprile, in cui dimostrava di non aver rinunciato a quell’apertura a sinistra che non aveva potuto realizzare al momento della formazione del governo. Voleva ristabilire un rapporto con la Confederazione generale del lavoro, ancora molto più forte del sindacato fascista, alla quale riconobbe una lodevole riservatezza nelle trattative. Sapeva bene, infatti, che il segretario della Cgl Ludovico D’Aragona era favorevole al dialogo con il regime e immaginava di offrire il ministero dell’Assistenza sociale al sindacalista Ludovico Calda, amministratore del quotidiano socialista di Genova «Il lavoro». E fantasticava di un rimpasto per portare il cattolico Filippo Meda alle Finanze e far rientrare dalla Francia il leader sindacale Alceste De Ambris, che era espatriato volontariamente nel 1922. Il Duce chiuse il discorso del 7 giugno con un appello alla pacificazione: «Noi che ci sentiamo di rappresentare il popolo italiano … abbiamo il diritto e il dovere di disperdere le ceneri dei vostri e anche dei nostri rancori». I fascisti applaudirono, l’opposizione tacque.

Il giornalista Carlo Silvestri, capo dell’ufficio romano del «Corriere della Sera» al momento del delitto Matteotti e convinto antifascista, raccolse a Salò 120 ore di confessioni di Mussolini (pubblicate poi nel libro Matteotti, Mussolini e il dramma italiano), passando alla storia come suo «ultimo amico». In quei colloqui il Duce mostrò a Silvestri documenti che provavano le sue aperture a sinistra, scomparsi poi nella fuga verso il macabro destino. Queste aperture avevano due feroci nemici: Giacomo Matteotti (a sinistra) e Roberto Farinacci (a destra), e a esse, come vedremo, il Duce legò la genesi della spedizione punitiva sfociata poi nel delitto.

Nel discorso del 3 gennaio 1925 – quello che insediò di fatto la dittatura fascista – Mussolini ribadì che nel clima ottimista e perfino festoso di quei giorni non avrebbe certo avuto convenienza a ordinare un’azione violenta. Questa è, peraltro, pure la tesi di De Felice. («Non solo un delitto, ma anche solo una “lezione” non gli avrebbe portato alcun vantaggio, ma solo difficoltà».) Nei tre processi istruiti sull’omicidio (due nel 1924, uno per opera della magistratura, l’altro dal Senato, e il terzo nel 1947) fu chiarito che il sequestro di Matteotti era stato deciso il 31 maggio, all’indomani del suo severissimo discorso alla Camera. «Se anche Mussolini avesse impartito l’ordine,» afferma lo storico del fascismo «in undici giorni la collera non gli sarebbe sbollita e non si sarebbe reso conto delle conseguenze politiche di un simile atto? Era troppo buon tempista, troppo buon politico per non farlo.»

Il 14 giugno, quando seppe di essere ricercato, Rossi scrisse a Mussolini una durissima lettera-ricatto sulle azioni illegali ordinate dal Duce contro gli oppositori (bastonature e quant’altro), che poi trasformò in un memoriale molto utilizzato dalle opposizioni. Ma il 23 gennaio 1947, durante il processo a suo carico, quando sarà ancora ferocemente ostile a Mussolini, che lo aveva prima scaricato e poi perseguitato, pur escludendo che il Duce fosse il mandante del delitto gli attribuirà una «istigazione generica» e una «diretta responsabilità morale per aver alimentato il clima di violenza in cui è maturato il delitto». E a proposito della terribile frase («Cosa fa questa Ceka? Cosa fa Dumini? Quell’uomo, dopo quel discorso, non dovrebbe più circolare») detta a Marinelli, Rossi chiarì: «Mentre io, disponendo di maggiori capacità reattive e inibitrici ed essendo abituato da anni a simili sfuriate non avevo dato ad esse importanza e le avevo lasciate cadere, Marinelli, più influenzabile e infatuato dall’idea della missione che gli era stata affidata, pensò che fosse giunto il momento di far funzionare questa sua squadra. Ferme restando, dunque, le succitate responsabilità di Mussolini, ho sempre pensato che la responsabilità del mandato fu di Marinelli».

Nella sua biografia del Duce, Gatta riporta altre autorevoli testimonianze che escludono una responsabilità diretta del capo del fascismo nel delitto: quelle dello storico Federico Chabod (secondo il quale i colpevoli andavano cercati nell’entourage del Duce), del grande critico antifascista Giulio A. Borgese («Una mente oggettiva … può supporre che i gregari di Mussolini diedero un’interpretazione erronea e brutale delle sue parole») e perfino della «Pravda» (21 giugno 1924): «Mussolini fu amaramente sorpreso dall’assassinio di Matteotti. Si può credere che questo disgustoso affare sia stato organizzato a sua insaputa?».

Il 24 giugno in Senato, quando alla Camera era già stato messo in atto l’Aventino, Benedetto Croce votò a favore del governo fascista: «Credo anche io che quel delitto orroroso, anziché esser voluto dal Mussolini, fosse, lui ignaro, preparato per propria iniziativa dalla mala gente che lo circondava». La cosa fece scalpore e il filosofo chiarì la sua posizione in un’intervista riportata da Antonio Spinosa nella sua biografia del Duce: «Non si può aspettare e neppure desiderare un’improvvisa caduta del fascismo. Esso non è stato un infatuamento o un giochetto. Ha risposto a seri bisogni e ha fatto molto di buono, come ogni animo equo riconosce. Avanzò col consenso e tra gli applausi della nazione». E dopo aver ricordato i pareri favorevoli e i contrari a quanto realizzato dal fascismo negli ultimi tempi, concluse: «Bisogna dare tempo di svolgersi al processo di trasformazione».

Nonostante i durissimi discorsi di Luigi Albertini e di altri due senatori antifascisti (Carlo Sforza e Mario Abbiate), il governo fascista incassò al Senato 225 voti a favore, 21 contrari e 6 astensioni. Mussolini ribadì la propria innocenza, giudicando il delitto Matteotti con le parole usate dal principe Talleyrand a proposito del rapimento e dell’uccisione del duca di Enghien a opera di Napoleone: «Non è soltanto un delitto, è anche un errore».

Chi ammazzò Matteotti? E perché?

Perché fu rapito Matteotti? Nelle sue diverse deposizioni, Dumini dichiarò che nessuno del suo gruppo aveva intenzione di ucciderlo, avendo avuto soltanto l’ordine di dargli una «lezione». Il deputato socialista sarebbe morto per infarto pochi minuti dopo il sequestro e tutti i movimenti successivi degli squadristi sarebbero stati determinati dal panico. La tesi è palesemente falsa. Matteotti fu pugnalato. Da chi? L’opinione prevalente è che sia stato Giuseppe Viola, colpito dal deputato nella furiosa colluttazione avvenuta nell’automobile subito dopo il sequestro. È questa l’opinione, oltre che di Indro Montanelli, di Guido Gerosa e Gian Franco Venè, autori del libro Il delitto Matteotti.

Diversa, invece, la versione di un figlio di Matteotti, Matteo, nel dopoguerra deputato socialdemocratico, il quale disse a Marcello Staglieno (Arnaldo e Benito): «Mio padre venne ucciso in modo premeditato con tre colpi di lima da Amleto Poveromo. Me lo confessò, piangente e pentito, Poveromo in persona nel carcere di Parma dov’ero andato a trovarlo nel gennaio 1951, poco prima della morte di lui. Mio padre aveva con sé quei documenti [sull’affare Sinclair Oil, di cui parleremo tra poco], che sparirono nel nulla». I documenti, prosegue Staglieno, vennero presi in consegna da Dumini (lo dichiarerà lui stesso ai giudici l’8 febbraio 1947, nel corso del terzo processo Matteotti celebrato a Roma) e finirono in mano a De Bono, come dimostra il testo registrato di una sua conversazione telefonica con il questore di Roma, Cesare Bertini, la sera del 12 giugno, subito dopo l’arresto dello stesso Dumini, nella stazione dei carabinieri della capitale. (Staglieno intervistò Matteo Matteotti nel 1985 per «Storia illustrata» e rilanciò una tesi già raccolta da Giancarlo Fusco nel 1978 per «Stampa Sera».)

Un’ulteriore prova in tal senso la fornì De Felice, pubblicandola. Essa consiste in una «riservatissima» relazione di polizia consegnata allo stesso De Bono il 14 giugno, che ha il tono di comunicargli cose che lui già conosceva. Lo informava del fatto che «l’on. Turati sarebbe in possesso di parte dei documenti originali e di parte delle fotografie di altri che possedeva il Matteotti e riguardanti affari diversi (“Sinclair”; speculazioni borsistiche; case di giuoco e un “affare” di Udine)», aggiungendo che «il Comm. Filippelli – del “Corriere italiano” – avrebbe concorso alla soppressione del Matteotti volendo rendere un servizio a S.E. Finzi e al Fascismo».

Questa versione lascia perplessi. Chi vuole uccidere una persona porta con sé un oggetto più professionale di una lima, oltre che il necessario per la sepoltura in un luogo prestabilito. Niente di tutto questo è avvenuto. De Felice stesso è molto scettico e sottolinea il fatto che Turati avrebbe potuto (anzi, dovuto) pubblicare i documenti compromettenti di cui sarebbe stato in possesso, ma non lo fece. Ciò non toglie che alcuni esponenti del vertice fascista potessero temere le rivelazioni di Matteotti (nei giorni immediatamente successivi al sequestro) a proposito di alcune operazioni speculative sulle forniture militari e, soprattutto, di alcune concessioni petrolifere. (Negli archivi della London School of Economics ci sono le deposizioni degli amici più stretti di Matteotti che, a cominciare da Modigliani, escludono che il deputato socialista fosse in possesso di documenti riservati senza averne parlato con loro.)

Mauro Canali ha dedicato un libro molto accurato alle speculazioni finanziarie operate da un’ala del regime fascista, in cui riferisce sia di forniture militari sia di una convenzione firmata nell’aprile 1924 tra il governo italiano e l’industria petrolifera americana Sinclair Oil, in concorrenza con la futura British Petroleum per estrazioni in Emilia e in Sicilia. La contropartita sarebbe stata il versamento di una tangente di 2 milioni di dollari, una parte dei quali avrebbe finanziato il «Popolo d’Italia» e il «Corriere italiano». Canali non parla di arricchimenti personali, ma di finanziamenti al Partito fascista e fondi che sarebbero serviti a Mussolini per condurre una vita agiata. (Ed effettivamente la sua lo era, anche se alla caduta del fascismo fu dimostrato che né il Duce né la sua famiglia si erano minimamente arricchiti. I suoi regali alla Petacci erano parchi al limite della tirchieria, e se Claretta indossava abiti costosi, era grazie al fratello, vero profittatore di regime.) Assai più opaco il comportamento su alcuni affari illeciti di Marinelli, Filippelli e Dumini – direttamente interessati –, che sarebbero stati coperti da Rossi, De Bono e Finzi. Quanto alla responsabilità di Mussolini nella decisione del sequestro, Canali avanza dubbi e, pur affermando che esso era stato deciso con largo anticipo, si dice perplesso dinanzi alle modalità dilettantesche dell’omicidio.

Ma perché il figlio del deputato ucciso riteneva che il re fosse coinvolto nell’affare Sinclair e, quindi, nel delitto?

Dice Matteo Matteotti: «Nell’autunno del 1942, Aimone di Savoia duca d’Aosta raccontò a un gruppo di ufficiali che nel 1924 Matteotti si recò in Inghilterra, dove fu ricevuto, come massone d’alto grado, dalla Loggia The Unicorn and the Lion. E venne casualmente a sapere che in un certo ufficio della Sinclair, ditta americana associata all’Anglo Persian Oil, la futura BP, esistevano due scritture private. Dalla prima risultava che Vittorio Emanuele III, dal 1921, era entrato nel registro degli azionisti senza sborsare nemmeno una lira; dalla seconda risultava l’impegno del re a mantenere il più possibile ignorati (covered) i giacimenti nel Fezzan tripolino e in altre zone del retroterra libico». In relazione alla prima scrittura privata, Matteo Matteotti aggiunge che essa faceva capire perché fosse «passato» tanto rapidamente il decreto legge sullo sfruttamento da parte della Sinclair del petrolio reperibile nel territorio italiano, in Emilia e in Sicilia. Si trattava del RDL n. 677, in data 4 maggio 1924, il cui articolo 1 afferma: «È approvata e resa esecutiva la convenzione stipulata nella forma di atto pubblico, numero di repertorio 285, in data 29 aprile 1924, fra il ministero dell’Economia nazionale [presieduto da Orso Mario Corbino] e la Sinclair Exploration Company». Le firme sono cinque: Vittorio Emanuele III, Mussolini, Corbino, De Stefani, Ciano.

«De Bono» prosegue il figlio di Matteotti «volò da Vittorio Emanuele III a raccontargli quanto Matteotti aveva scoperto, e i due si accordarono sulla necessità di ucciderlo anziché bastonarlo soltanto e di asportare dalla sua borsa i famigerati documenti. L’8 giugno De Bono convinse Dumini a eseguire tutto ciò, mediante una somma di denaro, e due giorni dopo Matteotti fu rapito e assassinato. Né si sentì più parlare dei documenti riguardanti il patto fra il re e la Sinclair.» Su un accordo fra il re e De Bono per ammazzare Matteotti, però, non esiste alcun riscontro credibile.

Prosegue Staglieno: «I contenuti dell’accordo, noto come “convenzione Sinclair-Corbino”, erano stati ampiamente enfatizzati il 15 maggio da un perentorio comunicato della presidenza del Consiglio, redatto da Rossi (in assenza di Mussolini), e poi illustrati, il 16 maggio, sul “Corriere italiano” da quella buona lana, si fa per dire, di Filippelli. Eppure, nonostante la firma del re, Mussolini – che già nel febbraio 1924 aveva avocato a sé ogni decisione in proposito – congelò tutto. E il 20 novembre 1924 incaricherà una Commissione che, valutati attentamente i termini dell’accordo con la Sinclair, il 4 dicembre lo invaliderà totalmente, anche per uno scandalo che, negli Usa, stava per travolgerne il titolare, Harry Sinclair. Era poco esperto di petrolio, Mussolini: si fidava di quanto scriveva lo stesso Luigi Einaudi (sulla convenienza di comprare l’“oro nero” all’estero piuttosto che spendere milioni per cercarlo): perciò non lo insospettì una singolare clausola apposta in una relazione governativa del 19 luglio 1923 dove, pur invocando la necessità di effettuare trivellazioni nelle Colonie, escludeva proprio la Tripolitania.»

Comunque sia, resta il fatto che, come osserva Pierre Milza, l’assassinio di Matteotti non impedì lo scoppio dello scandalo Sinclair: ne parlarono infatti, poco dopo, alcuni giornali americani.

L’aiuto di Mussolini alla famiglia Matteotti

Un’altra tesi sul delitto Matteotti è che Dumini e i suoi compari, istigati da Rossi e da Finzi, volessero stroncare sul nascere la nuova apertura a sinistra di Mussolini. È questa l’opinione di Dino Grandi, espressa nelle memorie. A suo giudizio, paradossalmente, Cesare Rossi e Giacomo Matteotti combattevano la stessa battaglia da fronti opposti: entrambi non volevano l’accordo tra il Duce e i socialisti. Agli occhi degli uomini più violenti del regime, Matteotti era il male assoluto e usarono lui per colpire Mussolini: «Cesare Rossi è il padrone del partito e ha la Ceka a disposizione» scrive Grandi. «Egli odia ormai Mussolini e vuole mostrare a Mussolini come si deve fare. Ordina a pochi delinquenti irresponsabili di dare una lezione a Matteotti. Una semplice lezione. Ma poi i fatti si svolgono diversamente, i tragici fatti a tutti noti.» La ragione dell’odio per il Duce? «La delusione e il rancore suo e di Marinelli per l’affronto subìto da Mussolini che all’ultimo momento, non si sa perché, li aveva esclusi dal listone dei candidati elettorali. Sembra tutto ciò incredibile, ma è la verità.»

Nella sua confessione del 1945 a Silvestri, Mussolini associa affari e svolta politica: un «putrido ambiente di finanza equivoca, di capitalismo corrotto e corruttore privo di ogni scrupolo, di torbido affarismo». Temeva che Matteotti rivelasse «documenti in grado di portare alla rovina certi uomini che erano pervenuti a infiltrarsi profondamente nelle gerarchie fasciste. L’idea di catturare Matteotti per metterlo nell’alternativa di consegnare i documenti o di perdere la vita, sorse in questo sporco ambiente dove ogni volta che riprendeva a circolare la notizia di una possibile collaborazione tra me e i socialisti, si manifestava immediata una reazione che chiamerei feroce. Il discorso del 7 giugno fece temere che io mi fossi definitivamente orientato nel senso di offrire ad alcuni socialisti la partecipazione al ministero … Da ciò la cattura di Matteotti, già da parecchi giorni predisposta».

A testimonianza della sua innocenza, Mussolini ricorda a Silvestri i costanti aiuti economici da lui forniti alla famiglia. «Io sarei stato l’assassino di Matteotti? Interrogate i suoi figli…» Ricorda che il deputato ucciso aveva lasciato ingenti proprietà terriere che erano state amministrate male «per effetto di inesperienza o di sregolatezze amministrative e anche come conseguenza dello sfruttamento della situazione fatto da loschi speculatori del fascismo rodigino. Ebbene, da chi furono aiutati i figli e la vedova di Matteotti quando si trovarono in ristrettezze? Con quali mezzi poterono i figli continuare e ultimare i loro studi e curarsi quando furono gravemente ammalati? … La verità è che attraverso Arturo Bocchini [prefetto, senatore e capo della polizia dal 1926 al 1940, anno della morte] fui io a sovvenzionare costantemente la famiglia Matteotti … Gesto determinato dal rimorso? … Carlo, Matteo e Isabella Matteotti sanno che chi ha pensato a loro sono io … Oggi hanno l’età del giudizio e sarebbe mostruoso aver accettato l’aiuto di colui che avrebbe assassinato il loro padre».

Gli aiuti economici furono molto significativi e continui. Canali scrive che Mussolini, astutamente, prima di aprire il portafoglio aspettò che i fuorusciti antifascisti in Francia negassero alla famiglia Matteotti qualsiasi aiuto. Quando i parenti del deputato ucciso seppero dei contatti della vedova con il Viminale, le chiesero spiegazioni e, «in un drammatico colloquio con la cognata, Velia [la moglie di Matteotti] le rinfacciò che “le uniche porte alle quali ho bussato e che mi sono state aperte, dico le uniche, sono state quelle del Capo del Governo e del Viminale”». Quando Velia morì nel 1938, aggiunge Canali, «lascerà in eredità ai suoi figli [al tempo minori] questo debito di diversi milioni contratto col governo fascista che non verrà mai liquidato».

L’isolamento del Duce

Fu lo stesso Mussolini a dare alla Camera la notizia degli arresti: Dumini fermato di notte alla stazione Termini, Putato rintracciato a Milano, Filippelli raggiunto a Genova mentre cercava di fuggire su un motoscafo, e via via tutti gli altri. (De Felice osserva, però, che gli arresti furono eseguiti con una negligenza tale da far sospettare la volontà di lasciar fuggire gli squadristi.) Al momento del fermo, Dumini aveva con sé due valigie in cui c’erano frammenti dei pantaloni di Matteotti e della tappezzeria insanguinata della Lambda. Secondo Canali, immaginava di disfarsene durante il viaggio in treno, lanciandoli dal finestrino.

A parte Filippelli, tutti gli altri personaggi coinvolti erano giocatori di serie C. Bisognava, quindi, puntare più in alto. Mussolini impose subito le dimissioni a Rossi, capo del servizio stampa della presidenza del Consiglio, e a Finzi, sottosegretario all’Interno. Rossi, considerato il punto di riferimento degli squadristi, scappò e si costituì il 22 giugno nel carcere romano di Regina Coeli. Furono arrestati Giovanni Marinelli e Pippo Naldi, un giornalista importante e punto di collegamento tra un’ala del fascismo e gli ambienti finanziari. De Bono dovette dimettersi da capo della polizia. Fu sostituito il questore di Roma, Cesare Bertini. Quando tre ministri (Federzoni, Oviglio e De Stefani) espressero il loro disagio offrendo le dimissioni, Mussolini le respinse. Anzi, sapendo di incontrare il favore del re, lasciò il ministero dell’Interno e lo assegnò al nazionalista Federzoni.

Il clima era pesantissimo. I fascisti dell’ultima ora (i voltagabbana di ogni regime) furono lesti a togliersi i distintivi, e il fidatissimo usciere Quinto Navarra restò da solo a presidiare l’anticamera del Duce che – sempre sovraffollata – nel giro di poche ore diventò deserta. Il 12 giugno il Duce confidò a Margherita Sarfatti: «È stato un complotto contro di me. È stato uno dei miei diabolici nemici. Avevo in mano tutta l’Italia con l’approvazione di tutto il mondo. No! Il complotto contro Matteotti è stato opera di un demonio». Quello stesso giorno la riunione d’urgenza del Gran Consiglio fu agitata, ma se ne seppe poco o nulla.

Nei suoi ultimi giorni di vita a Salò avrebbe raccontato a Silvestri di aver pensato in quel giugno di scrivere a Vittorio Emanuele III una lettera di dimissioni, designando a suo successore Filippo Turati. Disse che aveva temuto che potesse entrare da un momento all’altro nel suo studio qualche giustiziere per ammazzarlo e confessò che aveva buone pistole, ma era indeciso se usarle o consegnarsi alla sorte. Lo seccava l’idea che il suo cadavere fosse gettato nell’androne di palazzo Chigi, se non altro per non rallegrare il senatore Albertini – che aveva l’ufficio del «Corriere della Sera» a palazzo Ferrajoli, sul fronte opposto della piazza – «ammirando lo spettacolo del cadavere crivellato di colpi e sfracellatosi nel salto». Ricordò che, guardando piccole folle non amichevoli sotto il suo ufficio in piazza Colonna, era indeciso se sparargli addosso. (Palazzo Wedekind, al centro di piazza Colonna, dal dopoguerra occupato dal quotidiano «Il Tempo», dal settembre 1943 al giugno 1944 sarà sede delle riunioni del Partito fascista repubblicano. Alla sua sinistra si erge palazzo Chigi, sede del ministero degli Esteri e della presidenza del Consiglio, fino al trasferimento di Mussolini a palazzo Venezia. A destra, palazzo Ferrajoli, con il «Corriere della Sera». Tre formidabili simboli del potere a pochi passi l’uno dall’altro.)

Nei giorni successivi al rapimento di Matteotti, Matilde Serao, che considerava Mussolini «suo figlio», andò a portargli un corno di corallo legato in oro. Il Duce le cadde tra le braccia: «Cara Matilde, i miei peggiori nemici non avrebbero potuto fare quello che mi hanno fatto i miei amici…». ll suo stato d’animo passava dalla depressione alla fermezza.

Mussolini era un uomo distrutto. Paolo Monelli, testimone del tempo, racconta che si presentava ai radi visitatori «con la barba di tre giorni, gli occhi febbricitanti di un commerciante che stava per dichiarare fallimento». Ecco come lo sorprese Navarra una mattina di quel giugno tremendo: «Mussolini occupava una poltrona a spalliera molto alta, sorretta ai due lati da due pioli di legno dorato. Nel momento preciso in cui io avevo aperto la porta, egli, con gli occhi sbarrati, sbatteva la testa sui pioli a destra e a sinistra, sbuffando e ansando» (Memorie del cameriere di Mussolini). Lo sconvolgeva, secondo Spinosa, la diserzione delle stesse camicie nere della Milizia, che si presentavano a ranghi ridottissimi alle adunate di provincia e, soprattutto, a quelle romane, tanto che dovettero farne arrivare una legione da Firenze, per salvare la faccia.

Il 13 giugno Mussolini tornò alla Camera dove ricevette Velia Matteotti, che gli chiese di riavere il marito, vivo o morto, e lui le assicurò la massima collaborazione. Nel pomeriggio, in Parlamento, disse: «Se c’è qualcuno in quest’aula che abbia più diritto di essere addolorato, e aggiungerei esasperato, sono io. Solo un mio nemico, che da lunghe notti avesse pensato a qualche cosa di diabolico, poteva effettuare questo delitto che oggi ci percuote di orrore e ci strappa grida di indignazione». Ma parlò a un’aula senza opposizione. La sera precedente i gruppi di minoranza unanimi avevano deciso di disertare i lavori «mentre regna la più grave incertezza intorno al sinistro episodio di cui è stato vittima il collega Matteotti».

Mussolini ne approfittò immediatamente e la Camera approvò l’esercizio provvisorio di bilancio fino al 31 dicembre 1924. Così il presidente Alfredo Rocco poté aggiornarne i lavori a tempo indeterminato.

Turati si accorse per primo della trappola, formalmente legale perché non c’erano altri punti all’ordine del giorno. «Non ti dico come sono pentito del nostro gesto» scrisse alla Kuliscioff. «Il ministero, più furbo di noi, ne approfittò subito per liberarsi della Camera per sette mesi.» Osservò Giolitti con micidiale sarcasmo: «L’onorevole Mussolini ha tutte le fortune politiche: a me l’opposizione ha dato sempre fastidi e travagli, con lui se ne va e gli lascia libero il campo».

La Chiesa contro l’alleanza popolari-socialisti

Il senso di apatia che si respirava nella gran parte del paese indeboliva anche le opposizioni. Le tirature dei giornali antifascisti, però, crescevano (nei momenti più caldi del delitto Matteotti il «Corriere della Sera» arrivò a tirare mezzo milione di copie, mentre il «Popolo d’Italia» scese fino a 60.000). La borghesia – che aveva spinto il fascismo al potere – era delusa e di fatto tifava per i partiti avversari, ma nessuno osava immaginare una rivolta antifascista. Lo stesso Gramsci lamentava che «le grandi masse lavoratrici sono disorganizzate, disperse, polverizzate nel popolo indistinto». Basti dire che non ci fu nemmeno un abbozzo di sciopero generale.

La secessione fu formalizzata il 26 giugno in una riunione dell’opposizione nella Sala della Lupa a Montecitorio. L’abbandono del Parlamento prese il nome di «Aventino», dal colle romano dove tra il V e il III secolo avanti Cristo la plebe si era ritirata a più riprese per protestare contro la mancata parificazione dei diritti con i patrizi. Fu un tragico errore, come disse Giolitti, al quale gli oppositori si rivolsero per guidare un governo di unità nazionale: «Se i deputati dell’Aventino fossero rimasti nell’aula a compiere fieramente il loro ufficio, sarebbero stati certamente inevitabili incidenti gravissimi, e probabilmente le rivoltellate avrebbero sostituito le votazioni … ma si sarebbe così determinata e affrettata quella crisi che avrebbe probabilmente risolta la situazione».

La Chiesa diede agli oppositori il colpo mortale. Quando Turati e De Gasperi cercarono di avviare una collaborazione per abbattere il regime, la «Civiltà Cattolica» – voce della segreteria di Stato vaticana – ordinò che i cattolici avessero «rispetto e obbedienza» per il governo costituito. Certo, si poteva criticarlo, stimolarlo e magari sostituirlo con nuove elezioni, a patto che il nuovo non fosse peggiore del vecchio. Ai cattolici veniva in ogni caso proibito di collaborare con i socialisti, perché anche quelli moderati (come Turati) erano «antireligiosi, anticristiani, avversi al diritto di proprietà, a quello di autorità e alla santità della famiglia».

Furono settimane difficili. Il costo della vita aumentava a salari immutati. Perfino le associazioni di combattenti e mutilati mostravano segni di raffreddamento verso il Duce, strattonato al tempo stesso da destra dalla stampa fascista, che chiedeva di togliere di mezzo gli Sturzo e gli Albertini (e per questo i loro giornali furono sequestrati), e da Curzio Malaparte (che si chiamava ancora Suckert), che incitava le province alla rivolta contro Roma.

La situazione andò fuori controllo il 16 agosto, quando fu trovato per caso il corpo di Matteotti. Era nudo, spogliato anche della fede nuziale. Le opposizioni, come s’immagina, intensificarono i loro attacchi, i gruppi clandestini comunisti attaccarono qui e là i fascisti, che reagirono violentemente causando dei morti. Mussolini replicò con minacce pesanti. Il 31 agosto disse ai minatori del monte Amiata: «Vi assicuro che il clamore delle opposizioni è molesto, ma perfettamente innocuo. Le opposizioni tutte insieme sono perfettamente impotenti. Il giorno in cui uscissero dalla vociferazione molesta per andare alle cose concrete, quel giorno noi, di costoro, faremo strame per gli accampamenti per le Camicie Nere».

L’episodio decisivo avvenne il 12 settembre. Armando Casalini, un eminente sindacalista repubblicano diventato deputato fascista, fu ucciso in tram sotto gli occhi della figlia con tre colpi di rivoltella da un carpentiere comunista, al grido di «Vendetta per Matteotti!». (All’assassino fu poi riconosciuta l’infermità mentale.) Gli estremisti alla Farinacci non aspettavano altro. Mentre il «Popolo d’Italia» invitava alla calma e alla disciplina, «Cremona Nuova» tuonava: «Prima che i fascisti si vedano costretti a reagire contro coloro che sono i responsabili morali del delitto – Amendola, Albertini, Don Sturzo, Turati … e delinquenti minori – si provveda dai poteri dello Stato al loro arresto e si proceda inoltre non al semplice sequestro dei giornali avversari, ma alla loro soppressione e sia finita la farsa dell’Aventino; se non è sufficiente la scopa, si adoperi la mitragliatrice».

La situazione per Mussolini peggiorava di settimana in settimana. Un segnale d’allarme arrivò a fine ottobre dalla modesta partecipazione al secondo anniversario della marcia su Roma, replicata all’inizio di novembre nel sesto anniversario della Vittoria. Il 12 novembre si riaprì la Camera: tra gli oppositori del fascismo, solo il deputato comunista Luigi Repossi vi rientrò, per commemorare Matteotti. Gli antifascisti si erano riuniti il giorno prima a Montecitorio, ma il discorso di Giovanni Amendola – che parlava a nome di tutti i partiti dell’Aventino – non andò oltre un generico e addolorato appello al paese. In quei giorni il grande orientalista Giorgio Levi Della Vida incontrò Amendola e ne portò un doloroso ricordo: «Si direbbe che nel suo intimo egli veda se stesso vittima designata all’espiazione delle colpe di una intera generazione … Si direbbe che ciò che gli sta a cuore non è la vittoria nell’ora presente bensì la redenzione attraverso la sofferenza sua e di tanti altri, in un avvenire che non vedrà con i suoi occhi mortali».

Il 21 luglio 1925 Amendola fu aggredito in provincia di Pistoia da una quindicina di squadristi e colpito con estrema ferocia. Dopo una dolorosa degenza in Italia, decise di farsi curare a Parigi per quello che sembrava un grave disturbo alla tiroide. Come scrive il figlio Giorgio in Una scelta di vita, si scoprì invece che «il centro dei disturbi si trovava nei polmoni». Aperto il torace, l’intervento fu giudicato inutile. I medici scrissero che «ci sembra esservi luogo ad ammettere che la sua localizzazione è stata condizionata dal violento traumatismo prodotto sulla regione corrispondente all’emitorace sinistro nel luglio 1925». Trasferito a Cannes, morì il 7 aprile 1926. Nel dopoguerra gli aggressori restarono in carcere soltanto cinque anni: l’omicidio, derubricato a preterintenzionale, fu estinto per amnistia.

La resa di Mussolini

La stretta di freni sulla libertà di stampa, che conferiva ai prefetti la facoltà d’intervenire sulla circolazione dei giornali, convinse Giolitti a passare all’opposizione, pur senza condividere l’Aventino. Gli antifascisti speravano nell’intervento del re, ma Vittorio Emanuele III si guardò bene dal muoversi. Non lo aveva fatto due anni prima per impedire la marcia su Roma, figuriamoci adesso che c’era un governo legittimamente costituito. Del resto, «non si poteva pretendere che il sovrano facesse politica» avrebbe detto nel dopoguerra suo figlio Umberto. Al sovrano interessava la stabilità della monarchia e a chi andava a trovarlo invocandone l’intervento diceva: ho le mani legate, si muova una delle due Camere e vedremo. Secondo De Felice, sia il re sia l’esercito si sarebbero liberati volentieri di Mussolini, ma avevano paura del salto nel buio: se una volta messo in moto il meccanismo, non si fosse potuto fermarlo in tempo? Non era meglio, allora, lasciare che le cose facessero il loro corso? Così Luigi Salvatorelli e Giovanni Mira possono concludere: «Col ricordo sempre vivo dell’estremismo socialista e con la paura che esso potesse rialzare la testa, mentre si confermava il lealismo monarchico di Mussolini, Vittorio Emanuele si fidava di più, o diffidava meno, del fascismo che dei suoi oppositori».

In Senato, che pure era blindato, i consensi fascisti scendevano rapidamente. In dicembre Raffaele Paolucci, eminente medico e deputato (nel dopoguerra sarà eletto senatore della Repubblica), riunì in casa sua 44 deputati fascisti favorevoli a fermare Farinacci e la sua «seconda ondata rivoluzionaria». Ma non servì. Il 27 dicembre Amendola pubblicò sul «Mondo» il Memoriale Rossi contro Mussolini: si rivelò una pistola quasi scarica, perché il contenuto era in larga parte noto. L’inquietudine, comunque, era tale che nel Consiglio dei ministri del 30 dicembre furono ventilate le dimissioni del ministero. C’era chi vagheggiava (tra gli antifascisti moderati) un governo istituzionale con la partecipazione di tutti gli ex presidenti del Consiglio, Mussolini compreso, e chi voleva (anche nel governo) Federzoni, ministro dell’Interno amico del re, al posto del Duce. Mussolini resistette, minacciando l’uso della piazza, mentre divideva le opposizioni con una proposta di riforma elettorale uninominale assai gradita ai liberali (che recuperavano i vecchi collegi) e al «Corriere della Sera», e mortale, invece, per socialisti e popolari, molto più favoriti dal sistema proporzionale. Gli stessi peones fascisti erano allarmatissimi, perché il Duce avrebbe potuto beneficarli con un collegio sicuro o sacrificarli senza lasciare impronte.

L’evento cruciale accadde il 31 dicembre, quando 33 consoli della Milizia si presentarono all’improvviso a palazzo Chigi. Attraversarono saloni deserti fino a incontrare, in solitudine, l’usciere Navarra. Il poveruomo provò ad annunciarli, ma questi lo seguirono entrando nella stanza di Mussolini prima di riceverne il permesso. Ne abbiamo testimonianza attraverso Renzo Montagna (Mussolini e il processo di Verona), uno dei consoli che poi avrebbe seguito il Duce a Salò, diventando capo della polizia. Mussolini non era solo nella stanza: con lui c’erano il ministro del Tesoro e delle Finanze De Stefani e il generale Asclepia Gandolfo, comandante della Milizia. I consoli erano guidati da due uomini che avevano combattuto con valore in guerra tra gli Arditi ed erano fascisti della prima ora: Enzo Galbiati e Aldo Tarabella. Mussolini chiese ragione dell’assenza di Tullio Tamburini, temutissimo ras di Firenze, testa bollente che già aveva minacciato di andarsene per conto proprio. Tarabella gli porse una lettera in cui Tamburini annunciava che «avrebbe dato subito inizio alla reazione contro gli antifascisti». (E, in effetti, Firenze visse una giornata nerissima: 4000 squadristi armati diedero l’assalto al carcere delle Murate per liberare i fascisti arrestati. Furono respinti, ma invasero la città, incendiando sedi di giornali e partiti antifascisti.)

Mussolini, scurissimo in volto, posò la lettera sul tavolo e, quando si accorse che De Stefani aveva allungato l’occhio, fu lesto a infilarsela in tasca. Parlò per tutti Tarabella, il quale ammise che gli auguri di fine anno erano un pretesto: «Siamo venuti da voi per dirvi che siamo stanchi di segnare il passo. O tutti in prigione, compreso voi, o tutti fuori. Le prigioni sono ormai piene di fascisti. Si sta facendo il processo al fascismo e voi non volete assumervi la responsabilità della rivoluzione». Dopo una scaramuccia sulla boutade di costituirsi a Regina Coeli, Mussolini disse: «Ma infine che cosa si vuole? Cosa si chiede? Che cosa pretende lo squadrismo? Normalizzazione, normalizzazione!».

Tarabella: «Come! Voi che avete infiammato tanti giovani cuori, che tanto avete esaltato questa santa canaglia, voi che avete indotto tanti giovani agli eroismi più sublimi, pretendete ora che questa santa canaglia a un sol colpo della vostra bacchetta magica, si plachi? Via, Eccellenza, voi esagerate!».

Mussolini si ritirò in difesa: «Ma voi vedete bene come sono deserte le aule di palazzo Chigi in questi giorni. Che vuoto pneumatico intorno a me».

Tarabella: «Duce, ci siamo noi che siamo fedeli!». E i consoli in coro: «Sì, ci siamo noi che siamo fedeli. Lo giuriamo!».

Mussolini: «In uno dei momenti più delicati della mia vita politica mi hanno gettato tra i piedi un cadavere che mi impedisce di camminare».

Qui Tarabella sferrò l’affondo decisivo: «Che capo di una rivoluzione siete se vi impressionate di un cadavere? Ma è forse troppo un cadavere, Duce, per la vostra grande rivoluzione? Quanta acqua è passata sotto i ponti da quell’ottobre del 1922. Allora voi vi misuraste con la corona. E ora? Sparirà il gran Giolitti e voi diventerete il notaio della corona». Un accenno alla nuova legge elettorale apprezzata da Giolitti e dai liberali, e poi la stilettata: «Siate pur certo che con voi capo del governo e Duce del fascismo, il regime sparirà un giorno senza scosse pericolose, per i vostri alti fini di normalizzazione. Quale amara delusione! Ancora una volta voi avete disperatamente tesa la mano alle opposizioni. Ma con questo non fate che dilazionare la vostra miserevole fine…».

Mussolini era tramortito. Uno dei consoli gridò: «Bisogna fucilare i capi dell’Aventino!». E il Duce: «Bisognerebbe piuttosto fucilare gli assassini di Matteotti, che sono i veri responsabili di questa situazione». Si accavallarono voci e grida. «Prima fate fucilare gli uni e poi gli altri.» Tutti uscirono tranne Tarabella, che si fermò per un supplemento a quattr’occhi.

Mai Mussolini era stato e sarà trattato in questo modo, nemmeno al Gran Consiglio del 25 luglio 1943. Galbiati e Tarabella la pagheranno: saranno espulsi nel 1925 dalla Milizia per indisciplina. Ma Mussolini, quella sera di San Silvestro, capì che la sua sopravvivenza politica sarebbe dovuta passare attraverso un colpo di Stato, che cominciò tre giorni dopo, il 3 gennaio 1925. Roberto Farinacci, il vero alter ego di Mussolini, aveva vinto.

«Dal dittatore buono al semplice dittatore»

La sera del 2 gennaio Mussolini fece recapitare al re un decreto per lo scioglimento della Camera. Vittorio Emanuele restò spiazzato e non lo firmò. Disse che l’avrebbe fatto dopo l’approvazione della nuova legge elettorale da parte della Camera e dopo la conclusione del processo Matteotti, prevista non prima della primavera. A quel punto il Duce decise di agire in prima persona.

La mattina del 3 gennaio si presentò alla Camera e parlò a braccio. Esordì in modo perentorio e con tono di sfida: «L’articolo 47 dello Statuto dice: “La Camera dei deputati ha il diritto di accusare i ministri del re e di tradurli dinanzi all’Alta corte di giustizia”. Domando formalmente se in questa Camera, o fuori di questa Camera, c’è qualcuno che si voglia valere dell’articolo 47». Quindi rivendicò di aver pronunciato il 7 giugno 1924 «profonde parole di vita»: «Avevo stabilito i termini di quella necessaria convivenza senza la quale non è possibile assemblea politica di sorta. E come potevo … dopo un successo così clamoroso, che tutta la Camera ha ammesso, comprese le opposizioni, per cui la Camera si riaperse il mercoledì successivo in un’atmosfera idilliaca … come potevo pensare, senza essere colpito da morbosa follia, non dico solo di far commettere un delitto, ma nemmeno il più tenue, il più ridicolo sfregio a quell’avversario che io stimavo perché aveva una certa crarerie [spavalderia], un certo coraggio, che rassomigliavano qualche volta al mio coraggio e alla mia ostinatezza nel sostenere le tesi? [Lo ammirava, sì, ma qualche giorno prima del rapimento il “Popolo d’Italia” aveva scritto in un corsivo: “Se Matteotti si troverà un giorno con la testa rotta dovrà ringraziare solo se stesso e la sua testardaggine”.]

«Fu alla fine di quel mese, di quel mese che è segnato profondamente nella mia vita,» proseguì Mussolini «che io dissi: “voglio che ci sia la pace per il popolo italiano”; e volevo stabilire la normalità della vita politica italiana. Ma come si è risposto a questo mio principio? Prima di tutto, con la secessione dell’Aventino, secessione anticostituzionale, nettamente rivoluzionaria. Poi con una campagna giornalistica … immonda e miserabile che ci ha disonorato per tre mesi. Le più fantastiche, le più raccapriccianti, le più macabre menzogne sono state affermate diffusamente su tutti i giornali.» Ricordò l’assassinio del deputato fascista e vicesegretario generale delle Corporazioni sindacali Armando Casalini, che morì povero («Aveva 60 lire in tasca»), ed elencò gli 11 fascisti uccisi tra novembre e dicembre, di cui 8 nelle ultime 48 ore. Poi rifiutò ogni accostamento alla Ceka, trovando grottesco l’accostamento con quella sovietica, «che ha giustiziato tra le 150 e le 160.000 persone», e aggiunse: «La violenza per essere risolutiva deve essere chirurgica, intelligente e cavalleresca. Ora le gesta di questa sedicente Ceka sono state sempre inintelligenti, incomposte e stupide».

Dopodiché andò al sodo: «Io dichiaro qui al cospetto di questa assemblea e al cospetto di tutto il popolo italiano che assumo, io solo, la responsabilità politica, morale, storica di tutto quanto è avvenuto. Se le frasi più o meno storpiate bastano per impiccare un uomo, fuori il palo e fuori la corda! Se il fascismo non è stato che olio di ricino e manganello e non invece una superba passione della migliore gioventù italiana, a me la colpa! Se il fascismo è stato un’associazione a delinquere, se tutte le violenze sono state il risultato di un determinato clima storico, politico, morale, a me la responsabilità di questo, perché questo clima storico, politico e morale io l’ho creato con una propaganda che va dall’intervento fino ad oggi».

Infine, la conclusione teatrale: «L’Italia, o signori, vuole la pace, vuole la tranquillità, vuole la calma laboriosa; gliela daremo con l’amore, se è possibile, o con la forza se sarà necessario. Voi state certi che nelle quarantott’ore successive al mio discorso, la situazione sarà chiarita su tutta l’area».

La Camera, senza l’opposizione aventiniana, gli diede campo libero. E lui mantenne la parola. La notte stessa del 3 gennaio il ministro dell’Interno Federzoni diramò due telegrammi ai prefetti: vietate manifestazioni, comizi, cortei. Chiusi i circoli antifascisti, rigorosa applicazione delle misure repressive sulla stampa.

Sarà necessario oltre un anno per la definitiva rottura di ciò che restava delle libertà democratiche e costituzionali. Ma, come dice Paolo Monelli, dal 3 gennaio 1925 «il buon dittatore diventò semplicemente un dittatore».