Appendice B.
L’ipercommercializzazione
e la «mano invisibile» di Adam Smith

Ho parlato nel capitolo 5 dell’interazione fra la globalizzazione ipercommercializzata e i nostri valori e comportamenti. Qui mi soffermo su come Adam Smith ha affrontato lo stesso tema agli albori del capitalismo e sul ruolo della «mano invisibile» nella tesi dell’economista e filosofo settecentesco.

Il tipo di argomento della mano invisibile si basa sull’accettazione di quelle che, prima dell’Illuminismo, erano considerate le passioni distruttive e insaziabili del potere, del piacere e del profitto (per usare la classificazione di David Wootton [2018]) e che, a patto di riuscire a controllarle, possono produrre un bene sociale. Diversamente dall’etica aristotelica e dalla morale cristiana, che ponevano l’accento su virtù individuali come il coraggio, l’autocontrollo e la sincerità, David Hume, Adam Smith e altri si resero conto che attribuendo un ruolo a quelli che convenzionalmente si consideravano vizi umani, come l’interesse personale e l’ambizione, li si poteva sfruttare in nome del miglioramento sociale. Se un individuo non può arricchirsi se non migliorando le condizioni economiche di qualcun altro, o non può ottenere un potere maggiore se non per il fatto che quel potere gli viene liberamente e temporaneamente delegato, allora i vizi tradizionali possono essere sfruttati come motori per aumentare la felicità sociale, la ricchezza e la sicurezza. La «magia» che trasforma i vizi individuali in virtù sociali è la mano invisibile di Smith.

Il summum bonum sociale si può raggiungere solo facendo affidamento su interessi individuali, non sempre lodevoli in quanto tali. E non sempre le ricompense vanno a favore dei virtuosi. Questo contrasto fra il livello individuale e quello sociale è tracciato con forza da Mandeville, e ancora di più da Machiavelli, mentre Smith lo presenta in modo più sfumato, forse per via del suo teismo. Ciò sembra particolarmente vero nel caso della Teoria dei sentimenti morali, in cui Smith si avvicina a Leibniz e alla posizione che fu ridicolizzata da Voltaire quando in Candido derise l’idea del «migliore di tutti i mondi possibili»:

La felicità dell’uomo e di tutte le altre creature razionali sembra sia stato l’intento originario dell’Autore della natura al momento della loro creazione. Nessun altro fine appare degno della suprema saggezza e divina benignità che necessariamente Gli attribuiamo, e questa opinione, quando consideriamo astrattamente le Sue infinite perfezioni, è confermata ancora di più dall’esame delle opere della natura, che sembrano tutte fatte in modo tale da promuovere la felicità e preservare dalla miseria (Teoria dei sentimenti morali, libro III, cap. 5, § 7).

Non c’è contraddizione tra ciò che si ottiene e ciò che si merita, continua Smith:

Se consideriamo le regole generali per mezzo delle quali vengono comunemente distribuite in questa vita la prosperità e l’avversità esteriore, troveremo che, nonostante il disordine in cui appaiono tutte le cose in questo mondo, tuttavia anche qui ogni virtù naturalmente riceve il suo premio appropriato (Teoria dei sentimenti morali, libro III, cap. 5, § 8).

E se c’è una tale contraddizione fra il merito e la ricompensa, si tratta di un incidente simile a un terremoto o a un’alluvione (anche se non sappiamo perché l’Autore della natura permetta tali incidenti):

Per qualche straordinaria e sfortunata circostanza, un uomo buono può arrivare a essere sospettato di un crimine del quale è del tutto incapace, e a causa di ciò essere ingiustamente esposto per il resto della sua vita all’orrore e all’avversione dell’umanità. Per un incidente di questo tipo si può dire che egli perda tutto, nonostante la sua integrità e la sua giustizia, nello stesso modo in cui un uomo cauto, nonostante la sua estrema circospezione, può restare travolto da un terremoto o da un’inondazione (Teoria dei sentimenti morali, libro III, cap. 5, § 8).

Gli argomenti che ho presentato nel capitolo 5 riguardo a come la globalizzazione ipercommercializzata influisce sui nostri valori e comportamenti, e come questi, a loro volta, modellano le società commercializzate di oggi, convergono sostanzialmente con la visione di Smith dell’interesse personale individuale che si trasforma in bene sociale. Ma non convergono del tutto e non in maniera incondizionata.

Il mio punto di vista si discosta dalla conclusione ottimistica di Smith per due aspetti. Innanzitutto, sostengo che una mercificazione sempre maggiore delle nostre vite porta a un uso indiscriminato e spesso senza limiti delle passioni del potere, del piacere e del profitto. Quindi, affinché queste passioni possano produrre effetti sociali favorevoli, occorre un controllo sempre maggiore da parte dello Stato che, attraverso obblighi giuridici e leggi severe, deve stare sempre un passo avanti rispetto a possibili abusi. Non è cosa facile da realizzare nelle migliori circostanze immaginabili, ed è ancora più difficile quando coloro che detengono il potere non sono incentivati a consentire l’introduzione di tali vincoli. In secondo luogo, alcune delle forme estreme che queste passioni talvolta assumono non possono essere domate in nessun modo. Ciò vale per le attività che sono fin dall’inizio illegali o non etiche, e la cui importanza è probabilmente maggiore nelle società con una mentalità più commerciale. Questi sono quindi due casi in cui la trasmutazione smithiana dei vizi in virtù diventa difficile da realizzare nelle società ipercommercializzate.

Ci si potrebbe allora chiedere fino a che punto i postulati basilari della trasmutazione smithiana siano validi oggi. Se a un certo punto né i freni interni né quelli esterni sono abbastanza potenti da controllare e indirizzare le passioni individuali verso canali socialmente produttivi, il loro libero esercizio può effettivamente portare a risultati distruttivi.