Prefazione all’edizione italiana

Scrivo questa prefazione in piena emergenza Covid-19. Non sappiamo quando e come la pandemia finirà, ma sembra chiaro sin d’ora che il mondo non sarà più lo stesso di prima. Alcuni, in un primo tempo, avevano creduto che l’inizio e la fine della pandemia sarebbero stati come gli interruttori elettrici: si accende la pandemia nel dicembre 2019, poi finisce, e tutto torna come prima. Sappiamo che non sarà così.

Penso che la pandemia cambierà il mondo sotto tre aspetti importanti, che possiamo analizzare nel contesto delle tematiche proposte nel libro. Innanzitutto, questa emergenza sanitaria è destinata ad alimentare la rivalità fra Stati Uniti e Cina o, più in generale, fra capitalismo liberale e capitalismo politico. In secondo luogo, influenzerà la diffusione della globalizzazione poiché ha messo in evidenza la fragilità dei presupposti su cui si costruiscono le catene globali del valore. Terzo, rivaluterà il ruolo dello Stato nella vita economica. Prenderò ora in esame ciascuno di questi cambiamenti.

La concorrenza fra Stati Uniti e Cina è passata dalla minaccia di guerre e tariffe commerciali alla concorrenza diretta in campo ideologico e, sinistramente, anche militare. Non è il caso, qui, di soffermarsi sui dettagli di questa accelerazione del conflitto, dall’accusa di una cattiva gestione dell’epidemia alla revoca dell’autonomia di Hong Kong; sono argomenti trattati quotidianamente sulle pagine dei giornali.

Ciò che conta è come i due sistemi hanno reagito alla crisi e quale abbia maggiori probabilità di uscirne meglio. A questo proposito, la Cina ha superato senza dubbio gli Stati Uniti, per la capacità sia di contenere il virus sia di proteggere più efficacemente l’economia. Non è il risultato che molti si sarebbero aspettati. Non solo gli Usa sono il paese tecnologicamente più avanzato al mondo, che vanta centinaia di facoltà di medicina e sanità pubblica con svariate migliaia di docenti, ma la sua governance democratica dovrebbe anche, in teoria, costituire un più chiaro incentivo a tutelare e salvare la vita dei suoi cittadini. Ma è accaduto il contrario.

Il modo di porsi e di agire quando si tratta di salvare vite umane è fondamentale. Come mai gli Stati Uniti si mostrano indifferenti nei confronti delle vittime mentre la Cina se ne preoccupa? Non ci saremmo aspettati il contrario? L’insensibilità verso la morte di tante persone di cui hanno dato prova gli Stati Uniti non può essere spiegata solo dall’inadeguatezza della risposta da parte dell’esecutivo. C’è dell’altro: l’incapacità del governo di imporre forti misure centralizzate, i conflitti tra le diverse giurisdizioni, la resistenza popolare alle più elementari misure di prevenzione (e l’incapacità del governo di farle rispettare) e, non ultimo, il fatto che le vittime siano in misura spropositata neri americani, ispanici e persone a basso reddito. In un paese che, come argomentato nel capitolo 2, si sta avviando verso la plutocrazia, il fatto che ai ricchi siano state perlopiù risparmiate le conseguenze sanitarie e finanziarie della crisi ha contribuito all’indifferenza verso chi muore.

Come sostengo nel capitolo 3, la mancanza di legittimità elettorale che affligge i governi dei paesi in cui vige il capitalismo politico, e in Cina in particolare, può, a prima vista paradossalmente, indurre i governi a preoccuparsi di più (e non meno) dell’economia e del benessere dei cittadini. Il motivo è il seguente: se il contratto di governo implicito si basa sull’accettazione di un sistema autocratico, fintanto che quel governo fornisce «beni» – ossia fino a quando sussiste un compromesso (trade-off) fra libertà politiche e successo economico –, l’incentivo del governo sarà quello di moltiplicare gli sforzi per salvaguardare la prosperità economica e, nel caso di una pandemia, tutelare la salute della popolazione proprio per non perdere legittimità. La legittimità scaturisce in questo caso dai risultati, non dall’essere stati eletti dal popolo. Questo, a mio avviso, spiega le reazioni estremamente forti, e in alcuni casi draconiane, da parte dello Stato cinese. Oltre, naturalmente, alla sua capacità di centralizzare le risorse e di ignorare le questioni legali che spesso rallentano la risposta nelle democrazie.

La pandemia ha portato allo scoperto, forse per la prima volta in modo così evidente, il conflitto ideologico fra i due sistemi. L’atteggiamento aggressivo dei cosiddetti «Wolf Warriors», i lupi guerrieri, è una novità nella politica estera cinese. Eppure, ho scritto:

Ci può essere un altro […] fattore che potrebbe predisporre la Cina a rendersi più attiva sulla scena internazionale. Questo fattore collega la politica interna e quella estera. Se la Cina continuerà a svolgere un ruolo passivo in cui non fa pubblicità alle proprie istituzioni, mentre l’Occidente continua a portare avanti i valori del capitalismo liberale in Cina, è più probabile che tali istituzioni occidentali diventeranno sempre più popolari e sostenute da ampie fasce della popolazione cinese. Ma se la Cina sarà in grado di definire quali sono i vantaggi del capitalismo politico, potrà resistere all’influenza straniera con una controinfluenza propria anziché con la passività. In questo senso, essere attivi a livello internazionale è una questione di sopravvivenza politica interna, problema che si pone a causa della potenziale debolezza interna (p. 142).

La nuova assertività ideologica cinese può quindi essere considerata, più correttamente, alla stregua di un’attività preventiva: l’energia che scaturisce da una potenziale debolezza. Il pericolo a cui vanno incontro i regimi autoritari è che se non propongono e non sostengono attivamente un diverso approccio ideologico rischiano di essere sopraffatti a livello nazionale dall’assertività ideologica e dalla penetrazione della democrazia. È attraverso questa offensiva, radicata nella debolezza, che la Cina sarà «costretta» a cominciare a esportare il proprio modello, nonostante la sua storica riluttanza in tal senso e la difficoltà di «confezionare» la formula del successo cinese, questioni entrambe analizzate nel sottoparagrafo 3.5b.

Benché gli Stati Uniti e la Cina siano rappresentanti emblematici di due tipi di capitalismo, sarebbe sbagliato concludere che questi due paesi, nel caso del Covid-19, siano gli unici a illustrare in modo veritiero la differenza di reazione tra democrazie e sistemi autoritari. In realtà, una chiara distinzione fra i due sistemi non è possibile. In Asia, hanno funzionato entrambi piuttosto bene: Taiwan, Giappone e Corea del Sud da un lato, Vietnam e Singapore dall’altro. Analogamente, in Europa, alcune democrazie hanno ottenuto buoni risultati (Germania, Danimarca, Repubblica Ceca, Grecia), altre molto meno (Svezia, Regno Unito, Italia).

L’Italia si è trovata in una condizione particolare perché è stata il primo paese in Europa a essere gravemente colpito. Le prime reazioni alla pandemia sono state lente, contraddittorie e caratterizzate da un’apparente incredulità della popolazione circa la gravità del problema e la sua persistenza. Il numero di vittime è stato molto alto. Tuttavia, dopo quel primo periodo, le autorità italiane hanno preso in mano la situazione e dimostrato che misure come il lockdown di intere province, mai prese in considerazione fino a quel momento e che, nell’eventualità, sarebbero state ritenute impraticabili, erano invece possibili. In questo senso, l’Europa ha finito per seguire l’approccio cinese.

Il secondo effetto a lungo termine della pandemia sarà un rallentamento della globalizzazione. Questo è già evidente nelle difficoltà dei viaggi d’affari internazionali. Ma la maggior parte di queste restrizioni verrà meno quando la pandemia sarà finita. Ciò che cambierà, invece, sarà l’atteggiamento nei confronti delle catene globali del valore che, come argomentato nel paragrafo 4.2, sono state determinanti per la diffusione dei rapporti di produzione capitalistici in tutto il mondo. Sono state strutturate per essere super-efficienti in condizioni ottimali, quando non si verificano né tumulti politici né sconvolgimenti improvvisi. Hanno ridotto al minimo i costi, trascurando di fornire sostegno o di prevedere i margini necessari a garantire il funzionamento del sistema in caso di cambiamenti improvvisi nei canali commerciali o di conflitti politici. La pandemia ha palesato la fragilità di questi presupposti. Ci si può aspettare che in futuro le catene saranno più costose, ma anche più solide e che, per ragioni politiche, potrebbero essere mantenute più vicine a casa. Non ci sarà un’inversione di tendenza della globalizzazione, ma la pandemia ha provocato una battuta d’arresto nel suo percorso, portandoci a riflettere sulla validità di alcuni presupposti alla base dell’idea di frammentare la produzione da un capo all’altro del mondo.

Il terzo ambito in cui la pandemia lascerà il segno è il ruolo dello Stato. Anche qui ha messo in evidenza i vizi occulti impliciti nel presupposto secondo cui il settore della sanità, e altre sfere dell’economia come l’istruzione e le infrastrutture, possano essere gestiti unicamente sulla base di principi di profitto economico. I tagli alla spesa sanitaria, la riduzione del numero di posti letto, la mancata produzione di dispositivi di protezione individuale, il fatto di considerare lo sviluppo dei farmaci come una questione puramente commerciale (dove le aziende sono scarsamente incentivate a investire per mettere a punto vaccini o terapie per malattie raramente ricorrenti) hanno mostrato senza mezzi termini i limiti di questo approccio. Questa consapevolezza, credo, porterà a sottrarre alcune sfere molto importanti della vita economica alla logica del profitto. In questo senso, il ruolo dello Stato in molti pae­si in cui vige il capitalismo liberale potrebbe crescere in importanza.

Questa è naturalmente una breve e rapida trattazione di quelli che, a mio avviso, saranno i cambiamenti a lungo termine portati dalla pandemia. Potrebbero essercene altri che ad ora non siamo in grado di prevedere. Se, per esempio (come sembra al momento), le economie asiatiche si riprenderanno molto più velocemente rispetto ai paesi dell’Unione europea e del Nord America, il baricentro dell’attività economica globale si sposterà in modo sempre più rapido verso l’Asia. Finora gli effetti della pandemia sull’Africa sono stati contenuti. Ma la situazione potrebbe cambiare e incrementare inesorabilmente i flussi migratori verso l’Europa, alimentati dalle enormi differenze di reddito fra i due continenti. Infine, la pandemia potrebbe avere importanti conseguenze politiche in molti paesi, portando a cambi di governo o scatenando rivoluzioni. Non è possibile prevedere chi ne sarà colpito, ma possiamo sicuramente aspettarci che, a causa di negligenze e cattiva gestione a livello locale, un evento di tale portata globale produrrà malcontento e ripercussioni politiche.

San Francisco, luglio 2020

Branko Milanovic