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Presi Blythe per la vita e la feci scivolare dentro alla rimessa. Forse, prima di sbattere la porta, avvertii il soffio caldo di un quarto proiettile sfiorarmi la guancia. O forse fu solo l’emozione del momento che mi fece dare allo sparatore un credito che non si meritava del tutto. Ad ogni modo, un quarto sparo ci fu..

Feci coricare Blythe sul pavimento. Miagolava come una gatta con le doglie. Fuori, tra le stoppie, gli uccelli gridavano la loro protesta sdegnata per essere stati disturbati. Monty, a quanto sembrava, aveva smesso di far baccano per conto suo. Aveva sentito gli spari? Naturalmente, ma in una serata come questa né lui né gli altri li avrebbero potuti distinguere più di un fuoco artificiale in un campo di battaglia.

Con le braccia cercavo di riparare il corpo tremante di Blythe, in attesa del colpo successivo.

Se la pistola fosse stata di calibro abbastanza robusto, le travi non avrebbero fermato i proiettili. Lo sparatore poteva avvicinarsi: proprio in quel momento poteva essere sulla piattaforma del porticato, pronto a sal-tarci addosso e a riempirci entrambi di piombo. E d’altra parte non c’era via di scampo, se non dalla porta. Le finestre sulla parete posteriore e sui due lati erano sbarrate.

La pistola abbaiò ancora. Il corpo di Blythe si strinse più vicino al mio.

«Kit» gemette. «Mio Dio, è pazzo.»

Invocare aiuto non avrebbe fatto altro che mettere altri sotto il tiro di quella pistola. Se avessimo tentato di andar noi in cerca di soccorso, la lu-na sarebbe stata sufficientemente chiara per illuminarci a profitto dello sparatore, proprio come era accaduto quando ce ne stavamo seduti sul gradino; se poi fosse stato più vicino, c’erano buone probabilità che uno di noi due sarebbe stato colpito. Ah, se soltanto avessi avuto una pistola!

Ma l’avevo!

«Resta qui» dissi a Blythe. «Non cercare di alzarti.»

Tirai fuori la torcia elettrica e proiettai il cono di luce sul tavolo. La mia pistola e la scatola di cartucce erano ancora là.

«Kit ci ha visto che ci baciavamo» bisbigliò Blythe con voce angosciata.

«E ora vuole ucciderci.»

Strisciando sulle mani e sulle ginocchia, mi trascinai sino alla tavola.

Raggiunsi la pistola e le pallottole. Le mani mi tremavano e un sudore freddo colava fuori dai polsini. Sistemai la lampada sul pavimento e tirai fuori il tamburo. La pistola era carica. Strano!

«No!» piagnucolò Blythe.

Mi voltai verso di lei. Fuori, la pistola parlò ancora.

Si mosse verso di me e mi afferrò per un braccio. «Non vorrai uccidere Kit? Non sa quello che fa.»

«Bene. Ma io sì. Vado.»

Si afferrò a me, con una espressione selvaggia negli occhi. Le presi il polso tra le dita e strinsi. Lanciò un grido di dolore e lasciò la presa.

«Può darsi che a te non importi di essere uccisa da lui perché lo ami»

dissi. «Ma io non ho gli stessi sentimenti. E, per l’amor di Dio, non cercare di venir fuori con me.»

«Sei deciso a ucciderlo.»

«Sparerò alto, sopra la sua testa. Per fargli paura. Ora te ne starai buona?»

«Promettimi che non lo ucciderai!»

«Certo. E ora tienti contro il muro, defilata dalla porta. Muoviti.» Si limitò a sedere dove si trovava, con gli occhi sbarrati, fissi sulla mia pistola.

«Vuoi che Kit si macchi le mani con il tuo sangue?» insistetti. «Ora apro la porta.» Strisciò sino al muro e ci si accoccolò contro, piagnucolando. Presi la lampada e mi diressi carponi verso la porta. Poi mi alzai, girai la maniglia e con un calcio aprii.

Non accadde nulla. Guardai fuori. Nessun movimento tra gli alberi. Dal tennis continuava ad arrivare il borbottio delle candele romane.

«Kit» gridò Blythe con tutto il fiato che aveva in corpo. «Scappa. Ha una pistola.»

La risposta fu un nuovo colpo di pistola.

Non riuscii a farmi una idea di quanto vicino mi fosse arrivato il proiettile, ma potei vedere il lampo della pistola tra gli alberi, alla mia destra, in direzione delle querce più alte. Mi sentii pervaso da una furia omicida.

Mi chinai oltre lo stipite della porta e feci fuoco due volte: non in alto come avevo promesso, ma all’altezza del torace, mirando nel mezzo della macchia di querce. Poi ritornai al riparo della porta.

Silenzio. Anche Blythe era ammutolita. Quanti colpi aveva sparato quello? Almeno sei. Se aveva un revolver la sua arma doveva essere scarica; una pistola automatica gli avrebbe consentito ancora da uno a quattro colpi.

Sparai un’altra volta attraverso lo stipite. Nessuna risposta.

Monty lanciò in aria un razzo. Mi augurai che gli si infilasse su per i calzoni. Ma era un desiderio irragionevole.

I secondi correvano ad accumularsi in minuti. Mi voltai verso Blythe.

«Ora vado fuori. Credo che abbia seguito il tuo consiglio e se la sia battuta.

Resta qui.»

«Tu vuoi andar là fuori per ucciderlo!»

«Non fare la scema, smettila. Se vuoi seguirmi e fare di lui un assassino, accomodati. Una volta fuori, tra gli alberi, potrò disarmarlo… se c’è ancora.»

Queste parole la tranquillizzarono. Inspirai profondamente e uscii nel portico, riparandomi quanto possibile all’ombra del muro.

Raggiunsi gli alberi, camminando curvo. Mi andavo ripetendo che, abbagliato da una sorgente luminosa proveniente dalla mia direzione, non sarebbe riuscito a colpirmi. Questo mi rendeva meno nervoso. O forse non avevo tempo per esserlo.

Le betulle non offrivano un gran riparo, e le querce erano piuttosto lontane. Tenevo la lampada spenta. La luna che filtrava dalle fronde creava un gioco di luci ed ombre tale da consentirmi una certa mobilità senza tuttavia offrirgli un bersaglio troppo facile. D’altra parte, se gli fosse rimasto in zucca un po’ di senso comune, avrebbe avuto sufficiente rispetto della mia abilità di tiratore per non tentare di sparare.

Con cautela raggiunsi una quercia e mi riparai dietro il suo tronco; guardai la rimessa e mi misi a riflettere. La gros3. sa quercia dietro la quale si era riparato per sparare, doveva essere alla mia destra. Forse lui era ancora là e stava aspettandomi. Se non se l’era data a gambe quando avevo risposto ai suoi colpi, doveva avermi visto uscire dalla rimessa.

Trattenendo il fiato per una eternità, mi mossi da albero ad albero, in un ampio arco, in direzione della grossa quercia che si trovava tra me e la rimessa. Poco oltre, alla mia sinistra, c’era il prato che si stendeva lungo la riva del lago. Nel raggio di una dozzina di metri dalla quercia non c’erano altri alberi, e potei constatare che nessuno si trovava dietro di essa.

Che si fosse accorto della mia intenzione di arrivargli alle spalle e si fosse nascosto dall’altra parte? Era un nascondiglio possibile, se uno se ne stava appiccicato al tronco. A meno che…

Improvvisamente mi colpì il pensiero che, mentre io stavo giocando agli indiani, quello avrebbe potuto arrivare alla rimessa. Dal mio punto di os-servazione, vedevo soltanto un angolo dell’edificio. Nella mente mi balenò l’immagine di lui inginocchiato su Blythe con le dita strette intorno al collo di lei, per stroncarle ogni grido.

Stavo già per lanciarmi in quella direzione, quando sentii la voce della ragazza.

«Kit» gridò. «Lascia che ti parli. Lascia che ti spieghi.»

Emisi un suono inarticolato, quando l’abito bianco di lei apparve dall’altra parte della quercia. Mi misi a correre a perdifiato, aspettandomi da un momento all’altro un altro colpo. Finalmente la ragazza raggiunse le querce.

D’un tratto cadde lunga distesa a terra. Lanciò un grido. Ero abbastanza vicino per accorgermi che era inciampata su un corpo.

Si rotolò per terra e, sempre gridando, si mise a sedere. Premetti il pul-sante della lampada.

L’uomo giaceva con la faccia contro terra e stringeva un’automatica nella destra. Il corpo era piuttosto piccolo e i capelli non erano rossi.

Monty Wilson e i Lucas stavano avvicinandosi correndo sul sentiero proveniente dalla villa, quando Blythe e io li incontrammo.

«Chi ha gridato?» chiese Monty.

Tenevo un braccio intorno alla vita di Blythe per sorreggerla. Era scossa da un pianto convulso. Nella destra avevo ancora la pistola.

«Ho sparato su Grover Kahle» dissi con una voce che non sembrava neppure la mia.

Tenevo il cono di luce della mia lampada su Nadine Lucas e vidi lo sba-lordimento dei suoi occhi. «Accidenti» bisbigliò Roscoe Lucas.

Monty si inumidì le labbra. «Morto?»

«Si.»

Il viso di Monty e i suoi modi si fecero subito duri. Si voltò verso Nadine. «Portate in casa Blythe. E non dite a nessuno quello che è accaduto prima che siamo di ritorno.»

«Un momento» dissi. «È stata legittima difesa. Blythe farebbe bene a raccontare tutto ora, davanti a testimoni.»

La ragazza cercò di asciugarsi il naso e la bocca con la manica, che però era troppo corta. Le porsi il mio fazzoletto.

«Stavamo sul portico della rimessa quando qualcuno ha cominciato a spararci addosso. Siamo corsi dentro. Pensavo che fosse…» Si interruppe e si rimasticò dentro il resto della frase. «Rick, poi, ha trovato una pistola e ha risposto al fuoco. Poi è uscito e io pensavo che… be’, in capo a pochi minuti, sono uscita anch’io e… e ho inciampato nel cadavere.» La voce le si fece stridula. «L’ho colpito con un calcio.»

«Perché diavolo Kahle avrebbe voluto spararvi addosso?» chiese Monty, aggrottando la fronte.

«Non ne ho la più pallida idea» feci io. «Noi due si pensava che fosse Kit Sheehan, prima di vedere il cadavere. Ascoltatemi bene, tutti. Ho una certa esperienza dei procedimenti della polizia. La prima cosa cui penseranno sarà all’assassinio. E faranno il diavolo a quattro per affibbiarmi una imputazione di primo grado. Blythe, ti ricordi di aver sentito un altro sparo dopo che sei uscita dalla rimessa?»

«Non… non ricordo» balbettò.

«Pensaci bene. Quasi tutto dipende dalla tua memoria.»

«Vuoi dire che i piedipiatti potrebbero pensare che tu lo hai liquidato dopo essere uscito dalla rimessa?» chiese Monty. «E che importanza vuoi che abbia? È sempre legittima difesa, dal momento che lui ti ha sparato addosso.»

«Sarà molto meglio che le loro idee coincidano con quello che è real-mente successo. Dimmi, Blythe, hai sentito uno sparo?»

La ragazza alzò il capo verso di me. «No, non c’è stato un quarto sparo.

Ne sono sicura.»

Sa il diavolo se lo era davvero, ma fino a che diceva così le cose si mettevano bene. «Giusto, non c’è stato. Volevo che tutti voi lo sentiste da lei.

Nadine, ora portate Blythe in casa. Roscoe, fareste bene ad andare con loro e a telefonare allo sceriffo. È ad Elmton. Si chiama Micha Peltz.» La bocca mi si contrasse in una smorfia che assomigliava in qualche modo a un sorriso. «Ne sarà felice.»

Dalla parte del molo si levò il richiamo di una voce femminile. «Ehi, e-hi! Che cosa è successo?»

La luce di una lampada tascabile si stava avvicinando. Monty e io le andammo incontro. Era Eliot Hacker a tenere la torcia. Hertha gli camminava a fianco.

«Abbiamo sentito qualcuno gridare» disse Hertha.

Inghiottii saliva. «Grover Kahle mi ha sparato, e io gli ho risposto. L’ho colpito. È morto.»

Entrambi lanciarono un grido, ma non capii se avevano detto qualcosa.

Stavo pensando a quando avrei dovuto trovarmi a tu per tu con zia Susan.

«La mamma? Lo sa già?» chiese Hertha quasi senza voce.

«Non ancora. Dovresti pensarci tu.»

«Non ce la farei mai» rispose. Poi, afferrandomi un braccio: «Ora ti ar-resteranno per omicidio, caro?»

«No. È un caso anche troppo evidente di legittima difesa.»

Proseguii lungo il sentiero, nella direzione dalla quale erano venuti Eliot ed Hertha. Dovevano essere passati a pochi metri dal cadavere, senza riuscire a vederlo. Voltandomi indietro vidi i tre, confusi in una massa scura, che si avvicinavano preceduti dalla luce di una lampada tascabile. Hertha, al centro, teneva le mani intorno al braccio dei due uomini che l’amavano.

«Non venire, Hertha» stava dicendo Monty. Ed Eliot: «Ti riporto a casa.»

Ma lei insisteva. «Non ho paura, io.»

Mi sembrò di sentire, o pensai che mi sembrasse di sentire, che Monty ed Eliot, i quali avevano cercato di mantenere una certa, pur forzata, ami-cizia, si fossero ora, negli ultimi minuti, sentiti più vicini, come se si fossero resi conto della necessità di usare la loro intelligenza, la devozione, la stessa presenza fisica per edificare quasi un muro di difesa per Hertha.

Mi voltai, uscii dal sentiero e arrivai sul cadavere. Quando lo vidi per la seconda volta, mi sentii come un gran vuoto nello stomaco. Era proprio ve-ro, pensai. Avevo davvero ucciso un uomo.

Hertha mi venne vicino e mi prese una mano tra le sue. Il mio palmo era infuocato, i suoi erano freschi. Monty e Eliot erano in piedi, uno accanto all’altro, e alla luce della lampada nelle mani del secondo, i loro visi erano come degli smunti lampioni gialli.

«Voglio dare un’occhiata intorno» dissi. «Sorvegliatemi da vicino; è meglio che abbia più testimoni possibile per tutto quello che faccio. Non credo che toccherò nulla, ma ad ogni modo è meglio che sia preparato a tutto.»

Nessuno rispose. Mi ficcai la pistola nella tasca posteriore dei pantaloni e mi accovacciai accanto al cadavere, illuminandone il capo con la mia lampada. Hertha trattenne il fiato e io sentii tutta la sua ansia nel passo indietro che fece. Nella tempia destra c’era un piccolo foro bluastro, dal quale era penetrato il proiettile, che doveva essere uscito dalla nuca, un po’

spostato a sinistra. Nella destra del morto c’era la Colt 32 automatica che Hertha e io avevamo già visto nel pomeriggio.

«Be’?» chiese a bassissima voce Eliot.

Scossi il capo. C’era qualche cosa che non quadrava.

In quel momento un grido disperato ci raggiunse di tra gli alberi. «Richard! Grover! Mio Dio!»

Ci siamo, pensai cupamente. Hertha si mise accanto a me e mi strinse un braccio intorno alla vita. Apparve zia Susan. Dietro a lei Zachary faticava a tenere il passo, con una lampada in entrambe le mani.

«Grover!»

Si fermò. Le mani sul petto erano contratte in uno spasimo. Eliot allontanò il cono di luce della sua lampada dal cadavere, e Zachary abbassò le sue. Zia Susan mi guardò.

«Blythe ha detto che Grover ha cercato di ucciderti» mormorò.

Hertha si staccò da me e, facendo un ampio cerchio intorno al cadavere, si avvicinò alla madre. «Vieni via, mamma» le disse con dolcezza. «Rick non ne ha nessuna colpa. Non sapeva neppure che stava sparandogli addosso.»

Zia Susan volse gli occhi verso di me. Accanto a noi giaceva il cadavere.

Ma, nel gioco di luci delle lampade tascabili che rompevano il buio della notte, noi non avevamo occhi che l’uno per l’altra. «Richard, non riesco a capire nulla.»

Sentii la vita riaccendersi in quel torpore che si era impadronito di me.

«Neanch’io, zia Susan. Non volevo sparargli addosso. Nemmeno per legittima difesa. È stato un caso, un maledetto, tragico caso.»

«Vieni, mamma» insistette Hertha.

Le mise un braccio intorno alla vita e la sospinse verso casa. Eliot si trascinò dietro di loro con la sua lampada. Erano di nuovo vicine, ora, madre e figlia, come erano stato sempre.

Mi scossi e mi avvicinai alla quercia. Feci scorrere il cono di luce della mia lampada lungo il tronco dalla parte della rimessa. C’era un buco ben chiaro nel tronco a un sei piedi da terra. Kahle doveva essersi nascosto proprio dietro l’albero. Dei tre colpi che avevo sparato, uno era andato in pieno sull’albero e uno sullo sparatore. In altre circostanze avrei avuto di che compiacermi della mia abilità di tiratore.

Mi chinai sulle ginocchia e, appoggiandomi sulle mani, mi misi a frugare attorno. Nell’erba, dietro l’albero, trovai dei bossoli vuoti di un’automatica. Ne raccolsi uno per accertarmi che fosse di calibro 32 e poi lo riposi al suo posto.

In quel mentre arrivò Roscoe Lucas ad informarmi che lo sceriffo sarebbe stato da noi entro una decina di minuti. Mi alzai in piedi e mi ripulii le ginocchia.

«Chi c’è in casa?» chiesi.

«Nadine e Blythe Amster. Kit è con lei. Quando la signora Train è scesa dalle scale, Blythe le ha spiattellato tutto sènza molto ritegno. Ho appena incrociato la signora Train ed Hertha che stavano tornando a casa. Poi c’è la domestica che ficca il naso dappertutto, e la cuoca, e.«. be’, credo sia tutto.»

«Avete visto Flo Gilbert?»

«In casa, proprio ora, volete dire? No.»

«Zachary» dissi. «Va’ a vedere se la macchina del signor Kahle è fuori.»

Zachary scomparve tra gli alberi. Noi tre ce ne stavamo in piedi in circo-lo, con il cadavere che faceva da quarto. Il volto di Roscoe emerse dalle tenebre quando si accese una sigaretta. Monty aveva una bottiglia tascabile attaccata alla bocca. Mi avvicinai a lui. Il liquore era dozzinale, ma fece ugualmente effetto.

«La cosa è priva di senso comune» osservò Monty. «Kahle non aveva alcun bisogno di sbarazzarsi di te per sposare tua zia. E poi, perché spararti da quella distanza? Avrebbe potuto rimanere tranquillamente tra gli alberi ad aspettare che passassi e spararti poi da pochi metri.»

«Ci sono altre cose incomprensibili» aggiunsi. «Intanto, non hai sentito gli spari, tu?»

Monty annuì perplesso. «Ora ricordo di averli sentiti. Ma naturalmente allora non ho pensato che fossero degli spari. Ricordo di aver pensato che qualcuno doveva aver preso dei fuochi d’artificio ed essere andato a lan-ciarli dalla parte del lago. Ho anche sentito una donna gridare, ma gente che grida non è eccezionale qui. È stato solo l’urlo di Blythe a farmi capire che c’era qualche cosa che non andava.»

La sigaretta di Roscoe brillò per un attimo, prima che egli intervenisse.

«Naturalmente, ho sentito anch’io gli spari… tutti noi li abbiamo sentiti…

ma non ricordo bene. Tutto quello che ricordo è un baccano d’inferno dappertutto. Nadine e io eravamo al tennis con Monty, quando abbiamo udito il grido.»

Zachary ritornò a informarci che la macchina di Kahle non c’era.

«Evidentemente quella Flo Gilbert è una patita dell’automobile» brontolò Monty.