IX
Perché il fascismo non può tornare
Franceschini: «Perché Salvini è pericoloso»
«Matteo Salvini rappresenta il massimo di pericolosità possibile in una democrazia europea del 2019. Lei, in questo libro, parla di Luigi Facta. Bene, se fallisse il governo che noi del Partito democratico abbiamo costituito con il Movimento 5 Stelle, esso assomiglierebbe proprio al governo Facta, che ebbe l’enorme responsabilità di non essere stato capace di coinvolgere le forze politiche democratiche per impedire l’avvento al potere del fascismo. Certo, Salvini non è Mussolini, ma è pericoloso…» mi dice Dario Franceschini, ministro per i Beni e le attività culturali e per il turismo del secondo governo Conte.
Pericoloso? «Sì, perché ha innestato in Italia comportamenti pericolosi. Ha scoperchiato una pentola di razzismo, omofobia, violenza. Un ragazzino è stato picchiato perché si è rifiutato di prendere dei volantini di CasaPound…»
E Salvini che c’entra? «C’entra perché ha legittimato alcuni comportamenti. Sono scomparsi episodi di microviolenza e di razzismo? No, ma non si denunciano più. Forse si è arrivati a una legittimazione inconsapevole.»
Dario Franceschini si accarezza la barba, in cui il sale lotta ormai con il pepe. Poi si appoggia all’alta spalliera della poltrona in quello che probabilmente è il più bello studio di ministro nel mondo: la biblioteca cinque-seicentesca del Collegio Romano. Qui dentro c’è il fascino, l’inquietudine e il peso della storia, di quel «paganesimo rinascimentale» che afflisse la Chiesa nel Cinquecento e dal quale emerse la potenza riformatrice di Ignazio di Loyola, giovane gaudente e peccatore che si trasformò nel rivoluzionario fondatore della Compagnia di Gesù e, poco dopo, di questo Collegio Romano, fucina di una nuova generazione di sacerdoti, in cui si rifugia oggi il ministro della Cultura.
Franceschini è tornato dopo quindici mesi nelle stanze che ha occupato per quattro anni con i governi Renzi e Gentiloni. Ma si tratta, appunto, di un rifugio, di una retrovia, perché il fronte è a palazzo Chigi, dove ha un ufficio come capodelegazione del Pd nel governo per monitorare da vicino il lavoro del presidente del Consiglio Giuseppe Conte e del ministro degli Esteri Luigi Di Maio (anche lui comodatario di un locale distaccato dalla Farnesina) e per arginare da lontano le incursioni di Matteo Renzi.
«Con il governo gialloverde c’è stato un passo indietro nella cultura dell’antifascismo? Da parte della Lega, sicuramente sì, da parte del M5S no» ha detto Franceschini il 5 settembre 2019, giorno del suo giuramento da ministro. Era in visita al Museo storico della Liberazione in via Tasso, a Roma, sede del carcere in cui durante l’occupazione nazista di Roma (8 settembre 1943 - 4 giugno 1944) furono orrendamente torturati dalle SS antifascisti e persone innocenti sospettate di favorire la Resistenza. Il terrore era tale che i romani si rifiutavano persino di pronunciare il nome della strada. «Credo che in questo momento, in cui troppe volte si è tentato e si tenta di trasformare le paure delle persone in odio,» aggiunse «sia importante, proprio come ministro della Cultura, cominciare da qua, perché non si perda la memoria dell’antifascismo.»
Franceschini ha avuto un nonno fascista e un padre che ha partecipato politicamente alla Resistenza. Il nonno materno, Giovanni Gardini, ferrarese, era amico di Italo Balbo, ras di Ferrara. Aderì alla Repubblica di Salò, diventò podestà di San Donà di Piave e, nel dopoguerra, dovette nascondersi per parecchi anni, pur non avendo commesso alcun reato. La figlia Gardenia, raccontò Franceschini ad Aldo Cazzullo («Corriere della Sera», 23 febbraio 2009), andava a scuola con gli occhi bassi per non vedere i cartelli «Gardini boia», «Gardini a morte», nonostante il padre non avesse fatto del male a nessuno. Finché non s’innamorò di Giorgio Franceschini che, dopo l’8 settembre, entrò nel Comitato di liberazione nazionale ferrarese. Il nonno fascista finì con il votare Dc, come il padre di Dario, che diventò deputato democristiano per una legislatura negli anni Cinquanta.
Anche se la Dc non c’è più, Franceschini – che ne ha succhiato il latte – è un democristiano a 24 carati, comunque si chiami il partito che ne è derivato. Pur appartenendo alla sinistra dc, non è mai stato un intollerante. Professionista eccelso della politica, sorride e fa spallucce quando gli ricordano le frequenti accuse di «tradimento», che gli scorrono sulla pelle coriacea procurandogli le stesse ustioni di una goccia di rugiada. Accusato dal suo mentore Franco Marini di averlo tradito a un passo dal Quirinale con la complicità di Enrico Letta e Matteo Renzi, fu accusato da Letta di aver tramato ai suoi danni in favore di Renzi e da Renzi di essersi appollaiato a turno sulle spalle di Maurizio Martina, Paolo Gentiloni e, infine, di Nicola Zingaretti.
Lui, a sua volta, fu tradito da Pierluigi Bersani, che nel 2013 gli diede la buonanotte come presidente della Camera e il buongiorno facendogli trovare la sedia occupata da Laura Boldrini.
«La frase sui pieni poteri fu il carburante del governo»
Franceschini deve al suo straordinario fiuto politico l’aver lavorato per primo all’ipotetica formazione di un governo giallorosso, molto in anticipo sulla crisi aperta da Salvini. Il carattere moderato e conciliante difficilmente gli avrebbe consentito di dare in sostanza del fascista al segretario della Lega (cosa evitata dalle maggiori personalità del suo partito). È stato ancora una volta il suo fiuto politico a metterlo sulla scia vincente: in Italia la bandiera dell’antifascismo è un’assicurazione sulla vita, anche se il fascismo non c’è né può esserci.
Nel nostro incontro al Collegio Romano, il ministro della Cultura spiega le ragioni per cui trova provvidenziale la nascita del governo giallorosso: «L’Italia non può consentirsi un governo antieuropeo e sovranista. Se avessimo votato nell’autunno del 2019, avremmo avuto un disastro economico. Se, per far ripartire lo spread, è bastato che durante le consultazioni Di Maio accennasse a una frenata, figuriamoci che cosa sarebbe successo con la campagna elettorale…».
Franceschini distende la schiena, abbraccia con lo sguardo le migliaia di preziosi volumi che tappezzano il salone e pronuncia la frase chiave: «Il carburante per far nascere questo governo è stata la frase di Salvini sui pieni poteri».
La sera del 9 agosto, l’indomani del giorno in cui il Capitano decise di aprire la crisi di governo, dopo un comizio a Pescara disse: «Non sono nato per scaldare poltrone. Chiedo agli italiani che ne hanno voglia di darmi pieni poteri per fare quello che abbiamo promesso di fare, fino in fondo, senza rallentamenti. Siamo in democrazia. Chi sceglie Salvini sa cosa sceglie». Chiarì il 4 settembre, dopo le polemiche, a «Libero»: «La frase sui pieni poteri è stata strumentalizzata. È ovvio che io agisco nel rispetto della Costituzione. Volevo un governo operativo, non uno bloccato dai veti, come ormai era diventato quello con i 5 Stelle». Il 6 settembre a «In onda», su La7: «Adoro la squadra. Non Salvini da solo. L’uomo solo non va da nessuna parte». E infine il 14 ottobre al «Foglio»: «Pieni poteri? Un’espressione forse equivoca, ma sarei l’unico dittatore che chiede di dare la parola agli italiani».
Franceschini è convinto di aver impedito che Salvini conquistasse un potere enorme: «Avrebbe fatto il governo senza Forza Italia e conquistato la maggioranza assoluta per eleggere nel 2022 il nuovo capo dello Stato».
Ecco il punto. Un partito di centro, la Dc, ha eletto il suo ultimo presidente della Repubblica nel 1985: era Francesco Cossiga. Nel 1992 Oscar Luigi Scalfaro ha incarnato uno dei frequenti paradossi della politica italiana: catalogato a lungo come l’elemento più a destra della Dc, è stato eletto su indicazione della sinistra contro la Dc di Andreotti e di Forlani. Da allora, pur avendo governato per un decennio, il centrodestra non è mai stato in grado di eleggere un presidente della Repubblica. Lo scopo principale dello sgambetto a Salvini è proseguire su questa strada.
Personalmente non credo che il segretario della Lega avrebbe conquistato la maggioranza assoluta senza una pur indebolita Forza Italia. In ogni caso, obietto a Franceschini, sarebbe arrivato al risultato attraverso libere elezioni.
«Il secondo governo Conte» risponde il ministro «è nato nella piena valorizzazione del sistema parlamentare. Anche il governo Salvini - Di Maio era nato dall’accordo parlamentare tra due avversari politici. Quindi…»
«Salvini fascista / sei il primo della lista»
Salvini mal sopporta Berlusconi che, a sua volta, gli mostra freddezza, salvo essere tornati insieme nelle manifestazioni elettorali dell’autunno 2019. Eppure, i due dovrebbero essere legati da una certa solidarietà, visto che il Capitano subisce oggi quel che il Cavaliere ha subìto a suo tempo. Quando, alla fine del 1993, Berlusconi sdoganò Gianfranco Fini facendone il proprio alleato alle elezioni politiche del marzo 1994, «L’Espresso» lo definì «il Cavaliere Nero», ritraendolo in copertina con fez e camicia in tinta. Per anni il capo del centrodestra fu dipinto come un pericolo per la democrazia, mentre il suo alleato – che veniva da simpatie fasciste – fu spacciato dalla sinistra come «fiore della Resistenza» contro i presunti tentativi autoritari di Berlusconi. Ci furono «girotondi democratici» intorno al Parlamento per bloccare le sue leggi, intimidazioni fisiche al presidente del Senato Marcello Pera, e non si contavano i cortei che cantavano Bella ciao. Il recente rilancio dell’antifascismo in Europa ha fatto di Matteo Salvini l’Uomo Nero da abbattere.
Un «antemarcia» della parte giusta è lo stimato sociologo Domenico De Masi, che disse a Radio Cusano Campus il 30 ottobre 2018: «È un momento prefascista. Ci sono tutti gli elementi del prefascismo. Abbiamo al governo due partiti molto diversi tra loro, uno di questi ha un programma prefascista: allarme al paese, razzismo, fiducia assoluta in uno Stato forte che risolverebbe tutti i problemi. Non è la situazione del 1922, ovvero della marcia su Roma, ma del 1919». Ripeté il 23 gennaio 2019 durante un incontro alla libreria Feltrinelli di Napoli: «Siamo in fase prefascista. I segnali ci sono tutti … Da Salvini vestito da militare al decreto sicurezza che, tra i vari provvedimenti, stabilisce il divieto di assembramento normalmente introdotto dai regimi di stampo fascista qualche anno dopo l’insediamento al potere, mentre da noi è stato istituito in via preventiva». (In realtà, il decreto sicurezza del 2018 reintroduce sanzioni penali per il reato di blocco stradale, che impedisce la libertà di circolazione prevista dall’articolo 16 della Costituzione.) E ha chiosato, con sollievo, il 1° settembre 2019 sulla «Repubblica»: «Ci siamo evitati otto anni di fascismo. Salvini ha un approccio prefascista. Invoca pieni poteri. Si veste da militare. Non ha mai nascosto le sue pulsioni autoritarie. Non si era mai visto niente di simile in Italia, neanche sotto Tambroni [il democristiano Fernando Tambroni, che fu presidente del Consiglio dal 25 marzo al 26 luglio 1960]. Cosa sono i due decreti sicurezza se non due provvedimenti di destra pura?». Be’, se è per questo, in una scuola di Palermo, con la benedizione di un’insegnante, poi temporaneamente sospesa, che ha goduto di una spettacolare solidarietà, i ragazzi si sono esercitati nel paragone tra il decreto sicurezza di Salvini e le leggi razziali fasciste del 1938.
Potremmo continuare con i molti «Salvini fascista / sei il primo della lista», con le circostanziate minacce di morte, i proiettili inviati a domicilio, il garbato invito al suicidio speditogli via web da un titolato giornalista di RadioRai. Invano, già nella tarda estate del 2018, Aldo Cazzullo, rispondendo sul «Corriere della Sera» a due lettori allarmatissimi dal «fascismo» di Salvini, ricordava che «leggere il presente con le categorie ideologiche del passato non aiuta a capire. Invece l’analisi dei ricorsi storici è una sorta di tic nazionale. Il fascismo viene tirato in causa spesso a sproposito. Lo si è fatto anche venticinque anni fa, quando apparve sulla scena Berlusconi … Si è cantato Bella ciao in situazioni che non c’entravano niente … In questo modo si sono costruite reputazioni e carriere, ma si sono logorati parole e valori … che dovrebbero appartenere a tutti».
Invano, abbiamo detto. Al di là del diluvio di insulti da parte di persone comuni e di politici di periferia («Male che vada prepareremo un altro cappio al collo»: Alessandro Neviani, consigliere comunale pd di Formigine, Modena, che poi si è scusato), non mancano opinioni titolate che accostano Matteo Salvini al fascismo.
«Salvini usa metodi e modi dei fascisti degli anni Trenta» (Jean Asselborn, ministro degli Esteri lussemburghese). «Salvini vuole portare, attraverso la sua rabbiosa xenofobia, un nuovo momento fascista in Italia» (Yanis Varoufakis, ex ministro greco delle Finanze). «Salvini? È conscio di una sua deriva un po’ fascista» (Luigi De Magistris, sindaco di Napoli). «No, non è nazista. No, non è razzista. È peggio» (Oliviero Toscani, fotografo). «Salvini è un razzista, bigotto e omofobo» (Michael Moore, regista cinematografico). Caritatevole la conclusione di un sacerdote, don Antonio Mazzi: «Solo a vederlo quello lì devo andare al cesso».
Tra il 2018 e il 2019 non si contano i libri contro Salvini. Tutti con titoli allarmanti. La Lega di Salvini. Estrema destra di governo di Gianluca Passarelli e Dario Tuorto: «Il tentativo di monopolizzare il disagio economico e il disorientamento elettorale». Matteo Salvini. Il ministro della paura di Antonello Caporale: «È una ideologia forte e terribile: l’ideologia dello schifo, del primato degli italiani, dell’odio per i migranti e del fare ordine in casa propria». Il libro nero della Lega di Giovanni Tizian e Stefano Vergine: «Le trame finanziarie e politiche del partito del ministro dell’Interno». I demoni di Salvini. I postnazisti e la Lega di Claudio Gatti, Il dittatore di Giampaolo Pansa, e potremmo continuare.
La decisione del segretario della Lega di farsi intervistare da Chiara Giannini per il libro Io sono Matteo Salvini, pubblicato da Altaforte, una casa editrice vicina a CasaPound, è valsa l’esclusione dell’editore dal Salone del libro di Torino, dove sono state ospitate tradizionalmente anche altre case editrici di estrema destra senza che nessuno battesse ciglio.
I libri sopra citati portano nel testo alle conclusioni anticipate dal titolo. Claudio Gatti, per esempio, scava nelle origini della Lega alla ricerca di personaggi che, da Mario Borghezio a Gianluca Savoini, hanno avuto simpatie per l’estrema destra: «Un manipolo di persone che, dopo aver metabolizzato fascismo e nazismo, con una strategia classificabile come postnazista ha saputo trarre vantaggio da debolezze e difetti della democrazia liberale per egemonizzare il dibattito culturale e prendere il controllo di quello politico. Un progetto di restaurazione del vecchio pensiero reazionario a vocazione autoritaria e plebiscitaria, dissimulato però come una formula nuova che supera i vecchi schemi politici attraverso un veicolo diverso da tutti gli altri: la Lega Nord».
E continua: «Questo non significa che Salvini oggi, come Bossi ieri, abbia sposato la causa postnazista. E neppure che sia un burattino eterodiretto. Vuol dire che, come il suo padre/padrino politico, è un uomo pronto a tutto. Incluso ad allearsi con i nemici della democrazia. Sia in Italia che all’estero. In Italia lo ha fatto sposando “l’essenza del fascismo”, all’estero alleandosi con Vladimir Putin per il quale, guidato da Savoini, ha operato come “agente d’influenza”». Che cosa può dirsi di peggio di uno che è stato per un anno e passa ministro dell’Interno?
La costruzione dell’«emergenza democratica»
Tuttavia c’è una diversa lettura della criminalizzazione di Salvini. Si prenda Ernesto Galli della Loggia che, sul «Corriere della Sera» dell’11 settembre 2019, sostiene che il Partito democratico è «il vero partito delle élite della penisola»: «I Democratici sono il partito dell’europeismo ortodosso e dell’atlantismo ufficiale, di tutte le magistrature, dell’alta burocrazia, della “Civiltà cattolica” e delle alte gerarchie della Chiesa, dei “mercati”, del vasto stuolo dei professionisti della consulenza e degli incarichi pubblici ad personam, dei vertici dei sindacati, delle forze armate e degli apparati di sicurezza, nonché dell’assoluta maggioranza di coloro che operano nel settore dell’elaborazione delle idee e del consenso (letterati di successo, accademici con ambizioni più ampie, giornalisti, pubblicitari, gente del cinema, addetti di rango alla comunicazione di ogni tipo). In senso proprio può dirsi che oggi il Pd è per antonomasia “il partito dello Stato”».
Assomiglierebbe, dunque, a quel «partito costituzionale» che, nel cinquantennio successivo all’unità d’Italia, esprimeva il dominio dei liberali contro i socialisti e i cattolici. Dovendo difendere l’attuale «ordine costituzionale», secondo Galli della Loggia, il Pd deve enfatizzare la propria ispirazione antifascista, contro la sempre risorgente minaccia della destra, in un clima di perenne «emergenza democratica»: «In tal modo, a cominciare dal ’92 il Pd è venuto istituendo a proprio vantaggio … un’area di potenziale delegittimazione ideologica per tutte le forze politiche di volta in volta sue avversarie – sottolineo: di volta in volta; se infatti ci si allea col Pd da nemici si diventa ipso facto amici dell’“ordine costituzionale” (i 5 Stelle ne sanno qualcosa)».
E conclude: «Chi crede davvero che le sorti della democrazia italiana fossero a rischio, cioè che si fosse alla vigilia di non poter più tenere elezioni libere, stampare giornali contro il potere, che gli oppositori e gli organi costituzionali fossero sul punto di essere minacciati fisicamente, la magistratura manipolata e magari perfino sciolto il parlamento – perché questo significa “emergenza democratica”, il resto sono chiacchiere –, chi crede davvero ciò fa benissimo a giustificare tutto, e dunque anche il trasformismo. Ma chi non condivide l’allarme ora detto ha il dovere di dire che si tratta solo di semplice, banalissimo trasformismo. A cominciare da quello di un Presidente del Consiglio il quale aspetta la mozione di sfiducia presentata contro di lui dal partito del suo ministro degli Interni per cominciare a rimproverare violentemente quest’ultimo per una lunga serie di gravi malefatte a proposito delle quali, però, non si ricorda che fino a quel momento egli come capo del governo abbia mai avuto nulla da ridire, neppure una parola. Non solo, ma subito dopo fa un nuovo governo di segno opposto e in polemica frontale con quello da lui presieduto fino al giorno prima!».
Sull’assenza di un’«emergenza democratica» concorda Francesco Rutelli («Corriere della Sera», 8 settembre 2019): «Non credo che Salvini sia fascista e ricordo che molti leghisti nei territori sono stati buoni amministratori. Prima o poi dovrà avere un approccio meno partigiano, se vuole candidarsi a guidare il paese».
Salvini è fascista?, ho chiesto a Giuseppe Conte. «No. La conoscenza della storia impone di utilizzare le categorie politiche con somma prudenza.»
A proposito delle accuse di fascismo a Salvini, Zingaretti mi dice: «Se con Salvini abbiamo di fronte qualcosa di molto diverso da un conservatorismo liberale, ne dobbiamo trarre tutte le differenze. Di fronte a Salvini non ho mai gridato al fascismo. Il populismo e il fascismo, pur avendo intrecci e somiglianze, sono storicamente due cose molto diverse. Il fascismo prevede la violenza come essenza della politica. Abolisce le prove elettorali e chiude ogni spazio di libertà civile. Il populismo, nella stragrande maggioranza dei casi, si sottopone alla verifica del consenso elettorale e mantiene spazi di libertà. Ma esso, una volta che s’insedia, determina nella società una rapida involuzione autoritaria, illiberale, persecutoria e anti-illuminista. Se è così, appare urgente l’esigenza di allargare al massimo, a partire dalla collaborazione di governo, l’area di un campo progressista e liberale che si unisca per sconfiggere alle prossime elezioni questa destra risorgente, allargando i confini di un’Italia che intende rinnovare, stabilizzare e difendere la democrazia repubblicana.»
«Io fascista?» mi dice Salvini. «Ormai ci rido su. L’ultimo argomento di quelli che non hanno argomenti. Fascista, nazista, razzista… Di che hanno paura? Degli italiani? È fascista, nazista, razzista quel terzo di italiani che ha votato per me? La verità è che chi mi rivolge queste accuse ha paura di se stesso. Perché sottovoce molta gente di sinistra dice che su sicurezza, droga e immigrazione abbiamo ragione noi. Ma prima di ammettere che vorrebbero vivere più tranquilli…»
Nemmeno un eminente storico del fascismo come Emilio Gentile, molto citato nella prima parte di questo libro, crede che oggi in Italia ci sia il rischio di una ricaduta fascista. Infatti, nel suo Chi è fascista, pubblicato nella primavera del 2019 quando già soffiava forte il vento leghista che avrebbe portato all’eccezionale risultato delle elezioni europee del 26 maggio, scrive: «Non credo che abbia alcun senso, né storico, né politico, sostenere che oggi c’è un ritorno del fascismo in Italia, in Europa o nel resto del mondo». E, criticando il saggio di Umberto Eco Il fascismo eterno, sostiene che «la tesi dell’eterno ritorno del fascismo» sia controproducente perché può favorire «la fascinazione del fascismo sui giovani che poco o nulla sanno del fascismo storico, ma si lasciano suggestionare da una visione mitica, che verrebbe ulteriormente ingigantita dalla presunta eternità del fascismo».
Gentile giustifica, per contro, l’allarme del 1994 quando «i neofascisti del Movimento sociale italiano, partito fondato nel 1946 da ex gerarchi, funzionari e reduci del regime fascista e della Repubblica sociale italiana, erano giunti al governo in una coalizione guidata da Silvio Berlusconi», ma ricorda anche i paradossi degli anni Cinquanta. Nel 1951, in Due totalitarismi, Lelio Basso scriveva che «il vero totalitarismo in Italia non è rappresentato dai nostalgici del neofascismo, ma dalla Democrazia cristiana» di Alcide De Gasperi. Anche Palmiro Togliatti, nel 1952, metteva in guardia dal «fascismo tuttora presente come pericolo e minaccia seria e bisognerà tenere occhi aperti e animo vigilante per non esserne travolti». Il pericolo? Il proposito dei capitalisti di tornare «a una egemonia reazionaria del vecchio tipo liquidando le forme della democrazia nell’interesse della conservazione sociale in generale e dell’imperialismo americano in particolare» (Momenti della storia d’Italia).
Il pericolo di un’involuzione fascista dello Stato è riapparso negli anni Sessanta e Settanta («strategia della tensione») e, a salti, fino a oggi. Ma «se sono fascisti tutti quelli che presentano certe caratteristiche,» scrive Emilio Gentile «dal primato dello Stato sovrano all’esaltazione del popolo, all’invocazione dell’uomo forte, allora erano fascisti i giacobini, i patrioti che hanno lottato per avere uno Stato indipendente e sovrano, gli americani che hanno votato per ben tre volte l’elezione di Franklin D. Roosevelt alla presidenza degli Stati Uniti, i britannici che hanno acclamato Winston Churchill premier nella guerra contro Hitler e i francesi che, dal 1959 al 1969, hanno eletto Charles De Gaulle capo dello Stato».
Insomma, è la conclusione dello storico, non si può utilizzare il termine «fascista» per movimenti politici che non possiedono le caratteristiche del fascismo storico, «cioè del fenomeno politico che ha impresso il suo marchio nella storia del Novecento, imponendosi in Italia negli anni fra le due guerre mondiali come partito milizia, regime totalitario, religione politica, irreggimentazione della popolazione, militarismo integrale, preparazione bellicosa all’espansione imperiale». Eppure, in tutta Europa si fa una gran confusione tra fascismo, populismo e sovranismo.
La resistibile ascesa di…
Erano tutti affascinati, sconcertati, perplessi e un po’ inquieti la sera del settembre 1961 in cui andò in scena al teatro Carignano di Torino la prima rappresentazione italiana di La resistibile ascesa di Arturo Ui di Bertolt Brecht. Il regista Gianfranco De Bosio (95 anni nel 2019) era uomo della Resistenza e aveva chiamato Franco Parenti per la straordinaria interpretazione del protagonista disegnato da Brecht nel mercato di frutta e verdura di Chicago, dove «un ambizioso gangster, aizzato dai suoi sgherri privi di scrupoli, ricatta un politico per ottenere una posizione privilegiata. Da quel momento gli basteranno qualche atto infame, una serie di intimidazioni violente e ben calibrate, un po’ di pratica oratoria e un paio di minacce per riuscire a sbaragliare la concorrenza. Prima dell’ultimo sipario, il gangster ha sedotto l’opinione pubblica, imbavagliato la stampa, intimidito i giudici, soppresso l’opposizione pur dovendo ammettere di non essere amato».
Ho tratto questa sintesi della drammatica favola allegorica di Brecht da Fascismo. Un avvertimento di Madeleine Albright, segretario di Stato americano con Bill Clinton alla fine degli anni Novanta. Brecht la scrisse nel 1941 in Finlandia, uno dei tanti paesi del suo esilio cominciato con una fuga rocambolesca dalla Germania nel 1933, al momento dell’arrivo di Hitler al potere, perché le sue opere erano giudicate sovversive. La resistibile ascesa di Arturo Ui è appunto la resistibile ascesa al potere di Hitler, estendibile a tutti i fascismi. Brecht era comunista e la rappresentazione italiana dell’opera, a tre anni dalla prima assoluta a Stoccarda nel 1958, avvenne poco dopo la parentesi del governo Tambroni, nato con l’appoggio del Msi e, per questo, interpretato come una possibile revanche neofascista. Di qui – in un’Italia che ancora godeva appieno della coda del «miracolo economico», ma con il Muro di Berlino appena costruito – la formidabile spaccatura tra un Pci togliattiano proclamatosi unico titolare della Resistenza e una Dc saldamente filoatlantica e di nuovo compattamente antimissina, che respingeva qualunque ipotesi nostalgica.
La Albright, sensibile all’argomento anche per la sua fede ebraica, osserva a ragione – richiamando la tesi di Brecht – che «per estendere la sua influenza dalla strada ai vertici dello Stato il fascismo debba poter contare sull’appoggio di molteplici settori della società». È perciò un errore immaginare che «il fascismo sia una logica propaggine del populismo e attribuire il successo di entrambi al malcontento del ceto medio-basso, come se i sentimenti antidemocratici albergassero in un’unica classe sociale».
Albright: «Il populismo? È rispettabile»
Madeleine Albright rivernicia di rispettabilità anche la parola «populismo». Se, come dicono i dizionari, il populista è «chi crede nei diritti, nella saggezza e nelle virtù della gente comune, bene, io appartengo alla categoria». Formatasi nella democrazia americana, l’ex segretario di Stato avverte di non confondere i populisti, anche di destra, con i fascisti. Il Partito del popolo americano fu fondato nel 1890 e il suo candidato alla presidenza degli Stati Uniti, James B. Weaver, un populista di sinistra, conquistò cinque Stati.
Talvolta i populisti non hanno potuto concludere la loro corsa al potere perché sono stati ammazzati o resi invalidi. Come accadde negli anni Trenta al senatore democratico della Louisiana Huey P. Long, che attaccò da sinistra Franklin D. Roosevelt. Al grido di «Ogni uomo è un re» propose di limitare la proprietà in favore delle famiglie escluse dal «sogno americano». «Sarebbe stato un ottimo candidato alla Casa Bianca» scrive la Albright «se non fosse stato assassinato da uno dei suoi numerosi avversari politici.»
Il suo caso è illuminante per spiegare le mistificazioni politiche che attraversano i secoli e i continenti. Long era un uomo di sinistra radicale, eppure nel 1935 – l’anno in cui fu ucciso – Sinclair Lewis pubblicò il romanzo-denuncia It Can’t Happen Here, ovvero Da noi non può succedere, il cui protagonista – il senatore populista «Buzz» Windrip che, una volta democraticamente eletto presidente degli Stati Uniti, instaura una dittatura fascista – pare ispirato appunto alla sua figura.
Anche George Wallace, un eminente esponente della destra americana anti-Washington che riscosse un certo successo alla fine degli anni Sessanta, avrebbe alcuni tratti comuni a Salvini (contro i «giornaloni», i «professoroni», gli «spinellari», ecc.), tranne il razzismo, che non è nelle corde di quest’ultimo, sebbene gli venga costantemente rimproverato. A chi gli dava del fascista, Wallace, che aveva partecipato alla seconda guerra mondiale in Europa, rispondeva: «Uccidevo fascisti mentre voi teppistelli eravate ancora in fasce». Ferito da un attentatore durante la campagna elettorale del 1972, passò il resto della sua vita (morì nel 1998) su una sedia a rotelle.
Nel suo saggio, la Albright propone un elenco sterminato di leader e presidenti democratici e repubblicani che sono definibili «populisti» perché nelle loro campagne elettorali hanno toccato «corde populiste ogni volta che se ne presentava l’occasione», da Franklin D. Roosevelt a Ronald Reagan, da George W. Bush a Barack Obama e, ovviamente, a Donald Trump. L’ex segretario di Stato americano arriva a dire che se qualcuno pensa che gli uomini delle élite siano migliori dei populisti, «gli elitisti ancor più dei populisti pongono una minaccia letale alla libertà». La Albright non fa riferimenti ai classici, ma, secondo l’odierna visione delle cose, il «governo dei migliori» (aristocrazia) già descritto nella Politica di Aristotele non sarebbe certo raccomandabile come esempio di regime democratico. A maggior ragione, se sfocia nel «governo di pochi» (oligarchia), forma corrotta di aristocrazia.
(Trasferito in Italia, il governo delle élite non ha dato risultati durevoli se, dopo la buona amministrazione postunitaria, ha aperto la strada al fascismo. E oggi chi crede che un governo elitario, senza il battesimo delle urne, sia per ciò stesso preferibile a un «governo Salvini», populista e sovranista, nato dal voto popolare, non renderebbe alla democrazia un buon servizio.)
La conclusione della Albright è questa: «Quasi tutti i movimenti di una certa importanza sono in qualche misura populisti, ma ciò non li rende fascisti, né intolleranti. Che cerchino di limitare l’immigrazione o di allargarla, di criticare l’Islam o di difenderlo, di mantenere la pace o fomentare la guerra, sono tutti democratici fintanto che perseguono i loro obiettivi con mezzi democratici. Non è l’ideologia a rendere fascista un movimento, ma la tendenza a imporre anche l’obbedienza».
Detto questo, hanno ragione la Albright (e Brecht) a sostenere che i fascismi non prendono il potere a spallate, ma gradualmente e con il consenso, come abbiamo visto nei capitoli precedenti. Per quanto riguarda il nazismo, basta citare la testimonianza in Fascismo. Un avvertimento di un tedesco istruito, ma non impegnato politicamente, che ricorda: «Ogni passo era così piccolo, così irrilevante … che uno lo avrebbe visto crescere [il nazismo] giorno per giorno in modo non più evidente di quanto un contadino vede crescere il grano nel suo campo».
Dove prospera l’estrema destra tedesca
Se fascismo (o comunismo?) vuol dire imporre l’obbedienza, una parte rilevante dei giovani tedeschi è oggi pronta a valutare l’esperimento. Roberto Giardina, un giornalista che vive in Germania da decenni, ha raccontato che il 26 per cento dei giovani che vivono nell’Est del paese e il 23 per cento di quelli dell’Ovest ritengono che «sarebbe da augurarsi l’arrivo di un Führer, di un capo, che agisca con autorità senza preoccuparsi del Parlamento e delle elezioni. Di destra o di sinistra, poco importa» («ItaliaOggi», 29 marzo 2019).
Le elezioni europee del 2019 hanno dimostrato quanto siano marginali i partiti che si richiamano al comunismo, parola in alcuni paesi impronunciabile. I partiti di estrema destra, invece, godono in genere di buona salute. Alle elezioni regionali del settembre 2019, in Sassonia e Brandeburgo, nella Germania orientale, Alternative für Deutschland, pur non confermando il primo posto delle europee di maggio, ha triplicato i voti del 2014, tallonando in Sassonia la Cdu di Angela Merkel e in Brandeburgo l’Spd, partiti storici entrambi in fortissima flessione. E, alle elezioni in Turingia del 27 ottobre 2019, AfD ha raddoppiato i consensi, toccando il 23,4 per cento dei voti, piazzandosi dopo gli ex comunisti della Linke (31 per cento), ma superando la Csu della Merkel. A livello nazionale, questo movimento sovranista, antieuropeista, antifemminista, con tratti inquietanti di antisemitismo e di negazionismo della Shoah, non vale più dell’11 per cento. (Il monumento all’Olocausto eretto nel cuore di Berlino è stato definito da un dirigente di AfD «monumento della vergogna, perché nessun altro paese ricorda nel cuore della sua capitale una pagina nera della sua storia».)
Sarebbe imprudente, tuttavia, limitarsi alla condanna senza capire perché questo accade. Prima delle elezioni europee del 2019, Paolo Valentino ha raccontato sul «Corriere della Sera» che dal 2014, ogni lunedì sera, qualche migliaio di persone si riunisce nel cuore barocco di Dresda cantando inni tradizionali, agitando bandiere tedesche e, soprattutto, mostrando in silenzio cartelli con la scritta: «Fuori l’Islam dalla Sacra Germania» e «Difendiamo la patria tedesca dall’invasione araba». La politica aperta sull’immigrazione è costata alla Merkel un salasso a ogni elezione. L’AfD non vuole più migranti ed esige che a quelli arrivati si tolgano i benefici sociali. A trent’anni dalla caduta del Muro di Berlino che aprì alla riunificazione tedesca, l’Est si sente oppresso e sacrificato dall’Ovest, al punto di far ammettere alla cancelliera: «Forse il paese non è così riconciliato come si pensava» e in molti tedeschi dei nuovi Länder «cresce un sentimento di frustrazione». Si aggiunga che se la gran parte degli italiani ritiene che l’euro sia un marco travestito, molti in Germania, soprattutto dell’Est, la pensano all’opposto, accusando Bruxelles di fare una politica troppo lassista. Ma sarebbe un errore liquidare Alternative für Deutschland come un semplice partito neonazista: è diviso al suo interno, qualcuno spera persino che si converta in una Csu (il partito cattolico conservatore bavarese), ma è proprio questa ambiguità mai risolta che ha gioco facile nel lucrare sulle inquietudini della popolazione.
Nell’Est della Germania la storica freddezza tra tedeschi e polacchi sfocia in un antieuropeismo simile a quello cresciuto in alcune regioni italiane: «Perché a Breslavia, in Polonia, a un passo da noi, grandi aziende tedesche come Daimler e Lufthansa hanno aperto enormi fabbriche con i soldi dell’Unione europea?». Così, quella che una volta era la Repubblica democratica tedesca si ribella e si spopola. I cinque Länder che la compongono hanno oggi la stessa popolazione dei tempi di Bismarck. Nel 1948 contavano 19 milioni di abitanti, oggi non arrivano a 14, mentre nella Germania occidentale, in un secolo, la popolazione è raddoppiata. E pensare che solidi elementi di soddisfazione non mancherebbero. Quando è caduto il Muro, il prodotto interno lordo dell’Est era un terzo dell’Ovest, oggi è al 70 per cento, e il reddito disponibile è all’84 per cento di quello della parte ricca del paese. In Italia il Sud produce la metà del Nord, eppure…
Polonia, sovranismo e boom economico permanente
Sarà per gli aiuti europei, sarà perché investire da queste parti «delocalizzando» è conveniente per i paesi dell’Ovest, fatto sta che l’economia polacca ignora tutte le crisi attuali e procede come un treno. Da quando è tornata uno Stato pienamente libero (1992) al 2019, è cresciuta a un tasso annuale del 4,2 per cento: un miracolo economico all’italiana, con la differenza che da noi è durato un decennio scarso, lì va avanti da ventisette anni senza segni di cedimento.
Il Piano Marshall della Polonia si chiama Unione europea: i polacchi hanno incassato 102 miliardi di euro dal 2007 al 2013 e ne incassano altri 106 tra il 2014 e il 2020. Certo, il suo pil totale è metà di quello italiano, ma si tratta di un paese con 38 milioni di abitanti che è dovuto ripartire da zero, e dalla caduta del Muro il prodotto interno lordo è aumentato di otto volte. Il pil pro capite (16.000 euro) è di poco inferiore a quello della Calabria, ma il potere d’acquisto è sensibilmente superiore, grazie ad aliquote fiscali simboliche per i redditi medio-bassi.
I salari crescono più del 5 per cento all’anno e una forte politica in favore delle famiglie spinge i consumi interni ben oltre la media europea, a livelli americani, fatte le debite differenze. I conti sono in ordine, con un deficit di bilancio sotto il 2 per cento. E il tasso di disoccupazione è fermo al 3 per cento, il numero magico che indica la sua sostanziale scomparsa.
Dal 2015 la Polonia è governata da un partito di destra, Diritto e Giustizia, guidato da Jarosław Kaczyński, che pur non essendo né presidente della Repubblica né primo ministro, è quello che comanda. Era il fratello meno importante di Lech: vinte le elezioni del 2005, non voleva diventare primo ministro, temendo di ostacolarne la candidatura alla presidenza della Repubblica, e invece ce la fecero entrambi. Lech morì il 10 aprile 2010 in un incidente aereo mentre si recava con la moglie e una delegazione di 88 persone a una commemorazione dell’eccidio di Katyń, la foresta in cui nel 1940 i sovietici trucidarono 22.000 ufficiali e soldati polacchi. E suo fratello è sempre stato convinto che dietro l’incidente aereo ci fosse la mano russa. Certo è che i rapporti tra Jarosław Kaczyński e Vladimir Putin sono peggiori di ogni immaginazione. A russi e tedeschi, infatti, il leader polacco rimprovera di non aver fatto sufficiente ammenda dei peccati storicamente compiuti da entrambi verso il proprio popolo. Ma con la Germania deve andare d’accordo, perché è decisiva per lo sviluppo dell’economia polacca.
Anche Jarosław Kaczyński viene spesso tacciato di fascismo. Accusato di atteggiamenti autoritari nei confronti della stampa e perfino della magistratura, secondo lo scrittore e saggista ebreo polacco da decenni in Italia Włodek Goldkorn, che certo non lo ammira, non è xenofobo e disprezza nel suo intimo l’antisemitismo: è cresciuto con il fratello in una famiglia democratica, i genitori sono eroi della Resistenza, la formazione è progressista. Amico di Lech Wałęsa, secondo Goldkorn se ne distaccò perché non ebbe incarichi ministeriali nei primi governi influenzati da Solidarność. Di qui la svolta a destra che ha fatto della Polonia l’avanguardia del sovranismo. Alle elezioni europee del 2019, il partito di Kaczyński ha superato il 45 per cento, battendo la coalizione di centrodestra di Donald Tusk, presidente uscente del Parlamento europeo. Successo confermato nelle elezioni politiche del 13 ottobre, dove Diritto e Giustizia ha ottenuto il 43,6 per cento dei voti (e la maggioranza assoluta dei seggi) contro il 27 per cento della coalizione cui era affiliato il partito europeista di Tusk.
Il sovranismo di Kaczyński piace molto a Salvini, anche per la sua totale chiusura ai migranti, ma l’intesa tra i due è ostacolata dal fortissimo sentimento antirusso del leader polacco, che intanto se ne sta tranquillo nel gruppo dei conservatori europei (con Giorgia Meloni), non seguendo l’amico italiano in Identità e Democrazia (con Marine Le Pen).
Viktor Orbán, autocrate di successo
Un giorno Viktor Orbán, dominatore da anni della scena politica ungherese, disse al leader polacco Jarosław Kaczyński: «Siamo come ladri di cavalli, pronti a fare scorribande insieme». «E pronti a fare razzie insieme nella stalla dell’Unione europea» gli rispose l’altro. Questo scambio di battute basta a illuminare il lettore sulla strategia dei principali paesi dell’ex blocco sovietico. Secondo Luca Veronese del «Sole - 24 Ore», la differenza tra i due leader politici sarebbe questa: il polacco vuole proteggere il suo paese dalle influenze corruttive del mondo esterno, Orbán vuole esportare all’estero il suo modello. Ma su un punto i due vanno a braccetto: spolpare l’Europa più ricca senza farsi carico di nessuna delle sue difficoltà, a cominciare dai migranti.
«Ora ho il mandato per fermare i migranti, difendere l’Europa delle nazioni e la cultura cristiana europea» ha detto Orbán dopo aver stravinto (52,3 per cento) le elezioni europee del maggio 2019. (Alle amministrative del 13 ottobre 2019, però, ha perso il controllo di Budapest e di altre 10 città sulle 23 in palio.) «Non vogliamo più migranti» ha dichiarato nel febbraio 2019. «Accrescono il tasso di criminalità, importano visioni non cristiane che ci portano in casa il virus del terrorismo.» (Il Consiglio d’Europa ha censurato il trattamento dei migranti in Ungheria, definito da Amnesty International «illegale e profondamente disumano».) «Dobbiamo essere di più, più cristiani,» sottolinea «quindi ci servono più bambini ungheresi e, in generale, più bambini europei cristiani.» Per questo ha deciso di esonerare dalle imposte sul reddito le mamme che abbiano almeno quattro figli.
Il premier ungherese, reduce da tre vittorie elettorali consecutive, è al caldo riparo del Partito popolare europeo, pur essendo considerato uomo di destra. E ha la fortuna di avere alla sua destra un partito di destra estrema come Jobbik, che vale solo il 6 per cento, come i socialisti ormai distrutti, ma serve a ritagliare al furbissimo leader un ruolo apparentemente centrista.
Viktor Orbán ha costruito il suo carisma in trent’anni, pietra su pietra. La prima fu un discorso di sette minuti pronunciato il 16 giugno 1989 alla tumulazione di Imre Nagy, l’eroe della rivolta ungherese impiccato dal governo imposto dai sovietici nel 1958. C’era la diretta televisiva e gli dissero di non chiedere il ritiro delle truppe russe. Lui, 26 anni, fece esattamente l’opposto. Diventò un eroe e fondò un partito riservato a chi aveva meno di 35 anni.
Laureato in legge, Orbán lasciò dopo un solo anno la specializzazione a Oxford (borsa di studio della Fondazione Soros) per tuffarsi nella politica. Nel 2010 prese in mano un paese distrutto dalla crisi finanziaria. Da allora l’Ungheria cresce a un ritmo di circa il 4 per cento all’anno, le imposte sui profitti d’impresa sono al 9 per cento, quelle sui redditi delle persone al 15 (il collegamento dei registratori di cassa con l’Agenzia delle entrate ha stroncato l’evasione). I salari crescono costantemente, la disoccupazione quasi non esiste (3,4 per cento nel 2019), il bilancio pubblico è in ordine (debito al 73 per cento del pil, poco più della metà di quello italiano). Secondo Federico Fubini del «Corriere della Sera», però, Orbán «ha drammaticamente ridotto la libertà di stampa, ha infiltrato le corti e i tribunali, ha tassato in modo insostenibile le organizzazioni non governative che raccolgono i fondi all’estero», avrebbe arricchito amici e parenti anche con i fondi europei.
Paul Lendvai, autore di Orbán: Hungary’s Strongman, ha scritto in The transformer, un durissimo saggio contro il premier ungherese, che la scarsissima disoccupazione è determinata dall’emigrazione di mezzo milione di lavoratori in Austria, Germania e Inghilterra, e che senza gli enormi contributi europei l’economia ungherese sarebbe collassata. Naturalmente il paragone con l’economia italiana è insostenibile, visto che il nostro pil pro capite è più del doppio di quello ungherese, ma è al loro sistema fiscale che Salvini guarda quando parla di «flat tax».
Nato liberale, Orbán da anni considera ormai superato il modello delle democrazie occidentali. Il 26 luglio 2014, durante una visita in Romania, disse: «La nazione ungherese non è una semplice somma di individui, ma una comunità che ha bisogno di essere organizzata, rafforzata e sviluppata, e in questo senso il nuovo Stato che stiamo costruendo è uno stato illiberale, uno stato non-liberale». Aggiunse che «i sistemi non occidentali, non liberali, non democrazie liberali, forse nemmeno democrazie, costruiscono comunque delle nazioni di successo», e concluse dicendo che in questi anni le «star delle analisi internazionali» sono Russia, Cina e Turchia. Naturalmente, ciò non è affatto tranquillizzante per chi crede, come noi, che il modello occidentale – seppure arrugginito – sia ancora il migliore di quelli su piazza.
Guetta: «Ma è l’Italia il laboratorio del futuro»
Viktor Orbán ha fortemente attenuato il sentimento antirusso dell’Ungheria, dove sono ancora presenti le cicatrici dell’occupazione. Lo ha fatto con importanti accordi economici, che sono la porta tradizionale per arrivare ad accordi politici. In questo si trova in sintonia con il presidente della Repubblica ceca Miloš Zeman, che anzi lo supera nell’amicizia con Vladimir Putin. A dimostrazione di come le vecchie etichette politiche siano andate in pezzi, Zeman – eletto al secondo mandato alle presidenziali del 2018 – è socialdemocratico come Orbán è liberale. Eppure non crede nella solidarietà europea, ma in un’Europa sovranista delle nazioni, pur essendo la Cechia un paese avanzatissimo e perfettamente integrato con l’Unione (il suo prodotto interno lordo è soltanto il 20 per cento più basso di quello italiano). Il premier miliardario Andrej Babiš è andato al potere fondando un partito (Akce Nespokojených Občanů, ANO 2011), il cui nome significa grosso modo: contro la politica tradizionale…
La Slovacchia è – dopo Polonia, Ungheria e Repubblica ceca – il quarto paese di Visegrád. Anche qui è al potere un governo socialista-sovranista in declino di consensi, visto che alle elezioni europee il primo posto è stato ottenuto dai liberali di un partito nazionale ecologico che nel 2019 hanno conquistato la presidenza della Repubblica. Il partito di estrema destra di Marian Kotebla, pur avendo ricevuto molti consensi, si è fermato poco oltre il 12 per cento.
Visegrád ha una lunga storia: l’alleanza è nata nel 1991 in una cittadina ungherese sul Danubio, da cui ha preso il nome, per sopravvivere alla dissoluzione dell’impero sovietico e avvicinarsi all’Unione europea. A quindici anni dal loro ingresso, i quattro paesi alleati incassano dalla Comunità 14 miliardi di euro netti all’anno (l’Italia ne sborsa alla Ue 3,5). Nonostante appartengano a famiglie politiche diverse, i quattro governi sono tutti sovranisti e anti-immigrati, anche se negli ultimi tempi le due componenti della vecchia Cecoslovacchia hanno assunto nei confronti dell’Europa una posizione più moderata.
La clamorosa vittoria in Austria del leader popolare Sebastian Kurz (37 per cento) alle elezioni politiche del 29 settembre 2019 dimostra che non conta il colore del candidato, ma il suo programma. Prima dell’arrivo di Kurz (33 anni), il Partito popolare austriaco boccheggiava, mentre trionfava il leader dell’estrema destra Jörg Haider. Per rinascere, Kurz ha fatto il copia-incolla con molte posizioni di Haider: sovranismo, nessuna solidarietà europea, politica contro gli islamici e gli immigrati. È lui che nel 2015, da ministro degli Esteri della Grande Coalizione, ha patrocinato il blocco dei Balcani per arginare gli arrivi degli immigrati dall’Est. È lui – dall’alto di un bilancio in attivo e di un rapporto deficit/pil del 73 per cento – a diffidare l’Italia alla vigilia delle elezioni europee del 2019: «Non pagheremo i debiti degli italiani». La sua fortuna è stato lo scandalo che ha colpito il leader dell’estrema destra Heinz-Christian Strache, accusato di un uso illecito dei fondi del partito. L’Fpö ha perso 10 punti e l’alleanza di centrodestra è stata sostituita da una di centrosinistra.
In Europa, la Lega di Salvini aderisce al gruppo Identità e Democrazia, che ha 73 seggi, insieme a francesi, tedeschi, austriaci, olandesi, fiamminghi, cechi, finlandesi, danesi ed estoni. Il previsto sfondamento alle elezioni europee 2019 non c’è stato, sebbene la Lega abbia avuto un risultato straordinario e il Rassemblement National sia stato il primo partito francese, superando di 1 punto percentuale scarso la coalizione di cui faceva parte quello di Emmanuel Macron, ma il sistema elettorale non fa toccare palla a Marine Le Pen. In ogni caso, anche la Le Pen, alla vigilia elettorale, ha modificato radicalmente il suo programma: non più la Francia fuori dall’Europa e fuori dall’euro, ma battaglia nell’Unione europea per cambiarla dall’interno, continuando a mietere consensi nei quartieri operai e nei piccoli centri, e lasciando a Macron la prevalenza a Parigi e in quasi tutte le città principali.
Heinz-Christian Strache è stato massacrato in Austria e Geert Wilders (leader del Partito per la libertà) – contro ogni attesa – in Olanda, dove non ha preso nemmeno un seggio. Male i cechi, male gli scandinavi. Con l’uscita della Lega dal governo italiano, i sovranisti al potere (Ungheria, Polonia, Austria, Bulgaria e Lettonia) aderiscono ai gruppi popolare, liberale, perfino socialista. Nessuno a Identità e Democrazia.
Eppure sarebbe un errore scansare con fastidio il fenomeno sovranista senza capirne le ragioni. Nel 2017 un’inchiesta di Giulio Menotti per «Il Foglio» prese atto che «i paesi con la più forte identità cristiana si trovano tutti nella ex sfera di influenza sovietica» e che «l’opposizione dell’Est al multiculturalismo e alla immigrazione nasce da quanto hanno visto succedere a Ovest». Alla vigilia delle elezioni europee del 2019 Marc Lazar spiegò sulla «Repubblica» che la progressiva affermazione dei populisti di destra è alimentata da tre crisi: la crisi sociale, che si avverte soprattutto nel Sud dell’Europa; la crisi politica, perché il declino dei partiti di governo, a sinistra e a destra, ha aperto uno spazio politico alle formazioni antisistema; la crisi culturale, dove il declino demografico accentua l’ostilità nei confronti degli immigrati. Già dal 2015 Bernardo Valli sulla «Repubblica» spiegò che l’Est non vuole i migranti e una società multiculturale perché – si prenda il caso della Polonia, ma non solo – ha raggiunto da poco un’unità etnica e linguistica alla quale non vuole rinunciare.
In I sovranisti, Bernard Guetta parla dell’Italia come di un laboratorio per il futuro dell’Europa, ricorda che Lombardia, Veneto, Austria, Ungheria, Polonia – dove dominano partiti sovranisti – richiamano i confini dell’impero austroungarico, che ha sempre vissuto in modo contraddittorio il rapporto con l’Occidente e i valori di libertà ed eguaglianza che vi si sono andati affermando. «Il pericolo maggiore» ha detto Guetta in un’intervista al «manifesto» (30 maggio 2019) «non è una nuova stagione sanguinaria, qualcosa che ricordi il nazismo, bensì un mondo controllato, privo di passioni, piccolo e forzatamente tranquillo, dove la libertà evapori nel silenzio poco per volta.»
Un anno prima delle elezioni europee del 2019, Federico Fubini ammoniva sul «Corriere della Sera»: «Salvini e Di Maio hanno dato risposte sbagliate a domande giuste … Gli europeisti hanno in comune il rifiuto di chiedersi perché i connazionali abbiano voltato loro le spalle per affidarsi a leader ai loro occhi tanto smargiassi, poco istruiti e invisi ai media esteri che quegli esponenti del vecchio establishment leggono ogni mattina».