3
C’era solo Zachary al lago. Aveva tirato la barca sul molo e teneva un cacciavite tra i denti, mentre con un martello stava battendo su uno scalmo rotto per tirarlo via. Quando mi vide avvicinare, depose il martello e si tolse di bocca il cacciavite, poi mi tese la sua mano callosa.
«Lieto che siate tornato. C’è bisogno di un altro uomo, qui.»
«Ce ne saranno altri due, presto.»
«Oh, quelli.» La delusione che si leggeva sul suo volto non aveva limiti.
Si accarezzò col pollice i lunghi e folti baffi grigio sporco. I suoi occhi erano due punti azzurri luccicanti in mezzo al viso cotto dal sole. Non so da quanto tempo fosse già a Birch Manor il giorno in cui, ‘venti anni prima, ci ero venuto a vivere. Le sue mansioni ufficiali, allora, erano di uomo di fatica e di giardiniere; in realtà, però, specialmente dopo la morte di zio Howard, era la sola persona che facesse qualche cosa per evitare che quel posto andasse in malora.
«Buoni quelli» brontolò Zachary, tirando fuori dalla tasca dei pantaloni una vecchia borsa di tabacco. «Specialmente quel Grover Kahle. Fumate?»
«Ci stavo pensando. Ho il mio tabacco.»
«Miele e melassa» mi scherni.
Segui un intermezzo che ognuno di noi dedicò a caricare modicamente la propria pipa con il rispettivo tabacco. Zachary si stava concedendo la sua ora di riposo, ma ora che gli si offriva uno sfruttabile argomento di conversazione, nessuno sarebbe più riuscito a fermarlo. Sua passione do-minante erano le chiacchiere. Venivano anche prima dell’altra sua grande passione: il cinema (si godeva religiosamente tutti i film che venivano proiettati ad Elmton). La sera, lui e Olive si sedevano spesso sui gradini dietro la casa per una scambievole elaborazione di tutti i pettegolezzi che erano venuti raccogliendo durante il giorno. Di solito riuscivo ad apprendere molte cose da quel doppio flusso di chiacchiere.
Zachary fece un paio di pipate, poi aprì la bocca per dar la stura alle sue considerazioni. «Io sono un chiacchierone stupido, sapete.»
Questa introduzione era di prammatica. Tirò un lungo sospiro. «È cosi.
Questo Grover Kahle andrà bene per una quantità di donne. Ma per vostra zia, no. Lei è del genere casalingo. Fino alla morte di vostro zio, la signora ha cercato di comportarsi come una pollastrella giovane, ma non le era naturale. Questo Grover Kahle qui è uno di quei tipi di New York, tutti party, liquori e donne. Li conoscete, come nei film. La fa sentir giovane, trovarsi con un uomo come quello. Ma quanto durerà? Lei si stancherà prima di lui, e allora quello se ne andrà in cerca di altre donne. Più giovani.»
Guardai verso il lago. Poteva esserci del vero, in quello che aveva detto Zachary. Ma il problema era un altro. Zia Susan aveva il diritto di prendersi la sua evasione, sempre che questa, in seguito, non le procurasse grossi dispiaceri. E il punto cruciale era proprio in questo: ne avrebbe sofferto?
«Si sposerà, è certo» proseguì Zachary. «Se tutta quest’acqua fosse oro, ci scommetterei contro un nichelino che nulla la potrebbe fermare.»
D’un tratto mi sentii irritato con me stesso per aver incoraggiato Zachary a parlare della vita privata di zia Susan. «Avete visto un mio paio di calzoncini da bagno nella rimessa delle barche?» chiesi per fargli cambiare discorso.
«Cosa? Ah, sì. Ci sono diverse cose da bagno appese ai ganci.»
Mi allontanai dal molo. Dietro di me, Zachary aveva assunto una smorfia di disappunto, presumibilmente perché lo avevo interrotto proprio nel momento in cui stava slanciandosi. Il suo martello riprese sullo scalmo.
Quella che noi chiamavamo la rimessa era in realtà un capannone pieno di attrezzi, con un porticato scoperto davanti. Era il laboratorio di Zachary, di tanto in tanto serviva da spogliatoio e di inverno ci si mettevano al riparo le due canoe e la barca a remi. Mentre cercavo i calzoncini da bagno, mi accorsi di non essermi ancora liberato della pistola e delle cartucce. Buttai fuori il tamburo, ne estrassi i proiettili che c’erano rimasti e deposi la pistola e la scatola sul tavolo da lavoro di Zachary.
I calzoncini da bagno c’erano. Pieni di sabbia e di fango, però non volevo tornare in casa a prendere il paio che avevo portato con me. Non mi sentivo d’umore tale da affrontare zia Susan o Grover Kahle o chiunque altro si trovasse davanti alla casa.
Sentii dei passi sul portico. Ricoperto solo da un paio di slip, mi rifugiai dietro il tavolo da lavoro.
«Richard?»
«Un minuto solo. Sto vestendomi.»
Dovevo immaginare che zia Susan si sarebbe messa alle mie calcagna non appena ne avesse avuto la possibilità. Zachary doveva averle detto do-v’ero andato.
Quando uscii con i miei calzoncini da bagno, era seduta sullo scalino del portico. Voltò il viso verso di me e mi fece cenno di sedere, battendo con il palmo della mano il gradinò accanto a lei. «Siedi.»
«Preferisco rimanere in piedi.»
«Vedo che hai deciso di essere insopportabile. Pensi di mettermi in difficoltà, evidentemente, costringendomi a guardarti dal basso in alto.» Si alzò in piedi. «Perché sei stato così villano con Grover?»
«Io?»
«Certo. Tu!» ribatté con voce petulante. «Solo pochi minuti prima mi avevi detto che avresti cercato di avere della simpatia per lui, e poi, la prima cosa che hai fatto è stata di insultarlo.»
«Che cosa ho detto, infine?»
«Certo non so di che parlassi. A me è sembrato qualcosa di interamente privo di significato e puerile. Mi chiedo se ti sia reso conto della situazione oltremodo imbarazzante in cui mi hai messo.»
«Mi dispiace, zia Susan.»
«Ne ero certa» si affrettò a dire, mettendomi una mano sulla spalla. «Sei sempre com’eri da ragazzo, Richard. Senza pensare combini dei guai, poi ti riempi di rimorso tanto da non riuscire nemmeno a guardare gli altri negli occhi.»
«Ho detto che mi dispiaceva di averti messo in imbarazzo» la delusi con altrettanta prontezza. «Non di avergli detto quel che ho detto, fino a che non abbia la prova di aver sbagliato. E potrei dire di peggio, se lo credessi necessario.»
L’espressione del viso le si indurì. «Di tutto ciò ne faccio colpa ad Hertha. È stata lei che ti ha messo su contro Grover, prima ancora che tu lo vedessi.»
«Non è vero» protestai, facendo scorrere l’alluce su una fessura del pavimento, come uno scolaretto imbarazzato.
«È proprio così, invece. A voi non piace perché io voglio sposarlo; è tutto.» Si portò le mani sulla fronte e si drizzò su se stessa. «Vorrei che tu ed Hertha foste abbastanza piccoli da esser presi a sculaccioni. Non siete altro che dei ragazzacci, impertinenti, ostinati e ficcanaso.»
Eravamo faccia a faccia e zia Susan stava aspettando che dicessi qualche cosa. Io, però, non riuscivo a trovare le parole. Dopo tutto, il fatto che avessi visto Grover Kahle e Willie Arnold in conversazione apparentemente confidenziale, poteva non significare nulla. Durante la mia carriera di cronista di nera, anch’io avevo avuto occasione di parlare con gangster e loro scherani; e Howard Stritt Train, anche lui, nella sede del partito a Elmton era solito incontrarsi con dei tipacci. In ogni modo, sapevo che qualsiasi cosa dicessi a zia Susan su Kahle sarebbe stata considerata come un gesto sleale e una sciocchezza.
«Va bene, zia Susan» conclusi. «Farò del mio meglio per essere cordiale con lui.»
«E gli farai le tue scuse?» chiese con il volto che le si illuminava.
«No.»
«Dato il tuo umore attuale» osservò sospirando «immagino che sia il massimo che ci si può aspettare.»
«Temo di sì.»
«Capisco, Richard…» scosse il capo e riprese: «Sarai carino con lui?»
«Cordiale.»
«Grazie per l’immenso favore» disse ancora, piccata; e se ne andò.
Roscoe e Nadine Lucas con Blythe Amster stavano dando una mano a Zachary per spingere in acqua la barca a remi. Presi una scorciatoia che portava alla riva del lago attraverso le betulle e le querce, in mezzo alla sterpaglia quanto mai fastidiosa per le piante dei miei piedi nudi, ed entrai in acqua. Mi diressi al largo, senza risparmiare le forze, dimentico del fatto che, spesso, ero stato il primo a sollevare un can-can quando qualcuno si avventurava a nuoto sul lago senza farsi accompagnare da una barca.
Quando raggiunsi la riva opposta, paludosa e piena di vegetazione, ero agli sgoccioli di forze e fiato. Sguazzai tra le foglie di ninfea e il fango, poi mi issai sul tronco di un grosso acero morto, le cui radici erano state corro-se dall’acqua e che era caduto nel lago.
A un miglio di distanza c’erano quattro o cinque persone sul molo e sul galleggiante, e forse un paio d’altre in acqua. La barca era in mezzo al lago e si muoveva nella mia direzione. C’era una sola persona a bordo. Quando giunse a un centinaio di metri riconobbi Blythe Amster e le feci un cenno di saluto.
Ebbe il suo bel daffare a pilotare la barca attraverso le ninfee, con i remi che si impigliavano nelle radici, ma alla fine riuscì ad arrivare accanto al-l’albero. Mi issai sulla barca da poppa.
«Non nuotate?» chiesi, mentre lei era di nuovo alle prese con le ninfee.
«Neanche un metro. Detesto stare nell’acqua, mentre mi piace molto starci alla superficie.» Smise di remare e mi guardò. «Ieri sera, dovete aver pensato di me che ero terribilmente sciocca.»
Sorrisi.
«In realtà era di Kit che avevo paura, non di voi. Ero certa che mi avrebbe seguita nel giro di pochi minuti per… be’…»
«Per metterci una pezza?»
«Sì» rispose, riprendendo a remare. «E con voi nell’acqua in quella tenuta e io senza scarpe né calze, chissà che cosa avrebbe pensato.»
«Bravo ragazzo.»
«È malato nel cervello. Pensavo un sacco di bene di lui, prima, ma ora ho capito che sbagliavo» convenne recisamente, tendendo in avanti la sua piccola mascella. «Non ho nessuna voglia di subire ancora la sua pazza gelosia. Sapete perché abbiamo litigato ieri sera? Oh, posso dirvelo, dato che voi… avete sentito quasi tutto. Era geloso perché, tornando dal cinema, prima, mi ero seduta sulle ginocchia del signor Kahle. In principio eravamo in cinque sulla macchina di Kit; poi, dopo lo spettacolo, incontrammo una coppia di conoscenti di Hertha, che erano rimasti separati dal loro branco. Non avevano automobile ed Hertha ha detto che potevano salire con noi. Io ero la più leggera e così ho detto che potevo sedermi sulle ginocchia di qualcuno. Non poteva essere Kit, questo, perché lui guidava.
Per un caso, era il signor Kahle. Ecco tutto.»
Chinò il capo e si dedicò ai suoi remi. Mi imbarazzano e mi annoiano le ragazze che mi confidano le loro pene d’amore. Le ragazze di questo tipo mi fanno l’effetto di lasciar deliberatamente aperta la porta della loro camera perché ci si sbirci dentro mentre si spogliano.
«Volete dire che il vostro ragazzo si è arrabbiato solo perché vi siete seduta sulle ginocchia di un altro uomo?»
«Non è più, comunque, il mio ragazzo» ribatté con veemenza. «Ne ho abbastanza di lui.»
«Voglio dire, Grover Kahle vi aveva dedicato le sue attenzioni, prima?»
«Capisco» ribatté, alzando di scatto la testa. «State cercando dì scoprire se il signor Kahle sia stato infedele, a vostra zia.»
«Per carità» mentii. «Avete cominciato voi a raccontarmi questa storia.
Non sono stato io a chiedervela. Ora, però, comincia a interessarmi.»
«Perché?»
«Perché mi interessate voi. Mi sembra che siate una ragazza piuttosto at-traente.»
Per la verità, questa non era del tutto una bugia. In fondo io avevo tempo a disposizione e lei era abbastanza gradevole per aiutarmi a passarlo.
Blythe mi rivolse un lungo sorriso provocante. «Se volete saperlo, Kit non aveva la più piccola ragione per essere geloso. Non sono il tipo, io. Il fatto è che ieri pomeriggio, il signor Kahle mi ha portato in barca, e che ci siamo fermati assieme sulla spiaggia a raccogliere fiori e ribes. Il signor Kahle, come sempre, si è comportato da perfetto gentiluomo. Non può certo preoccuparsi di me la signora Train, e non capisco proprio perché Kit si sia comportato in quel modo selvaggio. Non siamo in Arabia, dopo tutto, dove non si permette che una donna si azzardi anche solo a parlare con un uomo che non è suo marito.»
«Certo. Volete che remi io?»
«Grazie, ma mi piace remare.»
Seguì un lungo silenzio. Non aveva né scarpe né calze e le sue gambe erano snelle e morbide. D’un tratto, mi ricordai di una cosa che aveva detto.
«Che ora era quando siete tornati a casa dal cinema?»
«Mezzanotte, circa.»
Allora, perché Kahle era ritornato a Birch Manor, quando il “Goldie’s Haven” si trovava a poca distanza dal cinema? Forse era voluto andare a prendere la sua macchina per tornare laggiù; ma tornare a casa in tassì sarebbe stato meno scomodo. E poi, perché non aveva usato la sua automobile per andare al cinema, se sapeva di dover andare al “Goldie’s Haven”?
«Sapete se Kahle abbia ricevuto una telefonata, quando è tornato dal cinema?»
«Sì, perché?» rispose, dopo un attimo di riflessione. «La cameriera lo stava aspettando nel portico e gli ha detto che qualcuno aveva telefonato e gli aveva lasciato un numero per richiamarlo.»
Immersi una mano nell’acqua. Willie Arnold, allora, aveva telefonato a Grover Kahle per dirgli di raggiungerlo e lui si era ficcato nella sua auto da turismo e aveva obbedito.
«Perché mi fate queste domande?» chiese Blythe.
«Cosi, non fateci caso» risposi e cercai di cambiar discorso. «Buffa cosa, la gelosia. In un certo senso, mi dispiace per il ragazzo…»
Abboccò all’amo. E quando arrivammo al molo, aveva fatto a pezzettini Kit Sheehan.
Era così invelenita che ne trassi la conclusione certa che ne fosse ancora innamorata.
A colazione, Monty Wilson si alzò in piedi. Sollecitò l’attenzione degli altri, battendo sul tavolo con la forchetta e fece un discorsetto. Citò Patrick Henry, Giorgio III e John Adams, concludendo con l’annuncio che, subito dopo colazione, si sarebbe messo alla testa di una spedizione sino a Elmton, per comperare fuochi artificiali da accendere per la gloria imperitura della Rivoluzione. Conoscendo lo stato delle sue finanze, proposi che tutti ci sottoscrivessimo per l’acquisto, ma l’orgoglio ferito di Monty si manifestò così chiaramente sul suo viso che mi affrettai a lasciar cadere la propo-sta.
Prima del discorso di Monty, il pranzo si era svolto in un clima uggioso.
Qualcuno avrebbe potuto dire a Kit Sheehan che il cibo sul suo piatto era fatto per essere mangiato, dal momento che quello, troppo occupato a non perdere d’occhio Blythe e me, non sembrava ricordarsi di avere uno stomaco. Blythe starnazzava vicino a me, cinguettando e sorridendo piena di ci-vetteria. Si comportava come una ragazza lunatica che avesse eliminato tutti i ritegni e le inibizioni: e tutto questo, evidentemente, era solo un diabolico piano per far uscire dai gangheri il suo ragazzo.
Grover Kahle si era fatto un punto d’onore di non guardare nella mia direzione. Mangiò in dignitoso silenzio, spiccicando qualche parola, solo quando qualcuno si rivolgeva direttamente a lui. Ogni tanto, zia Susan vol-tava il viso verso di me con un’espressione più triste che adirata. Hertha sembrava un pezzo di ghiaccio e Eliot Hacker doveva evidentemente essere rimasto intirizzito dalla sua vicinanza. Roscoe Lucas, agghindato come un figurino, costituiva la nota mondana della compagnia; tuttavia sembrava che qualche cosa lo avesse morso. Sua moglie masticava i bocconi co-me se il cibo non avesse alcun sapore.
Bella e simpatica comitiva, non c’è che dire. La sola che sembrasse quasi contenta di vivere era Flo Gilbert. Monty si dava da fare in misteriose conversazioni nel bell’orecchio sinistro di lei, facendola scoppiare in risatine frenetiche; ma io ero certo che il mio amico stava soltanto cercando di nascondere il cuore che sanguinava.
Pochi minuti dopo il discorso di Monty. Olive si avvicinò alla mia sedia e mi bisbigliò che ero chiamato al telefono. Mi scusai e andai nella biblioteca.
«Rick?» risuonò una voce dall’altra parte del filo.
«Sì.»
«Qui è Goldie.»
Mi appoggiai con la parte posteriore delle cosce alla scrivania.
«Ascolta, Rick. Tu conosci quello che hai visto ieri sera nel mio locale?»
«Grover Kahle?»
«No. L’altro. Quello che era con lui. Ascolta, So che hai fatto il giornalista, e forse pensi di cavare qualche cosa a scrivere quello che hai visto. Be-
‘, non farlo.»
«È per questo che mi hai chiamato?»
«Si. Per questo. Tu è tanto che vieni allo “Haven”, Rick. Non mi piacerebbe che ti capitasse qualche cosa. Sei abbastanza cresciuto, credo. E do-vresti saper riconoscere la dinamite, quando te la vedi davanti.»
«È piuttosto imprudente, quel signore.»
«È quello che gli ho detto anch’io. Ma tu lo conosci. Se ne stava nascosto nel séparé e non pensava di trovare qualcuno che lo conoscesse.»
«Perché non me lo hai detto, ieri sera?»
«Non ci ho pensato.»
«Storie. Il fatto è che Kahle ha telefonato a Willie…»
«Non far nomi» mi interruppe Goldie.
«Ah, si. Dunque, Kahle gli ha telefonato per dirgli di telefonarmi di starmene tranquillo. Kahle crede che stia per sollevare un putiferio perché sono arrabbiato.»
«Ricordati quello che ti ho detto della dinamite.»
«Non ho nessuna intenzione di dar fastidio a Wi… a chiunque bazzica il tuo locale. Comunque, che cos’è Kahle per lui? Perché Kahle si è preoccupato di avvertirlo?»
«Chi ti ha detto che lo abbia fatto?»
«Sono io a dirlo.»
«Be’, se lo ha fatto è perché stai per diventare suo nipote. E naturalmente non vuole che ti sia fatto del male.»
«Che cos’è Kahle per lui?» insistetti.
«Chiedilo a lui. So che sei un ragazzo intelligente, Rick. E che non vuoi metterti nei guai.»
«Digli che non deve temer niente da parte mia.»
«Lo divertirebbe, la cosa» fece Goldie, ridacchiando. «Lui aver paura di te! Per quello è abbastanza corazzato. Il fatto è che qui si trova bene e che non ha voglia di cambiar aria. Ne sai abbastanza, comunque, per far in modo che non si arrabbi con te.»
«Non ce n’è ragione.»
«Bene. Arrivederci, allora.»
Deposi il ricevitore, girai attorno alla scrivania e mi sedetti nella poltrona di cuoio che era stata proprietà riservata di Howard Stritt Train, durante tutta la sua vita. Poi ripresi il telefono e chiamai New York.
Era festa e i giornali della sera non uscivano; la redazione del “Courier-Express” era deserta. Provai con il Post ‘, ma non ebbi più fortuna. Mentre stavo facendo un terzo tentativo, entrò Hertha.
«Sei occupato?» chiese, chiudendo la porta dietro di sé.
«Posso aspettare.»
«Non sono riuscita e vederti per tutta la mattina. Immagino che tu abbia fatto la conoscenza con Grover Kahle.»
«Sì. E sono stato anche villano con lui. Poi zia Susan è venuta da me e, per una delle poche volte in vita mia, sono stato villano anche con lei.»
«Capisco quello che provi» disse la ragazza, scrollando il capo, piena di disappunto. «È successo anche a me, prima. Accidenti, questi malintesi tra mia madre e me! Che cosa dobbiamo fare?»
«Non lo so bene neanch’io. Potrebbe essere peggio di quello che pensavo. Sto cercando di sapere qualche cosa su di lui per telefono.»
«Spero che tu riesca a scovare qualcosa da qualche parte» rispose, avvicinandosi alla scrivania.
Mi tirai indietro sulla poltrona. «Veramente, preferirei farlo da solo.»
«E perché non posso sentire io?» protestò, aggrottando la fronte.
«Ti prometto di dirti ogni cosa, appena avrò informazioni sicure.»
«Va bene, caro.» E se ne andò con la fronte corrugata.
Mi attaccai al telefono e chiamai Marvin Gropher, redattore finanziario del “Register”.
«Oh, Rick» esclamò. «Quando sei approdato in città? Si fa qualcosa assieme, questa sera? Mabel e io si pensava che…»
«Lascia perdere» lo interruppi. «Sono fuori. Senti Marv, non è il tuo campo, lo so, ma vorrei far le pulci a un tale. Hai sentito parlare di un certo avvocato Grover Kahle?»
«Carl?»
«K-a-h-l-e» sillabai.
«Vediamo un po’. No. Sai quanti avvocati ci sono in questa città?»
«Lascia stare le statistiche. Questo tale dev’essere un pezzo grosso. Dovrebbe esserci qualcosa nel vostro archivio. E poi, giacché ci sei, guarda anche sotto Willie Arnold.»
«Arnold? Vuoi dire quel gentiluomo che è scomparso quando hanno tirato fuori dall’Hudson un paio di cadaveri?»
«Esatto.»
«Che cosa stai facendo, Rick? Si direbbe che sei al lavoro. Un servizio speciale?»
«In esclusiva, direi. Molto in esclusiva. Tirami fuori tutto quello che puoi su Grover Kahle, e specialmente sui suoi legami con Willie Arnold.
Se è possibile, pesca fuori qualcuno della polizia e fatti dire tutto quello che ne possono sapere. Mi fai un grosso piacere, Marv. Chiamami a Elmton 419. Se non mi trovi, lascia detto dove posso chiamarti.»
«Sei un negriero, peggio del mio capo. Va bene, Rick. Avrai quello che chiedi.»
«Grazie, Marv.»
Hertha mi stava aspettando sulla porta. «Niente ancora» le dissi, e tor-nammo in sala da pranzo.
Terminata la colazione si mise in moto la spedizione per l’acquisto dei fuochi di artificio. Hertha ed Eliot vi parteciparono senza entusiasmo. Zia Susan si ricordò di dover andare a far delle compere. Io ero essenziale perché in gioventù avevo imparato la tecnica per farmi dare per vie traverse i fuochi artificiali, la cui vendita era vietata nella contea di Hale, e Blythe mi si appiccicò addosso. Colsi a volo la risposta di Flo Gilbert all’invito insistente di Monty: non veniva, aveva un terribile mal di capo e preferiva cercare dì farselo passare con una dormitina. Grover Kahle ci accompagnò so-lo sino alla macchina e poi annunciò che preferiva restare a finir di leggersi il suo giornale. Kit Sheehan rimase in corrucciata esitazione; quando poi Blythe si sedette accanto a me (io ero al volante), si allontanò a grandi e sdegnati passi verso la rimessa delle barche.
Ci bastò arrivare ad Elmton, per concordare che l’avventura era stata una sciocchezza, con quel caldo. Gli altri entrarono in un bar a prendersi delle bevande fresche mentre io e Monty ci occupavamo dei fuochi.
Nella lavanderia a secco di Joe Corsi, che cinquantun settimane all’anno si occupava di smacchiare abiti, incontrammo lo sceriffo Micha Peltz. Aveva un torso enorme su due gambe tozze, e una testa piccina che spingeva sempre bellicosamente in avanti. Solo a dire il suo nome si otteneva di far andare in bestia mio zio, perché Peltz, attivo membro del partito opposto al suo, era stato il primo a rompere la catena dei controlli locali repubblicani.
Lo sceriffo sembrò imbarazzato; lo avevamo colto con le mani nel sacco. Ci fece un vago cenno di saluto e si immerse nella lettura di un annuncio che esaltava i metodi superiori della tintoria di Corsi. Quest’ultimo, intanto, comparve da dietro una tenda con un grosso pacco. Mi gettò un’occhiata spaventata e lasciò cadere il pacco dietro il banco.
«Non fatevi impressionare dalla mia presenza» intervenni. «Il tributo è uno dei diritti tradizionali degli sceriffi.»
Peltz si voltò di scatto verso di me. «Fatevi i fatti vostri, giovanotto. Avete la stessa lingua velenosa di vostro zio, voi.»
«Eh, non prendetevela tanto sul tragico. Stavo solo cercando di farvi sentire a vostro agio mentre vi portate via il bottino.»
Da come mi guardò si poteva capire che si sarebbe sentito più giovane di vent’anni, se avesse potuto farmi saltare addosso tutto il suo pacco di fuochi d’artificio. Raccolse l’involto e se ne andò. Monty si mise a ridere.
Joe Corsi scosse il capo di malumore. «Mi mettete nei guai, voi, signor Train. Per voi è facile prenderlo in giro, ma io devo fare qui i miei affari.»
«Non badateci. Quello vi lascerà in pace, sino a quando non lo accusere-te di qualche cosa» lo rassicurai. «E ora veniamo agli affari.»
Monty lasciò correre il suo entusiasmo nel far le ordinazioni: con tutto quello che chiese avremmo potuto farci una rivoluzione privata. Io cercai di pagare, ma il suo sdegno me lo impedì. Ramazzò dalle tasche tutto quello che trovò e riempì il banco con biglietti, monete e monetine. Anche co-si, però, era sotto di diciotto cents che finì per accettare da me, sia pure con molta riluttanza.
Sistemammo i pacchi nel baule della macchina e ci andammo a scolare un paio di birre alla nostra salute; poi passammo a ricuperare gli altri al bar dove si erano fermati, e tutti assieme prendemmo la via del ritorno. Sulla strada incrociammo una splendente auto da turismo, al volante della quale c’era proprio il tipo di bionda da capogiro che, secondo la pubblicità, dovrebbe essere connaturale a quel tipo di macchina. In questo caso, però, la bionda era Flo Gilbert. Dovette riconoscerci, e bene anche, perché si affrettò a voltare il viso dall’altra parte.
«Ma quella è la macchina di Grover» osservò zia Susan. «Evidentemente gliel’ha prestata.»
Sullo specchietto retrovisore vidi Monty sorridere un po’ piccato. «Sembra che si sia ripresa presto dal suo mal di capo» notò. «Chissà dove sta andando.»
Quando rientrammo a casa, accadde quello che più o meno ci saremmo dovuti aspettare sin dal mattino. Kit Sheehan aveva raggiunto il calor bianco. Se ne stava in piedi davanti alla porta, in attesa che entrassimo. La sua testa rossa era in tumulto, con un ciuffo che gli penzolava sulla fronte, dandogli un aspetto selvaggio. Quando vide la mano di Blythe appoggiata al mio braccio, divenne addirittura furioso.
Si trattava di un gesto del tutto naturale e innocente, ma per Kit, che stravedeva ogni volta che un uomo era vicino a lei, era la prova certa di essere becco. Aspettò che ci fossimo avvicinati. Poi lanciò un aspro suono gutturale e si scagliò contro di me.
Avrebbe potuto essere un bello scontro. Lui era una ventina di libbre più pesante di me, mentre io avevo il vantaggio dell’allungo e della maggior velocità. In realtà, il combattimento non cominciò neppure. Lui, invece che col pugno, veniva avanti con il petto, tenendolo aperto come una porta.
Blythe gettò un grido e si lasciò cadere per terra, a sedere, lontano da me.
Lo presi al diaframma: fece un passo indietro, mezzo soffocato, poi ritornò all’assalto.
Questa volta non riuscì nemmeno ad avvicinarsi a me. Monty gli si. era gettato alle spalle e lo aveva afferrato con un braccio intorno al collo. Kit arraffò l’aria con le mani, ma c’erano pochi uomini capaci di liberarsi dalla
“cravatta” di Monty. Eliot, poi, si mise tra noi e zia Susan si avvicinò a Kit.
La sua mano sulla spalla di lui ebbe un effetto miracoloso. Chinò il mento sul petto, respirando a fondo, con un mezzo singhiozzo.
Blythe si teneva la gola con le mani. Poteva essere soddisfatta; era riuscita a portarci all’esasperazione.
Hertha mi spinse alle spalle. «Vieni a casa.»
«Preferisco rimanere qui.»
«Non è il momento di far gli eroi, andiamo.»
La spinta di Hertha era vigorosa. Dovetti adattarmi a far quello che voleva per non mettermi a lottare con lei. Sul portico mi voltai e vidi che Monty aveva lasciato la presa. Kit stava respirando a fatica. «Mi spiace, signora Train» disse. «Avevo perduto la testa.» Si rassettò la camicia e, senza degnare Blythe di uno sguardo, svoltò l’angolo della casa.
In biblioteca, trovai sull’agenda un’annotazione scarabocchiata da Olive.
Dovevo chiamare il “Register”. Herta mi aveva seguito.
«L’informazione che attendevi» chiese.
«Spero di sì . »
Mi rispose Marvin Gropher, quando formai il numero. «È un pezzo grosso, Rick. Lo avresti già conosciuto se non. fossi stato lontano tanto a lungo dalla città. Questo Grover Kahle è l’avvocato di Willie Arnold. E anche più del suo avvocato. Ecco i particolari.»
Rimasi in ascolto, senza interromperlo, se non con qualche: «Sei sicuro?» o «Davvero hai trovato questo?»
Hertha era in piedi accanto a me e mi stava studiando. Mentre ascoltavo, mi mordevo il labbro come se fosse un chewing-gum.