XI
La crisi più pazza del mondo
Salvini: «Dissi a Di Maio che avevano tirato troppo la corda»
La crisi arrivò tra il 7 e l’8 agosto 2019, come un’improvvisa grandinata di fine estate che distrugge i grappoli pronti per la vendemmia lasciando i tralci nudi e avviliti. Tuoni lontani si udivano da tempo. Il più forte – pure inavvertito in alcune ali del Palazzo – c’era stato il 6 agosto. Rientrato dal Papeete, Matteo Salvini aveva riunito al Viminale 41 sigle sindacali, tra rappresentanti delle imprese e dei lavoratori, per uno degli incontri del governo parallelo che seguivano o precedevano quelli con Giuseppe Conte a palazzo Chigi, costringendo il povero Claudio Durigon, sottosegretario leghista al Lavoro, a partecipare a entrambi. Ma il clima era diverso. «Matteo chiedeva a ciascuno di noi che cosa fare» mi racconta Durigon «e noi tutti – dico tutti – gli dicevamo che non c’erano più le condizioni politiche e tecniche per andare avanti. Quel 6 agosto, anche le associazioni capirono che tutto era cambiato.»
Il 7 agosto ci fu il voto al Senato sul Tav e la firma sul decreto sicurezza bis. Subito dopo, Salvini chiamò Giancarlo Giorgetti, che era a pescare in Valle Spluga, e gli disse: «Ho deciso di rompere».
Perché, chiedo a Salvini, ha aspettato il 7 agosto per aprire la crisi? «Certo, potevo aprirla anche una settimana prima, il 28 luglio…»
Sarebbe stato diverso. «Posso essere sincero? Ho voluto aspettare fino alla fine. E la fine era il Tav. Il dibattito del 7 agosto sul Tav era surreale. Noi e i 5 Stelle eravamo due mondi diversi. Il sole e la luna. Il giorno e la notte. La crescita e la decrescita felice, l’illusione che per andare avanti bisognerebbe tornare indietro. La settimana prima, una riunione allucinante di nove ore sulla giustizia senza cavare un ragno dal buco. L’ennesimo vertice sulle autonomie per partorire zero. Abbiamo litigato continuamente sull’economia, per poi sentirmi rispondere che non potevamo allargare subito la “flat tax”. Perfino sull’immigrazione ricevevo continuamente lettere da Conte che cavillava sugli sbarchi. Liti continue anche sull’agricoltura e la scuola, perché i nostri ministri erano paralizzati. Conte aveva scippato la semplificazione burocratica alla Bongiorno… Insomma, non aveva più senso andare avanti. Così il giorno stesso del voto sul Tav andai prima da Mattarella e poi da Conte.»
E il capo dello Stato? «Ero stato più di una volta da lui, perché era preoccupato per l’alto tasso di litigiosità che vedeva nel governo. Gli dissi che non eravamo più in condizione di lavorare. Lui ne prese atto, e rispose che non avrebbe fatto il regista di operazioni di palazzo, non avrebbe spinto per una soluzione piuttosto che per un’altra. Gli dissi che la scelta migliore mi sembrava sciogliere le Camere. Lui rispose che avrebbe valutato. Il risultato è un paese più bloccato di prima.»
Avvertì Di Maio? «Conte mi chiese di poterci parlare prima lui. Ho sbagliato ad accettare, e Di Maio me lo ha rimproverato.»
Come spiegò a Di Maio la sua decisione? «Gli dissi che avevano tirato troppo la corda. Avevo capito che non sarebbe andata a finire bene già il giorno dopo le elezioni europee. Invece di seppellire l’ascia di guerra, si erano moltiplicati gli insulti.»
E lui come reagì? «Era molto dispiaciuto. Mi chiese di completare almeno il taglio dei parlamentari [approvato l’8 ottobre 2019 a larga maggioranza, con un voto trasversale]. Gli dissi che era tardi, ma che avrei sostenuto comunque la legge che avevamo già votato favorevolmente nei precedenti passaggi.»
Le è dispiaciuto lasciare il Viminale? «Certo. Il ministero dell’Interno consente di risolvere i problemi. Aggiunga la vicepresidenza del Consiglio… Sono contento di aver governato per 14 mesi, ma era ora di tagliare.»
Di Maio: «Fu sleale a non avvertirmi»
«L’ultimo atto di slealtà da parte di Salvini è di non avermi avvertito prima di parlare con Conte» mi dice Luigi Di Maio. «Avevamo scelto insieme il presidente del Consiglio.»
Come le ha motivato la decisione?, gli chiedo. «Non posso più andare avanti. Non riesco a tenere i miei… E invece, ancora in un incontro a fine luglio avevamo concordato di proseguire nell’esperienza di governo. Dopo le elezioni europee avevo lavorato per ripartire a settembre anche con una riorganizzazione del Movimento. Ne ero convinto pure dopo il voto molto sofferto sul Tav. Avevo ricevuto assicurazioni sulla durata dell’alleanza proprio in nome del principio di lealtà, che poi Salvini ha fatto cadere. La storia, d’altra parte, è piena di “stai sereno”…»
Insomma, non se l’aspettava. «L’avrei capito di più se avesse aperto la crisi subito dopo le europee. Le difficoltà c’erano e il dibattito sulla tenuta del governo durava da mesi. Non pensavo che la Lega fosse così incosciente da mollare il paese l’8 di agosto, facendo saltare l’ultimo voto sul taglio dei parlamentari che avevamo concordato e con il rischio di non bloccare l’aumento dell’Iva.»
Salvini ha provato a tenere in piedi il governo contro il parere di tutti i suoi. Voi, gli faccio notare, nelle due settimane precedenti le elezioni, lo avete martellato implacabilmente. «Io ho difeso sempre le loro posizioni, a cominciare dall’immigrazione, in cui ho sposato le loro tesi sulla necessità di un maggiore coinvolgimento dell’Europa. Non potevamo seguire Salvini sul caso Siri.»
Inchiesta delicata, ma aveva avuto solo un avviso di garanzia… «Sì, ma in un’indagine per corruzione. Io sono stato sempre garantista con la Lega, ma mi sarei aspettato in questa circostanza un passo indietro che ricambiasse le nostre attenzioni in altri momenti.»
Perché, a suo giudizio, Salvini alla fine ha fatto saltare il governo? «Voleva più seggi in Parlamento. E poi, quando sei sulla cresta dell’onda, c’è l’establishment italiano che ti dice: sei il migliore del mondo, va’ avanti da solo. Tenga conto che a un certo ambiente non andava giù che noi controllassimo i ministeri chiave. Poi la prospettiva di eleggere il prossimo presidente della Repubblica…»
Conte: «Salvini salì nel mio appartamento…»
«Il 7 agosto Salvini mi anticipò la volontà di interrompere l’esperienza di governo con il Movimento 5 Stelle» mi racconta Giuseppe Conte. «Voleva andare alle elezioni. Non aveva ancora preso una decisione definitiva, ma mi anticipò il suo orientamento. Fui io a suggerirgli di prendersi ventiquattr’ore di tempo e di rivederci l’indomani.»
Lasciato palazzo Chigi, Salvini andò a Sabaudia per un comizio. Rivendicò i risultati di un anno di governo, ma aggiunse: «Negli ultimi due o tre mesi qualcosa si è rotto. Abbiamo ricevuto troppi no. O riusciamo a fare le cose bene e velocemente o non sto a scaldare la poltrona».
L’indomani Conte andò da Mattarella e poi rivide il suo inquieto vicepresidente del Consiglio.
«Salvini venne nel tardo pomeriggio dell’8 agosto nel mio appartamento a palazzo Chigi» mi racconta il premier. «Anche questo, come quello del giorno precedente, fu un colloquio tranquillo e cortese. Era il mio compleanno. Aprimmo una bottiglia di spumante e offrimmo pasticcini. Lo invitai a riflettere sui tempi della crisi. Una crisi di governo aperta in pieno agosto avrebbe avuto conseguenze gravi per l’intero paese. Visto che forse non aveva valutato i diversi passaggi istituzionali, gli riassunsi il prevedibile cronoprogramma di una crisi. Calendario alla mano, andando a votare il prima possibile, il nuovo governo non sarebbe stato operativo se non all’inizio di dicembre. Approvare la legge di bilancio in pochi giorni sarebbe stato impossibile. Salvini mi fece capire che stava pensando di correre da solo e, in caso di vittoria, avrebbe guidato un governo monocolore. “Tu sai quanto ho sudato con la legge di bilancio precedente per evitare il procedimento d’infrazione,” gli dissi “ti rendi conto che dovresti affrontare da solo l’esercizio provvisorio di bilancio avendo sulle spalle 23 miliardi per non aumentare le aliquote Iva?”»
E lui? «Era visibilmente preoccupato. Gli dissi che metteva in forte difficoltà il Movimento e Di Maio, ma era esattamente quanto gli suggerivano i suoi calcoli politici.»
Eppure, obietto, Salvini fu l’ultimo nella Lega a volere la crisi. «Io mi sono spiegato la sua decisione in questo modo: la Lega voleva espandersi, gli amministratori locali emergenti scalpitavano, tutti leggevano i sondaggi… Eppure, lui sapeva che un leader politico non può essere un ministro dell’Interno che fa la campagna elettorale solo sull’immigrazione. E poi c’era il problema se andare da solo o no. Immagino che, alla fine, abbia pensato che restare con il Movimento sarebbe stato meglio di un’alleanza con Fratelli d’Italia. Il suo tergiversare fino all’ultimo momento era dovuto anche alla consapevolezza di assumersi una responsabilità enorme.»
Ho la sensazione che in quei giorni le cancellerie europee la incoraggiassero a cambiare cavallo. «Il fatto che io abbia sempre cercato di avere un buon rapporto con gli altri capi di Stato e di governo non vuol dire che non fossi molto duro nel difendere gli interessi nazionali. Con loro non si è mai parlato della possibilità che io facessi un governo diverso. Quel che è successo era inaspettato per tutti. Forse chi non ama Salvini auspicava una soluzione diversa, ma da qui a parlare di una benedizione ce ne corre.»
È tradizione che, quando un azionista decisivo della maggioranza di governo annuncia il ritiro della fiducia al presidente del Consiglio, questi vada a dimettersi. Conte non lo fece e mi spiega così la sua scelta: «Il 24 luglio dissi in Senato che, in caso di crisi politica, sarei sempre andato a riferire in Parlamento. Le crisi di governo non si risolvono con una telefonata. Bisogna portarle alle Camere. Salvini fraintese e disse che io andavo in Parlamento come a raccogliere funghetti in Trentino. L’indomani la mia risposta fu che non mi prestavo a giochi di palazzo e che era assolutamente fantasiosa l’ipotesi che io cercassi alle Camere maggioranze alternative o che io volessi addirittura fondare un partito. Volevo, in realtà, semplicemente attenermi alle regole della democrazia parlamentare».
All’uscita da palazzo Chigi, il premier disse ai giornalisti: «Lasciamo stare questi giochetti da Prima Repubblica. Non togliamo alla politica la sua nobiltà».
Il contropiede di Renzi: «Al governo con i 5 Stelle»
La certezza di andare al voto durò poco più di ventiquattr’ore e unì soltanto Matteo Salvini e Nicola Zingaretti. Il segretario del Partito democratico si trovava in una curiosa situazione: incoronato dal congresso, aveva i gruppi parlamentari (soprattutto al Senato) in larga parte controllati da Matteo Renzi. Aveva perciò una duplice convenienza ad andare al voto, pur mettendo in conto in cuor suo una sconfitta (in cuor suo, perché mi ricorda con un sorriso: «Non ho mai perduto un’elezione»): avrebbe riportato il Pd almeno 5 punti sopra il 18 per cento ottenuto da Renzi alle politiche del 2018 e avrebbe riequilibrato i rapporti interni, ridimensionando quantità e forza dei renziani. Con molta trasparenza, ancora in luglio aveva detto sia a Salvini sia a Giorgetti quale sarebbe stata la sua scelta in caso di crisi. «Giorgetti» mi racconta Zingaretti «è stato di un’assoluta correttezza istituzionale. Informava noi dell’opposizione di quanto stava maturando: è stato il primo a dare un giudizio liquidatorio sulla possibilità di governare con i 5 Stelle. E quando Salvini mi chiedeva come ci saremmo comportati, gli rispondevo che se avessimo fatto un governo con i 5 Stelle, il Partito democratico sarebbe esploso.»
Aperta la crisi, il segretario del Pd telefonò a Paola De Micheli, sua vicesegretario, che era già in vacanza. «Gli dissi che se la situazione si fosse polarizzata (destra contro sinistra), saremmo dovuti andare al voto» ricorda l’attuale ministro delle Infrastrutture. «C’erano in giro sondaggi riservati che vedevano i 5 Stelle precipitare al 12 per cento, anche se ufficialmente erano dati al 16. Con un Pd al 24 per cento e una coalizione di centrosinistra al 28, avrebbe vinto Salvini, ma sarebbe partito un processo sociale per noi vincente e il centrodestra avrebbe dovuto caricarsi addosso i 23 miliardi delle clausole di salvaguardia per evitare l’aumento dell’Iva.»
Nessuno, onestamente, nel Pd pensava a un ribaltone. Il 26 luglio la questione di una possibile alleanza di governo con i 5 Stelle era stata chiusa da una riunione della direzione. Dopo il finimondo scatenatosi in seguito all’apertura al Movimento di Dario Franceschini, Zingaretti aveva fatto quella che in politichese si chiama una «sintesi» tra le posizioni dialoganti del ministro della Cultura e della stessa De Micheli e quelle rigide dei renziani, di Paolo Gentiloni e altri, che erano contrari, facendosi interpreti anche dell’umore dei territori. Tutti ricordavano il fastidio con cui, alla convenzione nazionale del Pd il 3 febbraio, il segretario era esploso, riferendosi al mobbing renziano: «Basta caricature tra di noi. Lo dico davanti a tutti. Non intendo favorire nessuna alleanza con il Movimento 5 Stelle». (Il video del discorso sarebbe diventato un tormentone dopo la nascita del nuovo governo giallorosso.)
Nessuno pensava a un ribaltone fino a quando Matteo Renzi non decise di cambiare strategia… Già alle prime avvisaglie della crisi, l’ex premier aveva in testa l’idea di fare quella che il suo ex portavoce Marco Agnoletti chiama «la mossa pazza».
«Ero convinto fino all’ultimo momento che Salvini non avrebbe fatto la follia della crisi» mi racconta Renzi. «La sera del 7 agosto stavo andando alla mia unica festa dell’Unità a Santomato, una frazione di Pistoia, quando ricevetti un whatsapp da Andrea Orlando. “Come la vedi?” mi chiese. “È il momento di fare politica” risposi.»
«Pensavo a un tecnico: Draghi, Cantone, Severino»
Dicono che tra la notte di giovedì 8 e la mattina di venerdì 9 agosto a Renzi venne addirittura in mente di guidare lui un governo con i grillini (ci aveva pensato anche nel 2018), ma poi scoppiò a ridere da solo. Persino a lui sembrava troppo.
Renzi ha smentito questa storia. Il suo progetto era un altro. «All’inizio pensai a un governo totalmente tecnico e istituzionale. Pensavo a Raffaele Cantone come presidente del Consiglio. O a Mario Draghi, a Paola Severino. Elisabetta Belloni segretario generale degli Esteri, Franco Gabrielli ministro dell’Interno. Mi dissero che un magistrato è stato presidente della Repubblica [Oscar Luigi Scalfaro], ma mai presidente del Consiglio.» (Un governo istituzionale sarebbe stato di breve durata. Che era quello che voleva Renzi, e quello che non poteva accettare Zingaretti.)
Venerdì 9, leggendo sull’«Huffington Post» la notizia che lui – cambiando clamorosamente idea – avrebbe patrocinato la nascita di un governo di transizione Pd - 5 Stelle guidato da Roberto Fico, Renzi s’infuriò: «Fico è odiato dai nostri. Smentiamo subito» disse. E smentita fu. Ma l’inesattezza riguardava soltanto il nome di Fico, il resto era vero.
Sabato sera Renzi andò a mangiare una pizza a Torri, una frazione di Rignano sull’Arno, dai suoi genitori, molto provati per le vicende giudiziarie sulle quali i 5 Stelle e il loro giornale di riferimento, «il Fatto Quotidiano», si erano accaniti. Nell’abitazione piena di nipoti, disse al padre Tiziano: «Per mandare a casa Salvini, proporrò al Pd di fare un governo con i grillini». Ci fu una pausa. Poi il padre rispose: «Sei sempre il solito, ma capisco l’operazione politica».
Il rapporto tra Renzi e Franceschini è molto altalenante. Il secondo è nato nel 1958, il primo nel 1975. All’inizio del 2009 Franceschini era un politico navigato, mentre Renzi era solo un presidente di provincia molto rampante. Il 15 febbraio di quell’anno Renzi vinse le primarie come candidato alla carica di sindaco di Firenze. Il 17 Walter Veltroni si dimise da segretario del Pd dopo la sconfitta alle elezioni regionali in Sardegna e il 21 l’assemblea del Pd elesse segretario Franceschini, suo vice. Renzi si fece intervistare da Francesca Schianchi per «La Stampa» e sparò: «Non si elegge segretario un vice disastro», visto che il «disastro» era Veltroni. Pochi giorni dopo Franceschini lo chiamò: «Pronto? Sono il vice disastro…». Da allora, i due si sono scontrati spessissimo e il loro dialogo ha conosciuto alti e bassi.
Così, dopo l’apertura della crisi d’agosto, fu Orlando a riferire a Franceschini che Renzi era pronto alla grande operazione. Il più contrario fu subito Gentiloni, che preferiva uno scontro aperto con Salvini rendendo marginali i 5 Stelle. Contrario anche Luigi Zanda, capo dei senatori pd. Perplesso il vicesegretario Orlando. Zingaretti temeva un passo falso. In caso di voto, riteneva infatti che il consenso per Salvini non sarebbe dilagato. Ricordava che, alle elezioni regionali del Lazio del 2018, 250 sindaci su 400 lo avevano portato al successo. E pensava di affiancare al Pd una grande lista civica moderata per ampliare il consenso. Si decise, comunque, di andare a vedere le carte di Renzi: facesse pubblicamente la sua proposta.
La mattina di sabato 10 agosto Renzi chiamò Marco Agnoletti, che se ne stava tranquillo con la famiglia a Marina di Sibari, e lo pregò di chiedere al «Corriere della Sera» un’intervista. Lui lasciò che la moglie e il figlio se ne andassero al mare e passò il pomeriggio al telefono. Chiamò il direttore Luciano Fontana, anticipandogli che Renzi avrebbe chiesto un governo istituzionale.
L’intervista uscì domenica 11 e fu una bomba. Annunciata nel Palazzo, ma pur sempre una bomba, anche perché si trattava di una clamorosa retromarcia: «Folle votare subito» disse Renzi a Maria Teresa Meli. «Prima un governo istituzionale per evitare l’aumento dell’Iva e taglio dei parlamentari.» Il «Corriere» ebbe l’intervista, ma Agnoletti fece in modo che anche gli altri giornali avessero la «notiziona».
La preparazione dell’intervista fu lunga. Vi compare la definizione di «governo istituzionale», ma Renzi non voleva inchiodarsi a una definizione (governo del presidente? di scopo?) per lasciarsi aperta ogni ipotesi e non indispettire nessuno. In ogni caso, la proposta – impossibile da gestire – era di un governo aperto a tutte le forze politiche.
«Salvini avrebbe eletto un presidente sovranista»
Alle 6.30 di domenica 11 agosto Renzi era a casa a Firenze con la moglie Agnese e i due figli minori, Emanuele (16) ed Ester (13 anni). Erano in partenza per Trieste dove avrebbero raggiunto Francesco (18 anni), da un paio di stagioni in forza all’Udinese come calciatore. L’11 agosto è l’anniversario della liberazione del capoluogo toscano dai nazifascisti e, per tradizione, alle 7 del mattino il sindaco va a issare la bandiera sulla Torre di Arnolfo dove risuonano i rintocchi della Martinella per ricordare l’avvenimento. Dario Nardella passò a prendere a casa Renzi per partecipare insieme a lui alla cerimonia. «Matteo, che cazzo hai fatto?» gli sibilò. «Proporre un governo con i grillini è una cazzata. Ho parlato ieri con Zingaretti: si va certamente al voto!» L’altro rispose placido: «Dario, tra due mesi vedremo chi ha ragione. Già ti vedo pigolare per ministeri alla ricerca di soldi per Firenze». (Venti giorni dopo, Nardella lo richiamò: «Hai ragione tu, come sempre. Ma sei un figlio di…».)
Più tardi Renzi ricevette due telefonate da un amico e un’amica di Salvini: «Ma davvero fai il governo con i grillini?». Lui restò sul vago.
Dodici minuti dopo mezzogiorno di quella domenica 11 agosto, Zingaretti affondò la proposta. «Con franchezza dico no» scrisse sul blog del Partito democratico. «Un accordicchio Pd-M5S regalerebbe a Salvini uno spazio immenso. Nessuna paura del voto.»
In realtà, Zingaretti non voleva cadere in una trappola. Renzi era convinto che il governo Di Maio - Salvini sarebbe durato un paio d’anni. Stava disegnando la struttura del suo nuovo partito, ma aveva bisogno di tempo: seguendo le orme vincenti di Emmanuel Macron, sarebbe uscito allo scoperto sei mesi prima del voto. Adesso la crisi lo spiazzava. Non avrebbe potuto fare una scissione nell’imminenza del voto e, inoltre, una parte dei suoi non sarebbe stata di certo ricandidata. Infine, non avrebbe fatto la campagna elettorale da protagonista, ma da comprimario. Aveva quindi bisogno di comprare tempo in attesa di essere pronto, e il governo istituzionale, o comunque si chiamasse, gli cedeva quello necessario.
Renzi, naturalmente, non accetta questa tesi. «Se si fosse andati al voto,» mi spiega «avrei dovuto candidarmi a Firenze nella coalizione del Pd, avrei agevolmente conservato il seggio e fatto per qualche anno il battitore libero all’opposizione.»
Già, ma con truppe renziane decimate, obietto. «Non più di adesso. Il numero di quelli che sono venuti a Italia Viva lasciando il Pd non è elevato. E Zingaretti era molto rassicurante nei messaggi privati. No, non ho fatto questo cinema per salvare dieci renziani alle elezioni, ma per evitare un disastro all’Italia. Vuole che le mostri il film?»
Sono seduto. «Salvini in campagna elettorale deve esasperare i toni. Ricordi sempre che aveva già organizzato il Beach Tour in giro per l’Italia. Sulle spiagge non avrebbe certo parlato di globalizzazione e di società aperta. Avrebbe picchiato duro sull’Europa, alimentato le tensioni sui mercati e a quel punto Borghi e Bagnai avrebbero giustificato i pieni poteri chiesti da Salvini per uscire dall’euro…»
Non ci credo. «Sto parlando di campagna elettorale, non della prima cosa realmente realizzabile a palazzo Chigi. Lo avrebbe detto. E solo il fatto di dirlo ci avrebbe fatto male sui mercati e a Bruxelles. Saremmo andati all’esercizio provvisorio di bilancio, sarebbe aumentata l’Iva.»
È da vedere. Voi, intanto, faccio notare, avreste perso le elezioni. «Noi avremmo perso le elezioni, ma l’Italia avrebbe perso la faccia. Intendiamoci: alcuni di noi dicono che sarebbe stata una campagna vantaggiosa, giocata sui fallimenti dei gialloverdi. Incompetenza, fallimento economico, recessione alle porte, flop di Reddito di cittadinanza e Quota 100.»
Però… «Però è vero che l’ondata populista richiede tempo per sgonfiarsi e avremmo perso le elezioni. Perciò, quel passaggio iniziale di Zingaretti, più favorevole al diktat salviniano che alla mia posizione, è inspiegabile.»
Il segretario del Pd, in realtà, era soltanto prudente. Diceva al suo Stato maggiore: «Se ci intestiamo una difficile manovra di bilancio e subito dopo andiamo al voto, Salvini stravince».
«Zingaretti, Gentiloni e Calenda dicevano: andiamo al voto, perdiamo con un buon risultato e ricostruiremo il nuovo Pd sulle macerie» sostiene Renzi. «Ma questo ragionamento si scontra con un dato di fatto. Salvini sarebbe andato a palazzo Chigi con i “pieni poteri” che aveva chiesto, con una maggioranza utile a cambiare la Costituzione e, soprattutto, a eleggere all’inizio del 2020 il nuovo capo dello Stato. È vero che non avremmo più sentito parlare di Conte e Di Maio, ma la presidenza della Repubblica sarebbe stata la ciliegina sulla torta sovranista. Il bivio era semplice: pensare ai fatti nostri o pensare al paese. E, per me, pensare al paese significava bloccare il diktat di Salvini. Umanamente mi è costato tanto, politicamente è stato un capolavoro.»
Zingaretti: «Solo un governo di legislatura»
«Quando dice che questo governo deve sopravvivere fino alle prossime elezioni per il Quirinale, Renzi fa affermazioni arroganti e volgari» mi spiega Matteo Salvini. «Oggi i poteri del capo dello Stato sono ben definiti dalla Costituzione e il presidente non può essere protagonista attivo della politica nazionale. In linea teorica, il presidente della Repubblica dovrebbe rispecchiare il sentimento del paese. Se il sentimento prevalente è “prima gli italiani”, se sovranista significa mettere “prima gli italiani”, non capisco dove stia il problema nell’eleggere un presidente sovranista.»
Una pausa e poi: «Sento parlare di Romano Prodi. Se Renzi e Zingaretti pensano a lui, prenderebbero in giro gli italiani…». (Renzi – e non solo lui – ha in mente Mario Draghi. Ma questo è un altro discorso.)
In quei giorni Zingaretti avvertiva, peraltro, la grande agitazione dei parlamentari, appena partiti per le vacanze, per un voto che sembrava imminente. L’idea di trovare una soluzione – Lega e Fratelli d’Italia a parte – era molto trasversale.
«Non andare al voto e fare un governo con i 5 Stelle senza l’accordo con Renzi avrebbe distrutto il Partito democratico. Quando lui ha cambiato idea, si è aperta una porta» mi dice il segretario del Pd «e avevo il dovere di vedere se potevo e a quali condizioni oltrepassarne la soglia. Si apriva una fase completamente nuova. Cadeva un governo frutto di un accordo tra il primo e il terzo partito italiano. Ora era possibile la combinazione parlamentare tra il primo partito e il secondo. Dovevamo vedere se c’erano le condizioni per farlo. Ma non a qualsiasi costo.» E, soprattutto, non con una prospettiva di breve termine. «Sembrava che tenessi tirato il freno a mano,» aggiunge Zingaretti «ma se noi non avessimo ottenuto alcuni punti fermi, il sapore di questo governo sarebbe stato assai diverso.»
Franceschini compose allora un numero telefonico della Thailandia. Cercava Goffredo Bettini che, da quando nel 2019 ha deciso di non ricandidarsi alle elezioni europee, trascorre lì un’ampia parte dell’anno. Goffredo Maria Bettini Rocchi Camerata Passionei Mazzoleni, 67 anni, discendente da un’aristocratica famiglia marchigiana, è cresciuto a pane e politica. Nato nel Pci, sodale di Walter Veltroni e poi di Francesco Rutelli, è stato a lungo il dominus della politica romana. Dopo aver parlato prima con Franceschini e poi con Renzi, il 13 agosto Bettini spiegò sul «Corriere della Sera» la linea della segreteria Pd: «L’idea di un governo di transizione è un tragico errore e bene ha fatto Zingaretti a opporsi con forza. Occorre un governo di legislatura. È un tentativo difficilissimo, ma vale la pena di provarci».
Salvini a Di Maio: «Puoi fare il premier»
Intorno a Ferragosto accadde di tutto. Renzi, che all’inizio immaginava un governo senza Conte, lasciò cadere il veto. La Lega cominciò a temere la nascita di un governo giallorosso e rilanciò clamorosamente promettendo il taglio dei parlamentari, la cui ultima lettura era fissata per l’inizio di settembre. La prima riapertura ai 5 Stelle fu del ministro leghista dell’Agricoltura Gian Marco Centinaio, Di Maio la respinse, ma nel frattempo, sott’acqua, aveva ripreso a parlare con Salvini. «Quando scoppiarono le polemiche sul si vota o non si vota» mi racconta il segretario della Lega «gli dissi apertamente: nell’interesse del paese, se cambiate i ministri e rivediamo il contratto di governo, tu puoi fare il premier. Se accetti, lo dico ai miei, che non ho ancora sentito.»
E lui? «“Ci dormo su e ti dico.” Non feci pressioni. Scelsero un’altra strada, che non gli porterà fortuna.»
Non vi siete mai più sentiti?, chiedo. «No. Eravamo a Genova il 14 agosto per l’anniversario del ponte Morandi, ma non ci siamo parlati.»
Diversa la versione di Di Maio: «Non abbiamo mai parlato di ministri e di programmi. Mi ha fatto soltanto la proposta secca di fare il premier. Ma era tardi».
Sareste stati disposti a cedere alla Lega alcuni ministeri? «Dopo le elezioni europee ci fu una discussione interna al governo su un eventuale rimpasto, ma non si è mai parlato di singoli ministri da sostituire. Il Movimento era disponibile alla rinuncia, ma non siamo mai entrati nei dettagli, perché ebbi l’impressione che Salvini rimandasse la decisione all’infinito. Alla fine è stato costretto a decidere in fretta e furia, rischiando di far precipitare il paese in elezioni in autunno, cosa che non accadeva dal 1919 quando si votò in novembre.»
Naturalmente, anche Forza Italia era molto preoccupata per l’eventualità di andare al voto. Nel maggio 2018 Silvio Berlusconi aveva dato il via libera a Salvini sulla trattativa con i 5 Stelle perché temeva la decimazione dei propri parlamentari in caso di elezioni anticipate. Un anno dopo la paura era cresciuta, a causa del deludente risultato ottenuto alle elezioni europee. Gianni Letta chiese al capo dello Stato di fare un appello a tutte le forze responsabili per formare un governo bipartisan nell’interesse del paese, assicurandogli che il primo a raccoglierlo per un governo del presidente sarebbe stato Berlusconi. Non gli interessava se si sarebbe trovati come compagni di banco due tradizionali avversari come Pd e 5 Stelle. Non avrebbe potuto fare con loro una trattativa politica, spiegò il braccio destro di Berlusconi al capo dello Stato, ma la risposta a un appello sarebbe arrivata certamente.
Il presidente Mattarella non accettò la proposta. «La mia funzione» precisò a Letta «deve limitarsi a verificare se c’è o no una maggioranza parlamentare. Non voglio favorire una soluzione rispetto a un’altra perché perderei la mia posizione di imparzialità, ma se mi portano un accordo…» (Era lo stesso atteggiamento tenuto dopo le elezioni del 2018. Allora Berlusconi chiese un incarico per il centrodestra, che aveva vinto le elezioni. «È vero che avete la maggioranza relativa,» rispose Mattarella al Cavaliere «ma io ho bisogno di quella assoluta.» «La trovo» azzardò Berlusconi. «È solo un’ipotesi» obiettò l’altro.)
Il 18 agosto Renzi si fece intervistare dal «Giornale». Parlò di «crisi più pazza del mondo». Prese in giro Salvini «che va a elemosinare la pace» da Di Maio, e annunciò: «Voteremo la fiducia, non chiederemo neppure uno strapuntino per noi e faremo proposte concrete per mettere in sicurezza l’Italia. Poi faremo il punto alla Leopolda dal 18 ottobre». Il 20 agosto ribadì a Radio 24: «Mi sembra saggio che nessuno di noi stia dentro il governo. Io non ci sarò. Nessuno di noi chiede la benché minima poltrona».
«La ragione» mi spiega oggi «è che volevo troncare le voci su Renzi che fa il governo perché vuole andare in Europa, o perché vuole fare il ministro degli Esteri, o perché vuole mettere al governo il Giglio magico: Boschi, Lotti, Delrio. Poi Zingaretti chiarì la linea per tutti: non entrerà nessuno dei governi del passato, ma solo Dario Franceschini, come capo delegazione del Pd.»
Giuseppe Conte, la trasfigurazione
Quello stesso 20 agosto nell’aula del Senato andò in scena qualcosa che mai si era visto da quando, nel 1871, il palazzo di Margherita d’Austria fu eletto a sede senatoria.
Ministri e viceministri, sottosegretari e senatori, maggioranza e opposizione, destra e sinistra, tutto era confuso, con i commessi inutilmente attenti a far rispettare le regole del gioco e a sequestrare cartelli abusivi. Ci fu una corsa frenetica alla poltrona che, nei venti banchi riservati al governo, divenne oggetto di aspra contesa per aggiudicarsi la posizione migliore da cui godersi uno scontro che si annunciava epico.
«Sapevo che la sorte del governo dipendeva da quello che avrei detto in Senato» mi racconta Giuseppe Conte. «Qualche giorno prima del 20 agosto, il giorno fissato per il mio intervento, diversi esponenti della Lega mi contattarono invitandomi a continuare il governo con loro. Per favorire questo processo, la mattina del 20 ritirarono la mozione di sfiducia nei miei confronti. I leghisti volevano sapere in anticipo che cosa avrei detto. Se avessi fatto un intervento conciliante, a loro giudizio, avremmo potuto continuare nella collaborazione. Io, invece, avevo deciso di chiudere la mia esperienza di governo. In ogni caso, non avrei più collaborato con la Lega.»
Salvini si fece largo per raggiungere il suo banco di vicepremier accanto al presidente del Consiglio. Col senno di poi, fu un errore. Avrebbe fatto meglio ad andare nei banchi della Lega, visto che aveva chiesto a Conte di dimettersi. Ma poiché per ragioni tattiche proprio quel giorno la Lega aveva ritirato la mozione di sfiducia al presidente del Consiglio, forse il posto giusto era proprio quello sbagliato. Sbagliato perché il presidente del Consiglio fece quella che il senatore Renzi mi descrive come una «capriola con tuffo carpiato», bastonando quello che fino a poco prima era stato uno dei suoi due azionisti di riferimento con una violenza politica in clamoroso contrasto con la pettinatura perfettamente composta, il nodo della cravatta ineccepibile come sempre, la pochette a punte variabili, per l’occasione ridotte a tre. Lo definì «irresponsabile», per aver cercato di chiamare i cittadini al voto solo un anno dopo il precedente. «Imprudente», per aver rinviato fino ad agosto una decisione maturata prima. «Preoccupante», per aver chiesto i pieni poteri. («Li ho chiesti nell’ovvio rispetto della Costituzione» mi dirà Salvini, sfinito per essere stato impiccato a quella frase.) «Incosciente», per l’uso dei simboli religiosi. La mano che il premier appoggiò sulla spalla del suo vice fu il tocco finale: una pugnalata avrebbe avuto un effetto meno drammatico.
I giornalisti in tribuna erano basiti. Era lo stesso Conte – scriveva Goffredo De Marchis sulla «Repubblica» – che a luglio, da sovranista, attaccava la Merkel su Carola Rackete? («Se la Germania si lamenta per il trattamento ricevuto dalla capitana, noi siamo in attesa dell’estradizione dei manager della ThyssenKrupp.») Non ha «sostenuto e firmato i decreti sicurezza 1 e 2 mostrando per il primo un cartello ai fotografi»? Non «si è presentato in Senato per difendere il leader leghista sul caso Moscopoli»? Concludeva De Marchis: «Più che a una metamorfosi abbiamo assistito a una trasfigurazione in cui è emerso il carattere del premier: serio, puntuale, non sempre benevolo».
La replica di Salvini fu stupita: «La crisi non l’ho aperta io, ma i 5 Stelle votando no al Tav … Sono pericoloso, autoritario, irresponsabile? Bastava dirlo … Dunque, non mi sopportavi, ma non me lo dicevi. Ora parli di me come fa Saviano». Lasciò una porta aperta, ma Conte la richiuse con un altro schiaffo: «Se non hai tu il coraggio, me lo prendo io e vado da Mattarella. Il governo si arresta qui».
«Perché hai voluto parlare subito dopo Conte?» ha chiesto Renzi a Salvini bevendo una Coca-Cola la sera del 15 ottobre dopo lo storico confronto a «Porta a porta». «Potevi mandare avanti un leghista tosto, far attaccare Conte dalle opposizioni e poi chiudere.» (Renzi, invece, chiese al capogruppo Andrea Marcucci di cedergli il posto per parlare subito dopo il segretario della Lega. «Entrai a panino,» mi racconta oggi «attaccando Salvini senza difendere Conte. “Come mai non se n’è accorto prima, presidente?”»)
«Ho scoperto un Conte 2 completamente diverso dal Conte 1» mi dice Salvini. «Il primo era una persona rispettosa. Il secondo è arrogante e supponente. Si è montato la testa e ci tratta come il professore che parla ai suoi studenti. Ma noi non abbiamo bisogno di lezioni.»
Come nella fiaba di Cenerentola
Esiste un momento, nella fiaba di Cenerentola, in cui tutto il brutto diventa bello: i topini Giac, Gas Gas e Bert e Mert mettono a posto ogni cosa e le topine Suzy, Perla e Mary tagliano abiti e sistemano nastri. Infine la zucca diventa carrozza e…
Ed ecco Giuseppe Conte che, con il discorso del 20 agosto, ha ribaltato se stesso e, da presidente scelto quasi a caso e servitore raffinato di due padroni, si è trasformato nel padrone di un governo di segno opposto con una «capriola con tuffo carpiato» che ha strappato gli applausi della giuria. Salì al Quirinale e consegnò le dimissioni a Mattarella. Ma mentre i giornali, ciechi come i ciechi di Bruegel, gli scrivevano il necrologio, lui aveva frettolosamente sepolto il perfido Mister Edward Hyde e aveva indossato gli abiti del rispettabile ed elegante Dottor Henry Jekyll.
Un capolavoro. Mi dice una gola profonda ai vertici del Movimento 5 Stelle: «Salvini voleva tornare con noi, Di Maio ci pensava e Conte ha tagliato le gambe a tutti. Tornare con la Lega sarebbe stato un suicidio. Dopo quel discorso ci sentimmo tutti liberati».
«Sapevamo che Conte sarebbe stato duro,» mi racconta un ministro pentastellato «ma non immaginavamo fino a quel punto, con Salvini accanto a lui. Prima la svolta sul Tav, poi l’operazione von der Leyen… Due indizi non fanno una prova, ma la botta a Salvini – il terzo indizio – lasciava davvero immaginare che Conte si stesse accreditando per fare un governo con il Partito democratico.»
«La vera costruzione del nuovo governo è cominciata lì» riconosce Paola De Micheli. «Dai territori arrivarono immediatamente apprezzamenti: Conte diceva di Salvini quello che molti dei nostri pensavano.»
Eppure, Di Maio e il suo gruppo ristretto non erano convinti di volersi alleare con il Pd. «Le premesse non erano delle migliori» conferma il capo politico dei 5 Stelle. «Con il Pd ci eravamo affrontati in sette anni di durissima opposizione sia in Parlamento sia nelle regioni. Questi trascorsi mi preoccupavano molto: come avrebbe reagito il Movimento? Con la Lega i rapporti erano più facili, perché amministrava poche regioni e, a Roma, era all’opposizione del Pd come noi. Con loro abbiamo creato tutto da zero, anche se poi le polemiche hanno fatto arrabbiare tanta gente nel Movimento.»
«Non sapevamo come trattare con un partito di sinistra, e nell’incertezza giocavamo al rialzo» aggiunge un dirigente del M5S. «Con la Lega ormai eravamo abituati. Laura Castelli faceva la testa d’ariete, Fraccaro e Bonafede erano i più cauti, e alla fine Di Maio chiudeva politicamente. Ma con il Pd qual era l’approccio giusto?»
La svolta avvenne intorno al 20 agosto a casa di Pietro Dettori, giovane e brillante esperto di comunicazione di origini sarde, legatissimo a Davide Casaleggio, anima della Piattaforma Rousseau e consulente di Giuseppe Conte a palazzo Chigi. Con il padrone di casa c’erano Luigi Di Maio, Alessandro Di Battista, Paola Taverna e Nicola Morra. Il capo politico del M5S era ancora molto dubbioso sull’opportunità di un governo con il Pd e sperava che i suoi amici, quella sera, gli dessero manforte. Ma arrivò una telefonata di Beppe Grillo, il quale disse che il governo si doveva fare. Di Maio sperava di avere un sostegno almeno dalla Taverna per muovere obiezioni, ma anche lei si schierò con il garante del Movimento.
Nei mesi precedenti i rapporti di Di Maio con Grillo si erano progressivamente raffreddati. Durante l’esperienza di governo con la Lega, Grillo era di fatto sparito, salvo chiedere l’inserimento di uomini suoi nelle società partecipate dallo Stato e farsi vivo di tanto in tanto per criticare l’operato di palazzo Chigi. Non si rendeva conto che formare il (primo) gabinetto Conte a giugno e dover fare una legge finanziaria complicatissima a settembre era quasi proibitivo. La delegazione grillina al governo si sentiva perciò destabilizzata dall’esplosione di mail e di video che ogni tanto arrivavano dal garante, ora inquieto ora depresso.
Di Maio, comunque, capì che il governo con il Pd andava fatto. Serviva, perciò, un incontro diretto tra due persone – lui e Zingaretti – che si conoscevano poco.
A organizzarlo provvide Vincenzo Spadafora, uomo dalle molte esperienze professionali e dalle molte conoscenze trasversali. Guardato con sospetto dai militanti duri-e-puri proprio per questo, e per le stesse ragioni invocato e utilizzato nei momenti complicati. La sera del 23 agosto, sul cellulare di Zingaretti arrivò un messaggio di Di Maio con un indirizzo privato nel centro di Roma: era l’abitazione di Spadafora. L’incontro sarebbe dovuto rimanere segreto, ma Enrico Mentana lo annunciò al Tg delle 20 su La7, e così Zingaretti e il suo portavoce Andrea Cappelli dovettero spegnere i cellulari. Si fantasticò di una cena e del «patto del polpettone». In realtà, fu un semplice aperitivo. Poi il padrone di casa lasciò soli gli ospiti.
«Conoscevo poco Zingaretti, che non è parlamentare» mi racconta Di Maio. «C’eravamo incontrati soltanto una volta al ministero dello Sviluppo economico, dove era venuto come presidente della Regione Lazio. Nell’incontro a casa di Spadafora ci siamo scambiati certezze e perplessità comuni su questo governo. Tutto quello che ci siamo detti allora vale ancora, in un rapporto fondato sulla lealtà tra le persone in cui continuo a credere.»
«La fotografia di quell’incontro è molto chiara» mi dice Zingaretti. «Noi avevamo fatto la nostra scelta, loro avevano un’immensa difficoltà ad andare avanti. C’era una differenza sostanziale tra le nostre visioni: noi volevamo un governo di svolta, loro volevano realizzare il programma del Movimento con i nostri voti.»
Dopo l’aperitivo a casa Spadafora, Zingaretti e Cappelli andarono a mangiare spaghetti con le vongole all’inizio di via del Governo Vecchio insieme a Luigi Telesca, capo ufficio stampa del Pd, e Carlo Guarino, che si occupa dei social del partito. Prima dell’incontro con Di Maio, Zingaretti era ancora in dubbio se il capo politico dei 5 Stelle volesse davvero rompere con Salvini. Nel colloquio, però, gli apparve sincero. Il problema ora era Conte. Il Pd non lo voleva, ma Di Maio spiegò che non ce la faceva a sostituirlo. («Conte si era costruita una buonissima reputazione in Europa e anche presso la società civile italiana» mi precisa nel nostro colloquio. «Aveva stabilito ottimi rapporti con Merkel e Macron e volevamo garantire una continuità d’azione con il governo precedente, anche se c’erano stati errori da entrambe le parti. La mia carta vincente era costituire con Conte un governo di cui lui stesso si sarebbe fatto garante.»)
E Trump diede la benedizione a «Giuseppi»
Zingaretti era ormai il più deciso a fare il governo, ma non voleva che a presiederlo fosse il primo ministro uscente di una coalizione tanto diversa da quella che stava nascendo. («Non era una questione personale,» mi spiega «ma il fatto che il partito di maggioranza relativa esprimeva un nome non condiviso.»)
Bisognava arrivare alla stretta finale. Al Nazareno s’insediò un consiglio di guerra composto da Zingaretti, Gentiloni, Franceschini e i vicesegretari Orlando e De Micheli, ai quali talvolta si aggiungeva Luigi Zanda. La cabina di regia era allargata ai capigruppo parlamentari Andrea Marcucci e Graziano Delrio e alle due vicepresidenti Debora Serracchiani (area Martina) e Anna Ascani (area Giachetti). Le riunioni avvenivano alle 8.30 del mattino, quando la politica romana ancora dormiva. All’uscita, Franceschini parlava con Spadafora e la De Micheli con Stefano Patuanelli, il capogruppo del M5S al Senato, prima di andare in televisione toccando temi cari ai 5 Stelle, per oliare meccanismi ancora rigidi.
La segreteria Pd aveva imboccato una strada senza ritorno. «Dobbiamo tenere insieme popolo e potere» dicevano dalle parti di Zingaretti. «Se non utilizziamo questa occasione per attuare il progetto politico con cui abbiamo vinto le primarie, siamo morti.» «Se non fanno il governo con noi e perdono le regionali, sono morti» dicevano dalle parti di Di Maio, sapendo bene che andare alle elezioni sarebbe stato per il Movimento un massacro.
Conte, da parte sua, dava credito alle voci di un ritorno di fiamma di Di Maio per Salvini e la cosa lo irritava parecchio. La mattina di sabato 24 agosto da Biarritz – la deliziosa località della costa basca francese resa celebre nell’Ottocento dai reali europei, che oggi hanno ceduto il posto ai capi di Stato e di governo del G7 con i quali ormai il premier italiano si trovava a proprio agio – disse a Di Maio: «La stagione politica con la Lega è chiusa e per me non si riaprirà più». E poco dopo ripeté ai giornalisti: «Quella con la Lega è un’esperienza che io non rinnego, ma è una stagione politica per me chiusa e che non si potrà aprire mai più per nessuna ragione».
Il capo politico del M5S ebbe la prova che Conte aveva deciso di giocare la sua partita. Già una settimana prima delle elezioni europee, Di Maio aveva letto con stupita preoccupazione la lettera con cui il presidente del Consiglio tranquillizzava Bruxelles negando una manovra economica espansiva. Dicevano i suoi amici: «Conte non può fare il moderato mentre Salvini è scatenato nella campagna elettorale».
La sera del 24 agosto ci fu una lunga telefonata tra Di Maio e Zingaretti. Il primo confermò di non poter fare a meno di Conte e allora il secondo gli chiese per il Pd un vicepresidente del Consiglio unico e il posto di commissario europeo per Gentiloni. Qui si bloccò tutto. Di Maio sostenne che Conte era super partes e che i vicepresidenti dovevano essere due, uno per ciascun partito. Franceschini gli obiettò che era un 5 Stelle a tutto tondo (nel Pd erano convinti che, se si fosse andati alle elezioni, il Movimento si sarebbe presentato proprio con lui come candidato premier), e che quindi era impensabile che il M5S confermasse anche Di Maio come vicepremier, poiché era questa la loro proposta.
Il 27 agosto arrivò a Conte via Twitter l’inattesa incoronazione da parte di Donald Trump, che lo aveva incontrato a Biarritz: il presidente del Consiglio italiano, «Giuseppi» Conte, «altamente rispettabile, ha difeso con forza le ragioni dell’Italia al G7 e lavora bene con gli Stati Uniti». Infine, la benedizione: «Un uomo di grande talento che auspicabilmente rimarrà primo ministro».
(Si è discusso a lungo sulle ragioni di un sostegno così inusuale e caloroso, ai limiti dell’interferenza protocollare su una trattativa in corso in un paese alleato. Certamente, come vedremo più avanti, il rapporto personale tra Conte e l’amministrazione americana si era molto rafforzato per l’incontro irrituale – allora ancora segreto – tra il nuovo segretario alla Giustizia americano, William Barr, e il capo dei nostri servizi segreti, Gennaro Vecchione.)
L’intesa tra M5S e Pd rimase in bilico ancora per quattro giorni, mentre il presidente Mattarella premeva perché si arrivasse a un accordo e Romano Prodi sponsorizzava la soluzione Conte, che nel frattempo si era progressivamente avvicinato al mondo cattolico.
Zingaretti mi spiega così la decisione di accettare che Conte rimanesse premier: «Si apriva una fase diversa. Cent’anni fa, come ricorda lei in questo libro, la miopia delle forze di sinistra fu l’incubatrice della tragedia che ha afflitto il paese per un ventennio. In quelle ore c’era uno scontro tra chi vedeva il nuovo governo come necessario a tamponare esigenze contingenti e chi, come me, lo considerava l’apertura di una strategia diversa: la ricostruzione di un partito, il Pd, che dovremo cambiare radicalmente in vista del ritorno a un sistema bipolare. La svolta europeista dei 5 Stelle su Ursula von der Leyen è una rivoluzione. Il confronto tra europeisti e nazionalisti animerà il nuovo bipolarismo».
Franceschini: «Nessuno faccia il vicepremier»
A sbloccare la situazione provvide Franceschini, designato come vicepremier unico, se i 5 Stelle fossero stati d’accordo. Dopo essersi consultato con Gentiloni, il 1° settembre si chiamò fuori: il governo sarebbe nato senza vicepremier. «Per una volta Beppe Grillo è stato convincente» scrisse su Twitter. «Una sfida così importante per il futuro di tutti non si blocca per un problema di “posti”. Serve generosità. Per riuscire ad andare avanti, allora cominciamo a eliminare entrambi i posti da vicepremier.»
Di Maio non crede di aver perso molto rinunciando al ruolo di vicepremier. «Abbiamo cambiato nome alle stesse funzioni» mi dice sorridendo. «Quello che io e Franceschini avremmo fatto da vicepremier, lo facciamo da capidelegazione dei nostri partiti. La differenza è che i vicepremier hanno gabinetti in grado di coordinarsi direttamente con quello del premier. Di fatto, questo ruolo viene svolto da Riccardo Fraccaro, che ha preso il posto di Giorgetti come sottosegretario alla presidenza del Consiglio. In ogni caso, sia io sia Franceschini abbiamo un ufficio a palazzo Chigi…» (Il ruolo di Fraccaro è stata una vittoria di Conte e Di Maio. Giorgetti controllava Conte a nome della Lega, ma questa volta il presidente del Consiglio non ha accettato che ci fosse un «controllore» del Pd.)
Per non opporre una figura politica a Salvini nel ruolo di ministro dell’Interno, la scelta cadde su Luciana Lamorgese, già prefetto di Venezia e di Milano e capo di gabinetto di Angelino Alfano nel governo Letta e di Marco Minniti nel governo Gentiloni. Di Maio chiese e ottenne gli Esteri.
«Non capisco come mai abbia scelto gli Esteri, con tutte le cose che, anche come capo politico, ci sono da fare in Italia. Al di là dello standing, voglio dire. Bah…» commenta Salvini. «Ma già l’altra volta gli sconsigliai di cumulare i quattro incarichi. Capo politico dei 5 Stelle, vicepresidente del Consiglio, ministro del Lavoro e ministro dello Sviluppo economico. Tra l’altro, questi due incarichi non hanno senso nella stessa persona. Tra i due ministri deve esserci un gioco delle parti: se l’uno s’irrigidisce, l’altro cerca la mediazione, e viceversa.»
Durante il nostro incontro, faccio osservare a Di Maio che, in effetti, è la prima volta che un leader politico assume un incarico così lontano dai palazzi romani. «Sono felicissimo di questo incarico, che finora era stato sottovalutato e ridimensionato quasi a un livello tecnico» mi risponde. «Per il Movimento è molto importante controllare dossier sensibili come quello del commercio delle armi, della crisi turca, del Mediterraneo, della Via della Seta con la Cina.»
Renzi: «Teresa, prendi un vestito e il primo aereo e va a giurare!»
Per il ministero dell’Economia fu scelto Roberto Gualtieri, vista la sua esperienza di presidente della Commissione economica a Bruxelles. Franceschini tornò all’amatissimo ministero della Cultura al quale volle di nuovo associato il Turismo, che con il leghista Gian Marco Centinaio, tour operator, era stato accorpato all’Agricoltura. La De Micheli sostituì Danilo Toninelli alle Infrastrutture (e fu il cambio più strategico). Alfonso Bonafede fu l’unico ministro politico a rimanere al suo posto, la Giustizia. Restò all’Ambiente il generale dei carabinieri forestali Sergio Costa, vicinissimo ai 5 Stelle. Stefano Patuanelli, uno degli uomini più «strutturati» del Movimento, sostituì allo Sviluppo economico Di Maio, che cedette il Lavoro a Nunzia Catalfo, storica militante del Movimento (area dialogante) specializzata in avviamento al lavoro.
E Renzi? Ecco cosa mi racconta: «Dico a Franceschini: “Preferisco che non ci siano proprio renziani nel governo”. Lui mi risponde: “Ma sei matto? Così diranno che vuoi tenerti le mani libere e ci vuoi mandare a sbattere!”. Alla fine ci accordiamo su tre ministeri, ma la condizione è che ci siano almeno due donne. L’uomo è Lorenzo Guerini. Chiedo per lui l’Autorità delegata ai servizi. Non ho mai capito perché Conte insista così tanto per tenerla e ancora oggi mi sembra un atteggiamento istituzionale stravagante. Un premier non deve tenere l’Autorità delegata ai servizi: è l’abc delle istituzioni che su certe cose si deleghi. Lo consente la legge, lo impone il buon senso. [Ma anche Paolo Gentiloni e Mario Monti, per sei mesi, la tennero per sé.] Ed è così in tutti gli altri paesi, anche solo per una naturale esigenza di protezione del presidente del Consiglio. Ma, alla fine, Conte non cede: la delega ai servizi la vuole tenere lui. E Guerini viene autorevolmente ricompensato con il ministero della Difesa, anche se già sapevo che non mi avrebbe seguito in Italia Viva. Ettore Rosato, invece, era troppo prezioso per noi come colonna organizzativa del nascituro partito e quindi è rimasto a organizzare le truppe».
(La voce che gira a palazzo Chigi e al Nazareno è un’altra. Guerini avrebbe trattato in proprio la sua posizione, con il consenso della segreteria, sapendo che non avrebbe seguito Renzi in un’eventuale scissione. La cosa era chiara fin da marzo. Finito il congresso che aveva portato Zingaretti alla segreteria, Guerini aveva rassicurato il leader del Pd: «Se Renzi va via, io resto». Sul fatto che un altro renziano come Graziano Delrio rimanesse nel Pd, invece, non c’erano mai stati dubbi. Renzi e Guerini continuano a essere, comunque, molto legati.)
«Quanto alle donne,» prosegue Renzi «indichiamo Teresa Bellanova e Anna Ascani. Teresa è una donna strepitosa: bracciante, sindacalista, deputata, sottosegretario, ministra. La sua storia meriterebbe una fiction. Al mattino Franceschini mi spiega che c’è un veto sulla Ascani: non ho ancora capito se per ragioni correntizie umbre o per dinamiche interne alla maggioranza del Pd, e mi chiede di aiutarlo indicando una donna del Nord. Mi spiace per Anna, ma credo che a 30 anni non ci sia un diritto divino di fare il ministro, e dunque prendo atto del veto che Dario mi riferisce. [La Ascani, che era già pronta a giurare, s’infuria e non segue Renzi nel nuovo partito.] A quel punto gli chiedo di valorizzare Elena Bonetti, una professoressa universitaria di matematica, già caposcout nazionale, che si era molto impegnata per la formazione dei nostri ragazzi, ed è un solido punto di riferimento per il mondo cattolico. Dario mi dice: ho l’ok, si chiude, falle venire a Roma.
«Una parola! Teresa, per scaramanzia, stava a Lecce finché non la chiamo con parole concitate: prendi un cavolo di vestito, prendi il primo aereo, ché forse stasera giurate al Quirinale. [Sul blu elettrico dell’abito della ministra si accesero sciocche polemiche e lei rispose: “Ero entusiasta. Era il colore sgargiante del mio umore”.] Elena, invece, è messa ancora peggio: per un mese deve insegnare in un’università francese. Tutto immagina meno che fare il ministro. Glielo chiedo con parole gentili per telefono. Poi la faccio riprendere per qualche minuto per dare la comunicazione alla famiglia, ma subito dopo la richiamo di corsa: prendi un cavolo di aereo e corri, ché qui dovete giurare.»
Giurarono la sera di giovedì 5 settembre, alla luce del tramonto romano che, dalle terrazze del Quirinale, è struggente. 21 ministri, 7 donne. 10 ministri 5 Stelle, 9 Pd, Roberto Speranza di Liberi e Uguali alla Sanità, un tecnico (Luciana Lamorgese) all’Interno. Ma la quiete durò meno di due settimane…