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La lenta agonia del governo gialloverde

Conte a Zingaretti: «Io non sono un problema»

Alle 15.18 di mercoledì 7 agosto 2019 invitai con un whatsapp Matteo Salvini ad aprire il 10 settembre la venticinquesima stagione di «Porta a porta». Le polemiche successive alla clamorosa affermazione della Lega alle elezioni europee del 6 maggio ne avrebbero fatto prevedibilmente l’uomo del giorno anche alla ripresa autunnale. La crisi, che fino a luglio appariva imminente, sembrava scongiurata. Quindi…

Salvini rispose otto minuti dopo, alle 15.26: «Ci sarò. Vediamo in che veste…». L’emoticon che chiudeva il whatsapp era ambiguo. L’indomani il Capitano apriva ufficialmente la crisi di governo più singolare della storia repubblicana.

Salvini non sapeva che una settimana dopo, mercoledì 14 agosto, la crisi avrebbe avuto una svolta inattesa sotto i suoi occhi, senza che lui se ne accorgesse. Le più alte cariche dello Stato si erano date appuntamento a Genova, dinanzi al braccio del ponte Morandi amputato esattamente un anno prima dall’incredibile crollo che aveva ucciso 43 persone. C’era il presidente della Repubblica Sergio Mattarella, c’era il presidente del Consiglio Giuseppe Conte, c’erano i vicepresidenti Matteo Salvini e Luigi Di Maio. Il protocollo prevedeva che gli ultimi due sedessero l’uno accanto all’altro, ma l’esplosione della crisi aveva consigliato di dividerli con una sedia assegnata al sindaco di Genova, Marco Bucci. Salvini e Di Maio assistettero alla cerimonia senza stringersi la mano e senza mai incrociare gli sguardi. Il segretario della Lega diede la mano a Conte, ma l’immagine che li ritrae è quella di due gentiluomini che stanno per sfidarsi a duello.

Alla cerimonia assisteva anche il segretario del Partito democratico, Nicola Zingaretti, il quale scambiò due parole con Conte che gli lanciò una frase decisiva: «Io non sono un problema…». Quasi a dire: se ritenete di creare le condizioni per un cambio di fronte al governo, io non sarò di ostacolo. Era un via libera, insomma.

Zingaretti, pur ancora convinto che il voto fosse la soluzione migliore, quella mattina a Genova gli rispose: «È difficile, non so se matureranno le condizioni, ma guarda che se si determina una situazione in cui si possono andare a vedere le carte, noi ci andiamo».

Poi risalì in auto e dichiarò alla stampa di essere rimasto impressionato dal gelo tra Salvini e Di Maio. La svolta era cominciata, senza che gli stessi protagonisti le dessero più di tanto credito.

L’unico a crederci era Franceschini

Per capire come è nato il governo giallorosso, occorre risalire indietro di un anno e mezzo. Dopo la batosta elettorale del 4 marzo 2018 (il Pd era sceso al 18 per cento, poco sopra la Lega e 14 punti sotto i 5 Stelle) ci furono colloqui tra Matteo Renzi e Vincenzo Spadafora, molto vicino a Di Maio. Le cose andarono abbastanza avanti, si parlò di un esecutivo senza i ministri del governo Gentiloni, e l’emissario pentastellato ebbe l’impressione che al segretario del Pd interessassero più le cariche negli enti pubblici che il governo stesso.

Il 7 aprile il ministro uscente della Cultura, Dario Franceschini, caldeggiò con un tweet l’accordo, dopo una cauta apertura di Di Maio, ma fu trafitto dall’hashtag #senzadime lanciato dagli amici di Renzi. Il 10 aprile, in direzione, ribadì la sua posizione: un’alleanza strategica tra Lega e 5 Stelle sarebbe stata devastante per il Pd.

Dopo il fallimento dell’esplorazione affidata al presidente del Senato Elisabetta Casellati, il 23 aprile Mattarella diede lo stesso incarico al presidente della Camera Roberto Fico. L’indomani Franceschini disse alla «Repubblica»: «Il paese si è salvato [finora] da un governo populista e sovranista. Avrebbe allontanato l’Italia dall’asse con Francia e Germania per spostarci verso quello con l’Ungheria di Orbán. L’incarico a Fico pone una domanda nuova al Partito democratico». La sua tesi, ricorda oggi, era questa: non si può consegnare il paese all’incontro tra due populismi diversi, di cui uno avrebbe trascinato a destra l’altro.

Fico tornò al Quirinale dicendo che c’erano i margini per un approfondimento. Lo sostennero sia Maurizio Martina, segretario reggente del Pd dopo le dimissioni di Renzi, sia Marco Minniti. Intanto, nei suoi contatti con Spadafora, Renzi chiese che Di Maio facesse un’uscita pubblica in cui chiudeva i rapporti con la Lega. Propose, poi, di spostare alla settimana successiva la direzione del partito per una valutazione complessiva. (Aveva infatti fissato la partecipazione a «Che tempo che fa», la trasmissione di Fabio Fazio, per la sera di domenica 29 aprile.)

Per favorire una conclusione della trattativa, Di Maio – che per la verità non aveva mai creduto fino in fondo alla possibilità di un rapporto con il Pd – pubblicò quella mattina stessa sul «Corriere della Sera» una lettera di cauta apertura.

Ma la sera, in televisione, Renzi stroncò ogni aspettativa. «Siamo seri» disse. «Chi ha perso le elezioni non può andare al governo. Non può passare il messaggio che il 4 marzo è stato uno scherzo. Noi non possiamo per un gioco di palazzo rientrare dalla finestra dopo essere usciti dalla porta.» Immediata la replica di Di Maio: «Non riescono a liberarsi di lui. I dem dicono di no ai temi, la pagheranno».

L’unico ad aver sempre creduto che, prima o poi, il Pd si sarebbe alleato con i 5 Stelle rimase Franceschini, che per un anno ha mantenuto i contatti con il Movimento, intensificandoli nel mese di luglio 2019, nella convinzione che Salvini avrebbe rotto l’alleanza di governo utilizzando l’ultima finestra utile di luglio per andare al voto in settembre.

I risultati delle elezioni europee del 26 maggio avevano provocato nel sistema politico italiano un imprevedibile sconquasso. La Lega aveva raddoppiato i voti delle elezioni politiche del 2018 portandosi al 34,26 per cento, 28 punti in più delle europee del 2014. Il Movimento 5 Stelle aveva ottenuto il 17 per cento, 4 punti in meno rispetto al 2014 e ben 15 rispetto alle elezioni politiche di un anno prima. Il Pd (22,74 per cento) aveva recuperato quasi 4 punti sulle politiche, ma ne aveva persi 18 rispetto al mitico 41 per cento delle europee del 2014. Forza Italia era dimezzata rispetto a cinque anni prima (8,78 per cento), tallonata da Fratelli d’Italia (6,44), in netta crescita.

Tutti, anche nel Pd, si aspettavano che Salvini staccasse la spina. Per questo, il 22 luglio Franceschini rilasciò a Maria Teresa Meli del «Corriere della Sera» un’intervista dal titolo: Il M5S diverso dalla Lega. Insieme possiamo difendere certi valori. Ma la cosa cadde nel vuoto. Alla fine di luglio, il pericolo di una crisi di governo sembrava scongiurato e ai primi di agosto tutti partirono per le vacanze.

La Lega: da partito del Nord a partito nazionale

Tutti, tranne Matteo Salvini. Che era già partito per le ferie da tempo: aveva girato le spiagge in luglio e, all’inizio di agosto, stava concludendo le vacanze sul mare di Romagna, al Papeete Beach di Milano Marittima (Ravenna). Questo stabilimento balneare, dall’indirizzo anonimo (via III Traversa, 281), è dall’inizio degli anni Duemila la spiaggia più famosa d’Italia. Ne è proprietario Massimo Casanova, 49 anni e tre figli, un imprenditore di origini pugliesi che proprio nella sua terra ha fatto incetta di preferenze (65.000), diventando deputato europeo per la Lega alle elezioni del 2019.

Fronte spaziosa, resa immensa da una profonda stempiatura, barba folta, espressione al tempo stesso bonaria e rampante, Casanova ha consentito a Salvini – i due sono amici di vecchia data – di fare della sua spiaggia il punto di attrazione mediatica e politica più clamoroso dell’estate 2019. Quarantacinque anni prima, chi scrive era riuscito, con una sensazionale deroga al protocollo della Prima Repubblica, a strappare nel giorno di Ferragosto il ministro dell’Interno Paolo Emilio Taviani dalla sua scrivania al Viminale per fargli un’intervista all’aperto: non eravamo andati oltre una brevissima passeggiata su via Nazionale, sotto lo sguardo sbigottito dei poliziotti di scorta. Ora, vedendo l’ultimo successore di Taviani in costume da bagno assistere in spiaggia all’esibizione di cubiste mozzafiato mentre ballavano sulla sabbia al suono dell’inno di Mameli, avvertivo tutto il peso degli anni.

Salvini aveva programmato di rimanere a Milano Marittima la prima settimana di agosto e di trascorrere il resto del mese battendo le spiagge (e non solo) di tutto il Mezzogiorno, anticipando così la campagna elettorale. I risultati delle recenti elezioni europee avevano consacrato per la prima volta la Lega come grande partito nazionale. E il Sud, in questo senso, è stato decisivo. Il 23,46 per cento preso nelle regioni meridionali, il 22,42 nelle isole e il 33,45 nel Centro completavano in modo vistoso la prevista conferma nel Nordest (41,01 per cento) e nel Nordovest (40,7). «La svolta nazionale della Lega sotto il profilo della comunicazione» mi dice Luca Morisi, che ne è responsabile per Matteo Salvini e per il partito (la famosa «Bestia», temutissima e demonizzata da Matteo Renzi anche nel confronto televisivo con Salvini del 15 ottobre 2019) «era partita nel 2014 nello scetticismo generale. Gli storici risultati ottenuti nel Centrosud hanno visto una parallela crescita di voti anche nei territori di riferimento della vecchia Lega, dimostrando che la svolta nazionale non ha minimamente danneggiato il consenso di Salvini al Nord, anzi lo ha aumentato.»

«Attenzione,» osserva Alessandra Ghisleri, direttrice di Euromedia Research, «è vero che la Lega nel Sud è andata benissimo, ma per il suo successo politico è stata determinante l’adesione della Toscana e dell’Emilia. Lì il partito si è mosso molto bene sul territorio, coinvolgendo la classe imprenditoriale che si è saldata a quella tradizionale del Nord. Sul piano nazionale, la Lega ha uno zoccolo che oscilla tra il 20 e il 24 per cento. I 10 punti in più vengono da quella parte di opinione pubblica che non ha punti di riferimento precisi e aderisce a programmi e speranze che sarebbero proprie del cittadino comune se andasse al governo.»

«Il peso elettorale del Sud è stato determinante» aggiunge Antonio Noto (Noto Sondaggi). «Ha scelto Salvini gente che prima non aveva votato. Ma il trasversalismo della Lega ha raggiunto dimensioni inedite per l’Italia. Ha raddoppiato i voti in un anno perché tanta gente che nel 2018 si era astenuta, già nell’estate aveva cominciato a guardare a Salvini.»

«Una parte cospicua dei 6 milioni di voti persi dal Movimento 5 Stelle sono andati alla Lega» prosegue la Ghisleri. «Mentre Salvini setacciava il territorio, Di Maio ha abbracciato un ruolo istituzionale, abbandonando l’idea di Grillo di aprire il Palazzo come una scatoletta di tonno.»

«Questi risultati» osserva Morisi «sono frutto di una campagna mista tra metodologia classica e uso dei social. La manifestazione che ha riempito piazza del Duomo una settimana prima del voto ha svolto un effetto traino. Il richiamo all’orgoglio delle radici cristiane, l’invocazione ai santi patroni d’Europa, è stato criticato da molti, ma ha avuto un effetto positivo. E ne trova il riscontro dalla risposta. La pagina Facebook di Salvini ha un’audience superiore a quella di tutti i quotidiani e di tutte le pagine Facebook degli altri leader messi insieme. E postando da 20 a 30 messaggi al giorno in campagna elettorale, facevamo sì che questi canali finissero con il dettare l’agenda.»

In Italia, 32 milioni di persone usano Facebook, 20 milioni Instagram e 2,5 milioni Twitter. Nell’ottobre 2019 Salvini aveva 3 milioni 800.000 «mi piace» su Facebook contro i 2 milioni 184.000 di Di Maio, i quasi 2 milioni di Beppe Grillo, il milione e mezzo di Alessandro Di Battista, il milione 250.000 di Giorgia Meloni, il milione 150.000 di Matteo Renzi, il milione di Giuseppe Conte e Silvio Berlusconi. Ancora più netto il distacco su Instagram: 1 milione 800.000 follower, contro gli 853.000 di Di Maio, i 484.000 di Conte, i 425.000 della Meloni, che batte sia Di Battista (248.000) sia Renzi (219.000). Ma quel che conta è il numero di reazioni. Dal 1° gennaio al 30 settembre 2019 Salvini ha avuto 120 milioni di reazioni, condivisioni, commenti, contro i 20 milioni dei suoi competitori. Secondo il sistema di analisi Fanpage Karma, per ottenere lo stesso coinvolgimento sarebbe necessario spendere quasi 2 milioni di euro alla settimana in investimenti pubblicitari su Facebook. Il Capitano si piazza così al primo posto nel mondo, con un valore della sua pagina Facebook di quasi 81 milioni di euro, battendo d’un soffio il presidente brasiliano Jair Bolsonaro, vero campione dei social, e distaccando Donald Trump (68 milioni) e il premier indiano Narendra Modi (quasi 32 milioni). Una forza d’urto esagerata per tenere in piedi la vecchia casa.

M5S: «La Lega ci indeboliva come fosse kryptonite»

I rapporti all’interno della maggioranza gialloverde si erano per la verità guastati già prima della campagna elettorale. Il primo governo Conte era nato sulla base di un rapporto fiduciario tra Salvini e Di Maio. Due persone diverse, due programmi politici agli antipodi. Eppure, nel primo anno di governo l’uno aveva imparato a ingoiare i rospi servitigli dall’altro. E viceversa.

I 5 Stelle avevano avuto partita vinta con il reddito di cittadinanza (che ha funzionato come assistenza ai più poveri, ma è fallito come ricerca di nuovi lavori), il taglio dei vitalizi agli ex parlamentari e il decreto-dignità, che fissa limiti stringenti al lavoro a tempo determinato anche con un mercato stagnante. Hanno imposto di bloccare le riforme pur tiepidamente garantiste del Pd sulla giustizia e varato una legge durissima (la cosiddetta «spazzacorrotti») con l’inquietante allargamento dell’uso del «trojan»: una spia ambientale introdotta da remoto in qualunque computer o cellulare, con l’effetto di catturare e rendere pubblica anche l’intimità delle persone.

La Lega ha ottenuto la chiusura dei porti alle navi delle organizzazioni umanitarie per il trasporto dei migranti (poi annullata, di fatto, dal governo giallorosso), che ha ridotto enormemente gli sbarchi in Italia. Ha fatto approvare i decreti sicurezza e la legge sulla legittima difesa, la tassa al 15 per cento per le partite Iva minori (sotto i 65.000 euro), la quota 100 per le pensioni (38 anni di contributi e 62 di età): legge controversa, perché ha eliminato alcune storture della legge Fornero ma è in controtendenza con le crescenti capacità lavorative degli anziani in un arco di vita molto più lungo che in passato. Ha costretto i grillini a cedere sul Tap, il gasdotto pugliese, sul «Terzo valico» di alta velocità ferroviaria tra Genova e Tortona, e avrebbe ottenuto il via libera al Tav. Ha mantenuto in vita a Taranto l’Ilva, di cui i 5 Stelle volevano la chiusura, e ha imposto una legge «sbloccacantieri» di faticosissima applicazione.

Con il passare dei mesi, tuttavia, le differenze tra Lega e M5S si erano fatalmente allargate e il contratto di governo era ormai uno strumento insufficiente a farle coesistere. Si aggiunga il tormentone delle elezioni regionali: il centrodestra guidato dalla Lega ne ha vinte otto tra la primavera del 2018 e l’autunno del 2019. E se nel 2018 si era aggiudicato la Lombardia e tre regioni piccole (Molise, Friuli - Venezia Giulia, Trentino Alto Adige), nel 2019 la palla di neve era diventata una valanga inarrestabile: Abruzzo, Sardegna, Basilicata, Piemonte (alle quali si sarebbe aggiunta a fine ottobre l’Umbria, rossa dal dopoguerra), tutte regioni strappate al centrosinistra.

All’inizio i 5 Stelle si erano illusi che la Lega si limitasse a dissanguare Forza Italia, ma ben presto dovettero prendere atto che all’irrilevanza del Movimento a livello locale, ampiamente prevista, si aggiungeva un salasso continuo nei sondaggi anche a livello nazionale: a ogni sconfitta alle regionali, infatti, il M5S perdeva 3 punti. I 5 Stelle si sentivano nudi e impotenti. «Loro» dicevano i 5 Stelle «erano abituati, nelle coalizioni precedenti, anche a togliersi voti tra alleati. Noi no. Così, quando il pubblico capiva che la Lega faceva opposizione pur stando in maggioranza, ha cominciato a premiarli.»

Lo stesso Giuseppe Conte si accorse presto che le cose concordate a palazzo Chigi erano diverse dall’interpretazione che la Lega ne dava sui giornali. «Il consenso per la Lega» mi dice Laura Castelli, viceministro dell’Economia nei due governi Conte, «cresceva anche perché tanta gente si sentiva liberata dal senso di colpa nei confronti di zingari e immigrati. Era difficile poter simpatizzare per il nomade o il nero che rubano il portafogli. Ma prima molta gente si vergognava di ammetterlo pubblicamente. Salvini ha tirato fuori il problema: dicendo che la vergogna è sbagliata, che questo sentimento è normale…»

«Ricorda Superman?» mi dice confidenzialmente uno dei dirigenti storici del Movimento. «L’unico modo per frenarlo era la kryptonite, la sostanza immaginaria proveniente dal pianeta Krypton, la sola in grado di togliergli potenza. Bene, era come se la Lega fosse fatta di kryptonite: la sua sola vicinanza ci privava progressivamente delle forze…»

Quasi tutti i grillini sono convinti che Salvini volesse in cuor suo salvare l’alleanza e si trovasse a disagio per lo scontro sui temi identitari. Dicono che si fosse lamentato con Di Maio di sentirsi rispondere di no su tutto. «Dammi un tema al quale tieni particolarmente e io cercherò di tenere duro» gli avrebbe chiesto. «Tav» sarebbe stata la risposta secca. Poi le cose andarono come andarono, il leader leghista visitò il cantiere di Chiomonte in Val di Susa: «E noi ci sentimmo fregati. Sapevamo che la maggioranza degli italiani era favorevole al Treno ad Alta Velocità tra Torino e Lione. Ma per noi era una formidabile battaglia identitaria. E il nostro alleato ci ha presi in giro».

«Le cose non stanno così» mi spiega Salvini. «Di Maio mi chiese di non martellarlo con le dichiarazioni sul Tav, ma la nostra posizione era fermissima. Ero stato al cantiere di Chiomonte per ribadirla.»

Lo scontro finale e i 17 punti di scarto

«Qualcosa nell’alleanza si era rotto già ai tempi della “manina”» ricorda Giancarlo Giorgetti, vicesegretario della Lega e sottosegretario alla presidenza del Consiglio nel primo governo Conte. Era la sera del 17 ottobre 2018 e Luigi Di Maio entrò infuriato al terzo piano della palazzina di via Teulada a Roma dove si trasmette «Porta a porta». «Ci hanno imbrogliato sul condono» mi disse. «Vogliono fare un favore ai grandi evasori, domani vado alla Procura della Repubblica.» Aveva tra le mani il decreto fiscale: «Il testo sulla pace fiscale che è arrivato al Quirinale è stato manipolato. Non so se sia stata una manina politica o una manina tecnica…».

Il Quirinale fece sapere che non aveva ricevuto nessun documento ufficiale e Giorgetti, chiamato implicitamente in causa, ricordò di non aver partecipato al Consiglio dei ministri incriminato, quello del 15 ottobre. Conte invitò Salvini e Di Maio il 22 ottobre a una cena riservata al ristorante Le Cave di Sant’Ignazio, a un passo da palazzo Chigi. Ma si era creata una frattura mai più sanata.

L’avvicinarsi delle elezioni europee del 26 maggio alimentò, giorno dopo giorno, la tensione. C’erano da approvare due importanti provvedimenti: il decreto crescita e il famoso «sbloccacantieri», al quale la Lega teneva moltissimo. «Quando i 5 Stelle vedevano che una nostra proposta ci avrebbe fatto guadagnare voti, la osteggiavano» mi dice Massimo Garavaglia, che era viceministro dell’Economia. «Così dovemmo fermare le macchine e rinviare tutto a dopo le elezioni europee.»

In quel periodo fu molto drammatizzato il caso di Armando Siri, sottosegretario alle Infrastrutture e ai Trasporti in quota Lega. Il 18 aprile si seppe che era indagato per corruzione: Siri aveva chiesto (ma non ottenuto) l’inserimento nella manovra economica di provvidenze a favore delle imprese che operano nel campo dell’energia eolica. Fu accusato di averlo fatto – con la promessa di 30.000 euro – su pressione di un ex parlamentare di Forza Italia, Paolo Arata, che avrebbe agito per conto dell’imprenditore Manlio Nicastri, il cui padre Vito è accusato a sua volta di finanziare la latitanza del boss mafioso Matteo Messina Denaro. I 5 Stelle pretesero le dimissioni del sottosegretario, ma Salvini si oppose, affermando che si sarebbe dovuto almeno aspettare il rinvio a giudizio. Il 3 maggio Conte chiese a Siri di lasciare e, nel contempo, gli ritirò le deleghe. Dopo il rifiuto di abbandonare del sottosegretario, l’8 maggio gli revocò l’incarico. Il leader della Lega la prese malissimo e la sua resistenza colpì molto il gruppo dirigente del Movimento. «Capimmo che Salvini preferiva la difesa dei suoi a quella della maggioranza di governo» mi dice uno di loro. «Cercò di portare Conte dalla sua parte, ma il presidente resistette e i leghisti vissero terribilmente il caso.»

I leghisti ruggivano d’impotenza, i grillini si sentivano sopraffatti. «Noi cercavamo di non colpirlo sui temi identitari della Lega, lui cercava tutte le nostre contraddizioni (Tav, Tap, Ilva) per metterci in crescente difficoltà» continua il mio interlocutore. Di Maio era quello in maggiore sofferenza. Diceva ai suoi: «Noi ci siamo dilaniati votando online con il Rousseau per salvarlo sul caso Diciotti e lui ci ricambia in questo modo?». (Con il 59 per cento dei voti favorevoli e il 41 di voti contrari, il 19 febbraio il M5S si era detto favorevole alla concessione dell’immunità al ministro dell’Interno accusato dal Tribunale dei ministri di Catania di sequestro di persona aggravato per aver trattenuto i migranti su una nave militare. I 5 Stelle erano sempre stati contrari alla concessione dell’immunità ai parlamentari.) «Il nostro risentimento era fortissimo. Per questo dovemmo cambiare strategia di comunicazione.»

Le ultime settimane della campagna elettorale videro i due partiti di maggioranza attaccarsi in pubblico come se non fossero alleati. Di Maio, in particolare, martellò la Lega in modo scientifico. Finché Giorgetti sbottò: «Conte non è più sopra le parti e i 5 Stelle ci fanno opposizione» disse a Luca Ferrua della «Stampa» il 20 maggio. «Il governo è fermo da venti giorni … nell’esecutivo non riusciamo più a fare un ordine del giorno.» La Lega è dunque sotto assedio?, gli chiese l’intervistatore. «Salvini è stato visto come un pericolo e le bombe arrivano da tutte le parti. Se sfidi il potere costituito in Italia e in Europa diventi un pericolo che in qualche modo deve essere sterilizzato … Se sfidi l’Europa per cambiare le regole è normale che ti si rivoltino contro. Pensi che a livello nazionale, in funzione anti-Salvini, hanno fatto diventare ragionevole e utile anche il cinquestelle Di Maio.»

E aggiunse: «Contro di noi vengono affrontati temi un po’ retrò come l’antifascismo. Sui temi reali invece zero, delle cose da fare non si parla … In queste ultime tre settimane il governo è in stallo … Siamo in surplace come nel ciclismo … Salvini si comporta con lealtà, anche di fronte al fuoco di fila dei 5 Stelle, una lealtà che va contro ogni ragionevolezza. Ma lui lo considera un valore … Conte ha cercato e cerca di interpretare un ruolo di mediazione che non può essere solo quello dei buoni sentimenti. La sensibilità politica lui non ce l’ha e quando lo scontro si fa duro ed è chiamato a scendere in campo fa riferimento alla posizione politica di chi lo ha espresso. Non ha i pregiudizi ideologici del mondo grillino. Ma lui non è una persona di garanzia. È espressione dei 5 Stelle ed è chiamato alla coerenza di appartenenza».

«Gravissimo dubitare della mia imparzialità» replicò immediatamente Conte, ma la rottura era consumata.

Qualche effetto sembrò esserci, dopo l’attacco dei 5 Stelle. I sondaggi segnalarono la perdita di 3 punti da parte della Lega, quotata intorno al 29 per cento, e un recupero dei 5 Stelle, saliti fin quasi al 23, più o meno la quotazione del Partito democratico. I risultati elettorali andarono, invece, oltre ogni più pessimistica previsione. Non era mai accaduto nella storia italiana che, nel giro di un anno, i rapporti tra due forze politiche si ribaltassero in questo modo.

La vittoria della Lega tardò a manifestarsi nelle sue dimensioni clamorose. La media degli exit poll in apertura della serata elettorale dava la Lega al 28,6 per cento e i 5 Stelle al 22,4, con il Pd al 21. I 6 punti di differenza crebbero costantemente nel corso della notte, fino a diventare 17. Un trionfo e un disastro.

Perché Salvini non volle il rimpasto

Dopo le elezioni europee, i rapporti tra Salvini e Di Maio tornarono apparentemente normali. Apparentemente, perché quel 17 per cento pesava in modo insopportabile sulla schiena del capo politico dei 5 Stelle, convinto che il suo impegno di governo non fosse minimamente riconosciuto dall’elettorato, affascinato invece dalla capacità del Capitano di conquistare le piazze. Si sentiva nell’aria che, pur nell’apparente prudenza dell’atteggiamento, il 34 per cento aveva fatto sentire Salvini ovviamente un uomo diverso. Un giorno Conte lo affrontò dentro e fuori il Consiglio dei ministri: «Ti sei montato la testa» gli disse. «Hai cambiato atteggiamento. Non credo che tu possa permettertelo.»

Quando le due parti politiche ripresero i dossier lasciati in frigorifero prima delle elezioni, i toni furono particolarmente accesi. In un incontro sul decreto «sbloccacantieri» volarono parole forti tra il ministro per il Sud Barbara Lezzi, il viceministro dell’Economia Laura Castelli e il capogruppo al Senato Stefano Patuanelli, da un lato, il viceministro dell’Economia Massimo Garavaglia e il sottosegretario Guido Guidesi, dall’altro. I leghisti la spuntarono sui cantieri e sulla crescita minacciando la crisi di governo, ma il rapporto era ormai logorato.

Allora i 5 Stelle cambiarono strategia. Ritenevano di aver pagato il fatto di essere stati troppo «ministeriali», trascurando il Movimento. Si dissero pronti a ridurre in modo consistente la loro presenza al governo. Salvini voleva la sostituzione di Danilo Toninelli al ministero delle Infrastrutture e di Elisabetta Trenta alla Difesa. I grillini non provarono nemmeno a resistere. Erano pronti a cedere questo e altro, a cominciare dal posto di Giulia Grillo alla Sanità. Ma erano rosi da un dubbio: Salvini voleva il rimpasto o la crisi?

«Io non ho mai chiesto un rimpasto» mi racconta il Capitano. «Io dicevo a Conte e a Di Maio: “Io non vi ho chiesto un ministero in più. Ma attenzione, ragazzi: Toninelli, Trenta, Grillo e Lezzi sono ministri vostri. Cambiateli nel vostro interesse”. E infatti nel governo giallorosso non c’è nessuno di questi. Segno che avevamo ragione. Ma allora non vollero fare niente.»

Conte: «La Lega si è emarginata in Europa»

C’era tuttavia un tarlo che rodeva anche la Lega dall’interno: la profonda debolezza dei populisti in Europa. Salvini sperava nell’elezione alla guida della Commissione di Manfred Weber, capogruppo del Partito popolare: bavarese, conservatore, avrebbe potuto fare da sponda all’ipotizzata alleanza popolari-populisti. Il problema è che Weber, pur essendo il candidato di punta dei popolari, fu bocciato da un veto di Emmanuel Macron (Weber si sarebbe vendicato in ottobre con la clamorosa bocciatura a commissario europeo di Sylvie Goulard, pupilla del presidente francese). E i populisti si rivelarono molto meno forti del previsto. Così il 16 luglio fu eletta a capo della Commissione il ministro della Difesa tedesco Ursula von der Leyen, con i voti decisivi dei 5 Stelle e senza quelli della Lega.

Ho chiesto a Giuseppe Conte se il voto del Movimento 5 Stelle a favore della von der Leyen ha cambiato anche i rapporti interni al governo. «No» risponde il presidente del Consiglio. «Ho incontrato nel mio appartamento a palazzo Chigi Salvini e Di Maio spiegando tutto il percorso che ha portato all’elezione della von der Leyen e le insidie che l’Italia era riuscita a evitare. Ho ricordato a Salvini che lui aveva bruciato la proposta originaria di Frans Timmermans con un tweet mentre ero in volo per Bruxelles. Lo avevo chiamato allora dall’aereo: “Caro Matteo, il presidente non lo fanno scegliere a noi. Timmermans è un amico dell’Italia, parla italiano, può darci una mano nella politica economica”. All’arrivo ho confermato alla stampa che Timmermans era un buon nome e che ci saremmo riservati una decisione.»

Perché successivamente avete fatto saltare la proposta Timmermans? «La ragione che poi mi ha portato a questa scelta, coagulando la posizione di dieci paesi, è che Timmermans faceva parte di un pacchetto completo di tutte le nomine più importanti. L’Italia ne era esclusa. Non c’era nessuna garanzia di avere un commissario importante. Noi aspiravamo alla Concorrenza, che si occupa degli aiuti di Stato. Non pensavamo minimamente, allora, di poter aspirare all’Economia…»

E così vi siete avvicinati alla von der Leyen… «Immaginavamo che una figura più moderata, espressione del Partito popolare europeo, andasse incontro anche ai desideri della Lega. Avevo avuto dalla von der Leyen le garanzie che avevo chiesto: Concorrenza e un posto nel board della Banca centrale europea, che sarebbe stata presieduta da Christine Lagarde. Non appoggiare questa scelta sarebbe stato contraddittorio.»

Conte fu abile nel gestire questa situazione. Fece sponda con il polacco Donald Tusk, presidente del Consiglio europeo dal 2014, con il quale ha consolidato un rapporto di amicizia. Riunirono undici paesi minori dell’Unione contro l’accordo favorevole a Timmermans tra Germania, Francia e Spagna, e lo fecero cadere. A quel punto l’Italia ebbe la fortuna di poter far pesare il suo voto per l’elezione di Ursula von der Leyen, che, pur essendo la pupilla di Angela Merkel, era un candidato debole. Conte convinse Di Maio a farla votare dai 5 Stelle, non immaginando che quei voti sarebbero stati determinanti per la sua elezione. E invece lo furono, e la zucca di Cenerentola si trasformò in carrozza: il Pd ebbe la presidenza del Parlamento europeo con David Sassoli, i 5 Stelle una vicepresidenza pur essendo ancora apolidi, cioè senza gruppo parlamentare, mentre fu esclusa la Lega, che aveva ottenuto il risultato europeo più clamoroso. Paolo Gentiloni ebbe la delega all’Economia, un posto chiave anche se sottoposto alla sorveglianza di Valdis Dombrovskis, l’ex primo ministro lettone, cerbero dell’austerità. Infine, per la legge di bilancio 2020 l’Italia ha ottenuto senza battere ciglio di arrivare al 2,2 per cento di deficit: soglia che al governo gialloverde non fu consentita.

(«Le elezioni europee» mi dice Nicola Zingaretti «sono state per la Lega vincenti sul piano elettorale, ma disastrose su quello politico. Un governo a guida nazionalista in Italia metteva paura a tutti. Già in campagna elettorale avevamo concordato un’azione unitaria con Stanislas Guerini, segretario del partito di Macron. Dopo le elezioni europee, noi abbiamo fatto da ponte tra Macron e i premier spagnolo Sánchez e portoghese Costa. Così, passo dopo passo, abbiamo portato Sassoli alla presidenza del Parlamento.»)

Perché a suo giudizio, chiedo a Conte, la Lega non ha seguito la sua scelta? «Salvini sperava di federare i sovranisti in un unico gruppo. Ma il progetto è fallito quando i leader più forti, l’ungherese Orbán e il polacco Kaczyński, hanno deciso di stare rispettivamente con i popolari e i conservatori. A quel punto Salvini, spiazzato e indebolito, ha avviato una trattativa tardiva con la von der Leyen, ma si è trovato in una posizione molto difficile. Doveva scegliere tra due possibilità: sposare la causa portata avanti dal presidente del Consiglio in difesa dell’interesse nazionale votando un presidente della Commissione più moderato rispetto a Timmermans, che garantiva all’Italia il commissario alla Concorrenza e un posto di vertice nella Bce, oppure difendere uno spazio politico insieme con gli altri partiti sovranisti che si contrapponevano alla von der Leyen. Ha preferito questa opzione e ha condannato la Lega all’emarginazione in Europa.»

«Personalmente non ho mai chiesto di incontrare Ursula von der Leyen» mi dice Salvini. «La presidente, secondo le regole di base di ogni democrazia, avrebbe dovuto incontrare tutte le delegazioni. Era fissato l’appuntamento con la nostra, guidata da Marco Zanni, e qualche ora prima la von der Leyen l’ha disdetto, dimostrando scarsa educazione.»

Forse immaginava una valutazione negativa reciproca… «Noi eravamo partiti senza pregiudizi, volevamo soltanto capire. In ogni caso, a Bruxelles c’è la Commissione più debole di sempre. La von der Leyen è stata eletta con soli 9 voti di margine. Cosa mai accaduta. Le hanno bocciato tre commissari ed è partita malissimo.»

Rifletta un momento, dico al leader della Lega. Giorgia Meloni viene dal Movimento sociale italiano, erede a sua volta della Repubblica di Salò. Ebbene, è nel gruppo dei conservatori. L’ungherese Orbán e il polacco Kaczyński, suoi amici sovranisti, sono rispettivamente nei popolari e nei conservatori. Perché lei, con la storia della Lega alle spalle, è nel gruppo di estremisti come Marine Le Pen in Francia e Alternative für Deutschland? «Con i francesi, gli austriaci, i fiamminghi c’è un’alleanza storica per un’Europa dei popoli. Ci unisce una visione romantica della vita e anche della riconoscenza. Ma l’Europa sta cambiando e, con essa, cambieranno gli scenari politici. Il Rassemblement di Marine Le Pen non è il Front National del padre. I tedeschi di AfD non sono né nostalgici né nazisti.»

Non era in programma un vostro avvicinamento alla Csu bavarese, l’ala destra dei popolari europei? «Con la Csu abbiamo buoni rapporti da tempo. In Spagna a livello nazionale siamo in collegamento con Vox, il partito sovranista nato da una scissione dei popolari, che è in crescita costante.»

È realistico pensare a un vostro avvicinamento al Ppe? «No, comunque sono curioso di sapere se il partito si sposterà su posizioni più vicine a quelle di Orbán rispetto a quelle della Merkel…»

Alberto Bagnai e Claudio Borghi non hanno esagerato nello spaventare l’Europa con le loro dottrine antieuro?, gli chiedo. «Hanno entrambi idee condivise da tanti economisti e premi Nobel, ma nessuno di noi mette in discussione l’appartenenza all’Unione europea e non sono immaginabili scelte unilaterali sulla moneta, anche se non c’è dubbio che l’euro abbia favorito la Germania e danneggiato l’Italia. Stiamo cambiando le regole mettendo al centro il concetto di sovranità nazionale.»

Salvini: «Ma Conte dove vuole arrivare?»

Non aveva giovato ai rapporti tra Conte e Salvini la diffusione di una conversazione informale, avvenuta il 31 gennaio 2019, tra il premier italiano e la Merkel al bar, durante il seminario svizzero di Davos. Confidava Conte: «Il Movimento 5 Stelle è molto preoccupato perché dai sondaggi che abbiamo fatto Salvini è al 35-36 per cento, mentre loro scendono al 27/26 e quindi dicono: “Quali sono i temi che possono aiutarci in campagna elettorale?”». Dal resto dell’audio rubato emerge che il presidente del Consiglio italiano si fa garante del controllo sulle posizioni dure di Salvini, che il M5S è amico della Germania e che il Capitano è contro tutti. Gli uomini di Conte suggeriscono una lettura della frase opposta a quella più accreditata, quasi che il presidente – assicurando il suo controllo politico anche sulla Lega – volesse ridurre le posizioni di Salvini a intemperanze da campagna elettorale. In realtà, il messaggio del premier alla cancelliera era questo: io sono un leader e Salvini è il mio avversario.

La partita dell’elezione di Ursula von der Leyen rafforzò la posizione psicologica di Conte. Il professore pugliese era nato come don Abbondio, «un vaso di terra cotta, costretto a viaggiare in compagnia di molti vasi di ferro». Anzi, per restare ai Promessi sposi, un povero curato in mezzo a due bravi – Salvini e Di Maio – che gli dicevano cosa si doveva e cosa non si doveva fare. Ma mentre nel romanzo di Alessandro Manzoni don Abbondio resta così com’era dalla prima all’ultima pagina, Conte si è via via convinto di poter giocare la sua partita, scoprendosi un talento politico che era rimasto sepolto da codici e pandette. Da uomo di sintesi diventò suggeritore, da terz’attore cominciò a ritagliarsi un ruolo da protagonista. Mentre i 5 Stelle continuavano a vederlo solo come un giurista prestato alla politica, i leghisti cominciarono a temerne il protagonismo. Non vorrà fare mica il Kennedy o il Blair della politica italiana?, si dicevano. E Salvini chiese direttamente a Di Maio: «Dove vuole andare? Non vorrà fondare un partito suo?».

Mi racconta Giorgetti: «Il voto dei 5 Stelle alla von der Leyen ci spiazzò perché andava contro il loro humus politico. La lealtà di Salvini con Di Maio, che aveva raggiunto punte irragionevoli, cominciò a vacillare dopo questo episodio. Non capiva più chi comandasse tra Conte e Di Maio. Conte valorizzava la figura del presidente del Consiglio nei suoi rapporti internazionali, aveva ormai relazioni importanti con le cancellerie europee. Capimmo che poteva sopravvivere a una crisi».

Il 18 luglio Giorgetti andò al Quirinale e spiegò a Mattarella le ragioni per cui aveva deciso di rinunciare a candidarsi come commissario europeo: «Non potevo rappresentare» mi dice «un governo confuso al punto che i 5 Stelle avevano votato a favore della von der Leyen e noi contro». E poi, quale delega avrebbe avuto un commissario di debole opposizione nel Parlamento di Strasburgo? Giorgetti è rispettato in modo trasversale, ma come sarebbe andato l’esame di fronte a un uditorio maldisposto?

Che cosa accadde all’hotel Metropol di Mosca?

A giudizio di Giorgetti, la seconda tappa di avvicinamento alla crisi fu l’intervento di Conte al Senato sulla «questione russa», che coinvolgeva il capo della Lega.

La storia comincia il 24 febbraio 2019 quando il settimanale «L’Espresso» pubblica un’anticipazione del Libro nero della Lega, già citato nelle pagine precedenti, dei giornalisti Giovanni Tizian e Stefano Vergine. Nell’articolo si scrive che Gianluca Savoini, vecchio amico di Salvini dai tempi del Consiglio comunale di Milano e suo uomo di riferimento per i rapporti con la Russia, il 18 ottobre 2018 ha partecipato insieme ad altri due italiani a un incontro con tre russi nell’hotel Metropol di Mosca. Oggetto del colloquio, la fornitura all’Eni di 3 milioni di tonnellate di gasolio nell’arco di un anno, con una provvigione di 3 milioni di euro per finanziare la campagna della Lega alle imminenti elezioni europee.

Savoini, presidente dell’Associazione culturale Lombardia-Russia, ha una moglie russa ed è da sempre un anticomunista dichiarato. Parlai con lui proprio nell’ottobre 2018 per il libro Rivoluzione. Mi raccontò che i rapporti della Lega con Russia Unita, il partito di Putin, erano iniziati nel 2013, quando due suoi dirigenti parteciparono al congresso che elesse Salvini segretario federale. L’anno successivo il segretario della Lega fu festeggiato durante una visita alla Duma, il Parlamento russo, e il 17 ottobre conobbe Putin in un breve incontro al Westin Palace di Milano. Prima una conversazione a quattr’occhi, poi allargata a Savoini e a Claudio D’Amico, in seguito assessore leghista nel comune di Sesto San Giovanni e consigliere strategico di Salvini per le questioni internazionali. Il 6 marzo 2017, tra la Lega e Russia Unita fu firmato un protocollo d’intesa. Chiesi a Salvini un anno fa, per Rivoluzione, se avesse mai avuto finanziamenti dalla Russia e lui rispose: «Mai visto un rublo. La storia è nata quando Marine Le Pen ha avuto un prestito da una banca russa, visto che in Francia non le facevano credito per ragioni ideologiche».

Le rivelazioni dell’«Espresso» non fecero un gran rumore e per quattro mesi e mezzo non accadde nulla di rilevante. Il 10 luglio 2019 il sito americano «BuzzFeed» pubblicò la traccia audio della conversazione del 18 ottobre 2018 all’hotel Metropol di Mosca. (Si scoprirà in seguito che anche «L’Espresso», in febbraio, aveva l’audio e non si è mai capito perché non l’abbia diffuso subito.) Oltre a Savoini, all’incontro erano presenti per parte italiana l’avvocato d’affari romano Gianluca Meranda e il consulente bancario Francesco Vannucci, vicecoordinatore provinciale della Margherita a Livorno fino al 2005.

Nei giorni successivi si apprendono nuovi particolari sul presunto affare, più importante di quanto rivelato in febbraio dall’«Espresso». Un colosso petrolifero russo avrebbe venduto 3 milioni di tonnellate di kerosene e gasolio, con uno sconto del 4 per cento, a una banca d’affari che avrebbe rivenduto la partita a prezzo pieno all’Eni.

«BuzzFeed» sostiene di aver calcolato che, ai prezzi di mercato, l’Eni avrebbe dovuto pagare la partita 1,5 miliardi di dollari. Lo sconto del 4 per cento, pari a 65 milioni di dollari, sarebbe dovuto andare alla Lega. Se gli intermediari avessero ottenuto uno sconto maggiore – il 6,5 per cento –, la differenza sarebbe andata ai tre russi. L’Eni smentisce (fra l’altro, tratta greggio, non prodotti già raffinati). La Lega minaccia querele. La Procura di Milano indaga i tre italiani (Savoini, Meranda e Vannucci) per corruzione internazionale e, alla fine dell’estate, identifica anche i tre russi coinvolti, due dei quali sono Andrey Kharchenko e Ilya Yakunin. Il primo, accreditato come diplomatico presso l’ambasciata russa a Roma, è vicino ad Aleksandr Dugin, ideologo sovranista su posizioni molto affini a quelle di Putin.

Nell’audio diffuso dal sito americano, Savoini dice di voler «cambiare l’Europa. Una nuova Europa deve essere vicina alla Russia, come in passato, perché noi vogliamo avere la nostra sovranità». Nella conversazione, Salvini viene definito il «Trump europeo».

Si apprende, inoltre, che la sera prima dell’incontro del Metropol, il 17 ottobre, Salvini si trovava a Mosca per un’assemblea di Confindustria Russia. Cena con Savoini, D’Amico, il presidente (Ernesto Ferlenghi) e il direttore (Luca Picasso) di Confindustria Russia, e tre uomini del proprio staff. Si ipotizza anche un suo incontro riservato e si fa il nome di Dmitry Kozak, vice primo ministro russo con delega all’Energia. «Non ci sarebbe niente di male se lo avessi incontrato,» mi dice Salvini «ma dalle ricerche che ho fatto non risulta alcun incontro con lui.»

Il 21 ottobre la trasmissione «Report» ha parlato di un incontro anche con Konstantin Malofeev, l’«Oligarca di Dio», uno degli uomini più ricchi di Russia che, a suo tempo, finanziò Marine Le Pen. Il 22 ottobre lei ha detto a «Porta a porta»: «L’ho incontrato, ma non gli ho mai chiesto una lira». Possiamo immaginare un incontro politico per avvicinare l’Italia e l’Unione europea alla Russia? «Malofeev è un imprenditore anche nel settore televisivo. Ho incontrato decine di imprenditori in quella e in altre occasioni, e con tutti parlammo dell’eliminazione delle sanzioni alla Russia per difendere l’interesse dell’economia italiana e riaprire ai nostri esportatori un mercato importantissimo.»

Quando gli chiedo di chiarire il famoso «buco» di alcune ore nella sua visita a Mosca, il Capitano scoppia in una risata. Chiama il suo caposegreteria Andrea Paganella e gli dice di cercare sul telefonino alcune foto. Si vedono Salvini e i suoi allegri e intabarrati in pellicce. «Dopo il convegno,» mi racconta «eccoci al ristorante Ruski con un ice bar dove c’erano non so quanti gradi sotto lo zero. Con me ci sono il presidente di Confindustria Russia Ernesto Ferlenghi, il mio caposegreteria Paganella, il capufficio stampa Matteo Pandini e Massimo Casanova, parlamentare europeo. Prima, come risulta dal programma ufficiale dell’assemblea di Confindustria Russia, ci fu una cena privata nello stesso posto, con vista panoramica su Mosca, alla quale non partecipò alcun esponente del governo russo: c’erano solo il mio staff e alcuni imprenditori italiani di Confindustria Russia.»

Salvini: «Savoini? Incauto, non delinquente»

Gianluca Meranda, personaggio molto controverso, si chiama fuori, dicendo che tra i clienti del suo studio ci sono compagnie petrolifere e banche d’affari. Sostiene che, come accade spesso in questi casi, la trattativa – a suo giudizio trasparente – non è andata a buon fine. A metà luglio 2019, quando il suo nome appare sui giornali, Francesco Vannucci puntualizza all’agenzia Ansa di essere un consulente di Meranda e afferma che l’incontro «prettamente professionale si è svolto nel rispetto dei canoni della deontologia commerciale».

Il 18 luglio, in un’intervista al «Corriere della Sera», Salvini dice a proposito di Savoini: «Mi fido di chi mi è vicino». Ma il giornale titola sull’avvertimento agli alleati di governo: Il Movimento scelga. Se dicono altri tre no, allora cambia tutto. (Tre giorni prima, aveva spiegato così ai giornalisti la sua decisione di non riferire in Parlamento sul caso: «Non intendo più parlare di soldi che non ho visto, né ho chiesto. Se ci fosse qualcosa da chiarire sarei il primo a farlo, ma non commento le non-notizie. Mi occupo di vita reale e noi non abbiamo preso un rublo».)

Vista l’indisponibilità del ministro dell’Interno, il 24 luglio Conte parla brevemente al Senato dell’affare Russia. Conferma le date della visita di Salvini e Savoini in Russia, dichiara che quest’ultimo non ha incarichi ufficiali e che era alla cena del 4 luglio organizzata a villa Madama in onore di Putin in qualità di partecipante al Forum italo-russo. Stoccata a Salvini: «Non ho ricevuto notizie dal ministro competente».

«È una vicenda che mi ha molto imbarazzato come capo del governo» mi dice il presidente del Consiglio durante il nostro colloquio a palazzo Chigi. «Se vengono fuori incontri ufficiali del ministro dell’Interno e di persone che fanno parte di una delegazione ufficiale, il ministro non può chiamarsene fuori. Quando sono andato in Senato a rispondere al posto di Salvini, prima di recarmi in aula gli ho scritto una lettera ricordandogli che non avevo motivo di dubitare della legittimità del suo operato, ma al tempo stesso era necessario che mi comunicasse tutte le informazioni in suo possesso per consentirmi di chiarire le ricostruzioni che erano uscite sulla stampa. Alla mia richiesta ufficiale, Salvini non ha risposto. La mattina del giorno fissato per la mia comunicazione al Senato, l’ho invitato nel mio appartamento, mi sono lamentato che non avesse risposto alla lettera e gli ho anticipato i contenuti dell’informativa al Parlamento. Gli ho detto che avevo saputo da altri uffici del governo che Gianluca Savoini era stato accreditato come membro della delegazione ufficiale italiana agli incontri con il ministro dell’Interno e il capo della sicurezza russa nei giorni della visita del presidente Putin. Salvini mi rispose con un cenno del capo, come a dire: non so che fare. Ho dovuto fornire al Senato i chiarimenti necessari per ragioni di sicurezza nazionale e per evitare che l’azione del governo italiano ne risultasse indebolita anche sul piano internazionale.»

Matteo Salvini sa bene che questo è un punto delicato. Nessuno realisticamente immagina che lui – ministro dell’Interno in carica – abbia dato mandato ai suoi di incontrare personaggi improbabili per trattare una tangente gigantesca (pari quasi a quella Enimont degli anni Ottanta) in un albergo noto per essere un crocevia di servizi segreti. E quando lo incontro in un pomeriggio di fine ottobre 2019 nel suo ufficio del Senato (una bella mansarda da cui si scorge il frontone cinquecentesco di San Luigi dei Francesi) accetta di dire qualche parola in più delle pochissime dette finora.

Salvini è disteso, ha ancora nelle orecchie i rumori amici della grande manifestazione del 19 ottobre a piazza San Giovanni e assapora in anticipo il clamoroso successo delle elezioni umbre del 27 ottobre. Ha pranzato con la sua compagna Francesca Verdini alla Festa del Cinema, stupito – più che amareggiato – dagli sguardi sconcertati di chi lo considerava un visitatore abusivo in un tempio sacro della sinistra. Gli faccio notare che ha sbagliato a non presentarsi in Parlamento a dire qualcosa – magari soltanto qualcosa – sulla presenza di Savoini al Metropol di Mosca e lui tiene il punto: «Andare a riferire al Senato sarebbe stato un precedente pericoloso. Chiunque potrebbe allora essere convocato per qualsiasi ragione, un pezzo d’intercettazione, un’inchiesta giornalistica. Non mi risulta sia accaduto nulla di grave».

Una pausa, quindi si toglie il sassolino: «Eppoi, ricorda quando il Pd ha chiesto a Conte di chiarire il suo presunto conflitto d’interesse a proposito dello studio legale associato con il professor Guido Alpa che ha presieduto la commissione d’esame che lo ha mandato in cattedra? Ha mai risposto Conte?».

Immagino che avrà chiesto a Savoini chiarimenti sull’incontro al Metropol… «Sì, e lui mi ha risposto: “Matteo, non c’è nulla di cui preoccuparsi”. Ho conosciuto Savoini nel 1993 quando era giornalista all’“Indipendente”. È nato un rapporto di amicizia e mi sono convinto che non è il tipo da fare cose strane in giro. E, comunque, non ho mai abbandonato un amico in un momento di difficoltà, si chiami Savoini, Siri, Garavaglia, Bossi. A costo di essere attaccato.»

Ammetterà che Savoini è stato perlomeno incauto. «Incauto sì. Visto da fuori, il curriculum del suo accompagnatore [Gianluca Meranda] non è quello della migliore frequentazione possibile. In ogni caso, incauto è una cosa, delinquente è un’altra.»

Mai avuto rapporti con Eni?, chiedo a Salvini. «Mi è capitato di fare viaggi di lavoro con Claudio Descalzi, amministratore delegato Eni, uno dei migliori manager in circolazione, come Giuseppe Bono, amministratore delegato di Fincantieri. Gente che fa davvero l’interesse dell’Italia. E non abbiamo parlato mai di roba strana.»

Che cosa ha replicato a Conte quando le ha contestato il rifiuto di rispondere in Parlamento? «Gli ho detto che non avevo niente da riferire. Sono andato in Russia per ragioni culturali e politiche. Ci sono stato un paio di volte anche in vacanza a mie spese. L’ultima il 6 gennaio 2017, per il Natale ortodosso. Erano i giorni in cui la temperatura toccò i 40 gradi sotto lo zero. E non ho mai chiesto niente a nessuno.»

Giorgetti: «Un contratto con l’Eni? Probabile come l’offerta a me di allenare l’Inter…»

«Un contratto di quel genere dei russi con l’Eni?» ridacchia Giancarlo Giorgetti. «Ha le stesse probabilità che ho io di ricevere un’offerta per allenare l’Inter.» L’ex sottosegretario alla presidenza del Consiglio ha lasciato i saloni dorati di palazzo Chigi per tornarsene nei sobri uffici del gruppo parlamentare leghista alla Camera. Stesse stanze dei tempi di Umberto Bossi e di Roberto Maroni. Stessa foto di Bruno Salvadori, l’autonomista valdostano morto a 38 anni nel 1980 e padre politico del Senatùr. Statuetta della Madonna di Lourdes sulla scrivania (Salvini non è il solo nemmeno in questo) e gran voglia di riprendersi la presidenza della Cooperativa pescatori del lago di Varese, ereditata a suo tempo dal padre e poi lasciata a malincuore per non so quale conflitto d’interessi.

«Che cosa penso dell’incontro al Metropol? Savoini e D’Amico sono due sprovveduti avvicinati da mediatori d’affari che li immaginavano dotati di poteri magici. Altri pensavano che arrivassero fino a Salvini. Figurarsi. Però, ogni loro passo era monitorato [da servizi segreti], erano polli lasciati correre in libertà.»

E voi?, gli chiedo. «Io avevo informato Salvini e lo avevo messo in guardia. Ma lui, in assoluta buona fede, riteneva che fossero simpatici romantici assolutamente innocui, senza poter fare alcun danno.»

Invece… «Quando è arrivato il momento di danneggiare Salvini, li hanno messi in piazza ridicolizzandoli: con tutto il rispetto, figuriamoci se qualcuno avrebbe seriamente trattato di tangenti con quei due. Ma il danno d’immagine per Salvini è stato enorme, visto che lo avevano sempre accompagnato in Russia.»

Secondo lei, sono stati gli americani a tirar fuori il nastro? «Penso a una fonte europea. Un paese importante che aveva interesse a danneggiare Salvini. Gli americani sapevano tutto di questa storia. Dove cominciava e dove finiva.»

Nei primissimi giorni di marzo 2019 Giorgetti era stato negli Stati Uniti per rassicurare gli alleati sulla posizione filoatlantica della Lega. E sembrava aver avuto un esito superiore a ogni attesa anche il viaggio di Salvini a Washington il 17 giugno. Il trionfo alle elezioni europee lo aveva elevato a un grado più alto di quello previsto dal protocollo. Da vicepresidente del Consiglio, seppure in condominio con Di Maio, era istituzionalmente corretto l’incontro con il vicepresidente americano Mike Pence. Non era previsto, invece, il colloquio con il segretario di Stato Mike Pompeo, il vero numero due dell’amministrazione Trump. Pompeo, che abitualmente dovrebbe incontrare il suo omologo agli Esteri, fece uno strappo in considerazione della possibilità che Salvini potesse diventare presto presidente del Consiglio. (Tuttavia, una fonte autorevole del dipartimento di Stato ha confidato a chi scrive che la posizione di Salvini sulla Russia non convinse Pompeo.)

«È un fatto» mi spiega Giorgetti «che, in casi del genere, da certi ambienti sarebbe dovuto arrivare un aiuto. Che non è arrivato.» Per questo, dopo la crisi di governo, Giorgetti ha dovuto riprendere un delicato e laborioso lavoro di ricucitura.

Eppure Salvini afferma di non vedere ombre con gli Stati Uniti: «Ho ribadito sia a Washington sia a Roma, da fedele membro dell’Alleanza atlantica, che all’Occidente conviene avvicinare la Russia all’Europa e non regalarla alla Cina, con isolamento e sanzioni».

Lo ha detto anche al segretario di Stato americano? «Certo. Loro sono preoccupati per l’Iran e la Cina, e noi siamo d’accordo. Ma per limitare lo strapotere cinese è meglio che la Russia sia un nostro partner. Chi ha gestito la crisi tra Siria e Turchia per la questione curda nell’autunno del 2019? La Russia. Ho detto anche ai russi che il mio modello è Pratica di Mare, quando Berlusconi fece incontrare Bush e Putin e la Russia firmò un impegno di collaborazione con la Nato. Disarmo bilanciato e buoni rapporti commerciali. Questa è la mia linea.»

M5S: «Salvini aprirà la crisi a primavera»

Il giorno prima della comunicazione di Conte al Senato sulla Russia, la Lega aveva ottenuto una vittoria epocale. Il presidente del Consiglio aveva dichiarato in aula: «Alla luce dei nuovi finanziamenti comunitari, non realizzare il Tav costerebbe molto di più che completarlo. E dico questo pensando all’interesse nazionale, che è l’unica ed esclusiva stella polare che guida questo governo». Si assisteva a una scena surreale: dopo mesi di equivoci e di malintesi ostentati, di perforazioni fatte e al tempo stesso negate, di relazioni farlocche sbandierate e smentite, di trattati internazionali interpretati secondo convenienza, il premier indicato dai 5 Stelle metteva la pietra tombale su quella che fin dalla nascita del Movimento, nel 2009, era la sua battaglia identitaria per eccellenza.

Il 7 agosto la stragrande maggioranza dei senatori votò a favore del Treno ad Alta Velocità, impropriamente chiamato Tav Torino-Lione, perché in realtà è il tratto italiano di un corridoio ferroviario paneuropeo che – pur ridimensionato dalla crisi che ha tagliato la partenza da Lisbona e messo in discussione altri tratti – collegherà l’Europa meridionale a Kiev, in Ucraina. Soltanto il M5S votò contro, impegnando a far saltare il progetto non il governo di cui faceva parte, ma il Parlamento. «Eravamo ormai agnellini votati al sacrificio» mi dice ancora l’alto dirigente del Movimento. «Non avevamo aperto bocca nemmeno sulle esternazioni di Salvini al Papeete. Di Maio e Salvini non smisero mai di parlarsi. Soltanto Conte alzava la voce. Non gli piaceva che Salvini convocasse le parti sociali al Viminale. Gli rimproverava errori di grammatica istituzionale. Rintuzzava Giorgetti quando lamentava che stavamo bloccando ogni cosa. Eppure…»

Eppure, secondo Giorgetti, il destino del gabinetto Conte era segnato. Il colpo definitivo all’alleanza di governo arrivò, a suo giudizio, la notte del 31 luglio in un Consiglio dei ministri durato nove ore. Conte mi riassume il contrasto sulla riforma della giustizia in termini notarili: «Prima di uno degli ultimi Consigli dei ministri abbiamo avuto una lunga discussione con la Lega perché sia io sia il ministro Bonafede volevamo approvare la proposta di legge delega per la riforma della giustizia. Né Salvini né il ministro Bongiorno condivisero il testo della riforma, chiedendo la separazione delle carriere dei magistrati e una revisione delle norme sulle intercettazioni telefoniche, dichiarandosi poi insoddisfatti delle soluzioni che avevamo prospettato».

Sono questi due temi che hanno sempre diviso centrodestra e centrosinistra. Si aggiunga la riforma della prescrizione, che – in assenza di un’impossibile accelerazione dei processi in tempi brevissimi – rischia dal 1° gennaio 2020 di trasformare i cittadini in imputati permanenti dopo la sentenza di primo grado. «Il Consiglio dei ministri durò nove ore» ricorda Giorgetti. «Ci fu un durissimo scontro tra Bongiorno e Bonafede. I toni furono molto aspri. Chiudemmo alle 23.54. Dissi: è l’ultimo verbale che faccio come segretario del Consiglio dei ministri. L’indomani trovai Salvini in fase meditabonda. Dissi a Conte: secondo me è finita.»

Eppure, il 5 agosto l’alleanza gialloverde resse ancora, votando la fiducia al governo con l’approvazione del decreto sicurezza bis: 18 articoli di cui gli ultimi 13 erano dedicati alle misure di ordine pubblico per manifestazioni sportive e altro, e i primi 5 accrescevano i poteri del ministro dell’Interno nel vietare l’ingresso nei porti italiani di navi sospettate di favorire l’immigrazione clandestina e stabilivano il sequestro delle imbarcazioni e fortissime multe per i comandanti. (Il capo dello Stato, firmando il decreto, ricordò che restava comunque l’obbligo di salvare persone in difficoltà durante la navigazione.) Era stato necessario il voto di fiducia per superare le riserve di una parte dei 5 Stelle, ma alla fine Salvini l’aveva spuntata. «Avevano cercato sul Tav il pretesto per rompere e non l’avevamo consentito» mi racconta Laura Castelli, che da piemontese sentiva tutto il peso della battaglia perduta. «Avevamo cercato di contenere i danni sul decreto sicurezza… I problemi erano caduti tutti addosso a noi, non a loro…»

I grillini erano convinti che, per il momento, la crisi fosse scongiurata. Di Maio aveva detto ai suoi: «Se superiamo luglio, è fatta». Compulsavano il calendario con la drammatica attenzione con cui i congiunti di un moribondo guardano la mano del medico di campagna stretta intorno al polso del paziente nel dipinto Pulsazioni e palpiti di Teofilo Patini, capolavoro del realismo ottocentesco. L’ultima data utile di scioglimento delle Camere per poter votare a fine settembre fu fissata al 20 luglio, poi posticipata al 27 per poter votare all’inizio di ottobre. Con l’arrivo della fine del mese il pericolo sembrava definitivamente evitato.

Luigi Di Maio trascorse il primo weekend di agosto con i compagni più fedeli a Sapri, nel Cilento: c’erano Riccardo Fraccaro, Alfonso Bonafede, Laura Castelli. Il capo politico del M5S era molto provato: i gruppi parlamentari erano spaccati, segnali d’inquietudine arrivavano da Paola Taverna e Vito Crimi. I quattro amici provarono a programmare il semestre successivo. Ritenevano di poter affrontare la legge di bilancio di fine anno, ma erano convinti che Salvini – il più contrario dei leghisti alla crisi – l’avrebbe aperta ormai dopo le elezioni regionali della primavera 2020. La Lega si era molto allargata al Sud, ma, a giudizio dei 5 Stelle, non avrebbe potuto reggere l’inquietudine del Nord, che invocava una forte autonomia.

Elisabetta Casellati, presidente di quel Senato trasformato in una trincea, augurò buone vacanze ai colleghi, dando loro appuntamento alla ripresa autunnale. E invece…