Appendici

 

 

1.

 

 

Sul funzionamento della Corte costituzionale[1]

 

 

1. Elementi per una valutazione della situazione della Corte

 

 

Per valutare la situazione attuale della Corte costituzionale occorre considerare: la domanda di giustizia costituzionale; l’offerta di giustizia; l’attività di altri organi che soddisfano le esigenze per le quali la Corte è chiamata ad operare.

 

Gli elementi per una valutazione che seguono, sono prevalentemente quantitativi e necessariamente limitati.

 

 

1.1. Gli atti di promovimento

 

 

Per valutare la domanda di giustizia vanno considerati gli aspetti quantitativi e qualitativi degli atti di promovimento: quanti sono, da quali giudici o altri soggetti provengono, quali profili costituzionali e quali materie riguardano.

 

Gli atti introduttivi dei vari tipi di giudizi pendenti al 31 dicembre 2007 sono 783.

 

Con riferimento al giudizio incidentale, gli atti di promovimento provengono per la maggior parte da giudici professionisti.

 

All’interno della «provvista» della Corte si osserva, rispetto all’anno 2006, una inversione di tendenza delle proporzioni tra giudizi in via incidentale e giudizi in via principale. Si è dimezzato, pur rimanendo alto, il numero dei ricorsi proposti in via principale, a fronte di un aumento del numero delle ordinanze di rimessione, soprattutto in materia penale. Come già nel 2006, anche nel 2007 considerevole è stato il numero delle questioni sollevate in relazione alla disciplina recata dalla legge n. 46 del 2006 in tema di inappellabilità delle sentenze di proscioglimento e in relazione alla legge n. 251 del 2005 in materia di circostanze del reato e di prescrizione. Le questioni relative a tali leggi sono state in gran parte decise. Tuttavia non tutti i seguiti di tali questioni sono stati già definiti con un provvedimento della Corte.

 

Dall’analisi degli atti di promovimento dell’anno 2007 risulta che le materie nelle quali si registra una percentuale maggiore del 5% sono: circolazione stradale, processo civile, processo penale, reati e pene, straniero, previdenza e assistenza e giustizia amministrativa.

 

Per quanto riguarda l’anno in corso, al marzo 2008, su 63 ordinanze iscritte nel registro 2008, il 39,6% concerne questioni in materia penale e procedura penale, il 26,9% in amministrativo e pubblico generale, il 17,4% in civile e procedura civile, il 9,5% in tributario e il 3,1% nella materia del lavoro e della previdenza.

 

I ricorsi introduttivi del giudizio in via principale, al marzo 2008, sono 20; nello stesso mese nel 2007 erano stati depositati 15 ricorsi. Dei 20 ricorsi 2008, 17 provengono dal governo; con 2 dei 3 ricorsi di provenienza regionale viene impugnata la legge finanziaria 2007.

 

 

1.2. Le decisioni della Corte

 

 

Per valutare l’offerta di giustizia vanno considerati gli aspetti quantitativi e qualitativi delle decisioni della Corte: quante sono le decisioni, quante le ordinanze rispetto alle sentenze, quali tempi ha la giustizia costituzionale, come viene utilizzato lo strumento del controllo sull’ammissibilità.

 

L’andamento delle decisioni emesse dalla Corte è stabile. Può comunque osservarsi che la percentuale delle decisioni adottate dalla Corte in forma di sentenza è andata gradualmente diminuendo negli anni 1998-2002 rispetto a quelle degli anni 1991-97 («anni di smaltimento dell’arretrato»). Tuttavia, negli ultimi tre anni (2005-07) si riscontra una leggera inversione di tendenza. Rispetto agli anni 2004-06, la Corte nel 2007 ha reso più sentenze nei giudizi in via incidentale che in quelli in via principale.

 

A fronte di un incremento dei giudizi in via incidentale – nel 2007 le pronunce rese in tali giudizi sono il 68,75% del totale (da una media annua dell’83% circa del totale delle pronunce nel periodo 1983-2002 si è passati ad una del 64% circa nel periodo 2003-06) – si registra un decremento del numero delle decisioni relative ai giudizi in via principale: nel 2007 le decisioni rese nel giudizio in via principale sono state il 16,38% del totale. Nel 2005 la media annua è stata del 21% e nel 2006 del 24,41%. I valori sono comunque più alti rispetto a quelli constatati prima della riforma del 2001 (la media annua nel periodo 1983-2002 era del 7% circa).

 

I tempi delle decisioni variano a seconda del tipo di giudizio. Nell’anno 2006, per quelli incidentali, il tempo di decisione è stato di un anno circa; per i giudizi in via principale, i tempi di decisione sono di un anno e tre mesi circa; per i conflitti tra enti sono di due anni circa e per i conflitti tra poteri di due anni circa. Nell’anno 2007, per quelli incidentali è stato di circa nove mesi; per i giudizi in via principale il tempo di decisione è stato di circa un anno; per i conflitti tra enti e per i conflitti tra poteri è stato poco meno di un anno e mezzo.

 

Come nel 2006, nell’anno 2007 la maggior parte delle decisioni rese dalla Corte con ordinanza sono pronunce processuali di manifesta inammissibilità per vizi dell’ordinanza di rimessione, difetto di rilevanza, difetto di pregiudizialità ecc. Oltre a queste, numerose sono quelle di restituzione atti.

 

 

1.3. Il ruolo delle Corti europee

 

 

Nell’ultimo decennio, la Corte di giustizia e la Corte dei diritti dell’uomo hanno sottratto terreno ai giudici costituzionali degli Stati membri dell’Unione europea e aderenti alla Cedu.

 

La Corte di Lussemburgo ha affermato che il Trattato rappresenta il documento costituzionale di una comunità di diritto e tale affermazione, all’indomani dell’approvazione della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, potrebbe costituire l’inizio di una graduale erosione della giurisdizione delle Corti costituzionali nazionali sulle questioni concernenti i diritti fondamentali «europeizzati».

 

È proprio il meccanismo del giudizio che si svolge davanti alla Corte di Strasburgo che consente a questa un ampio raggio di azione. Essa accerta e dichiara l’esistenza di violazioni dei diritti dei singoli, riconosciuti e garantiti dalla Convenzione europea. In tale ambito, la gamma delle violazioni può essere amplissima e può derivare sia da comportamenti materiali, sia da provvedimenti amministrativi, sia da atti legislativi, persino di rango costituzionale, sia, infine, da sentenze costituzionali (ad esempio, caso Ielo in tema di guarentigia parlamentare dell’insindacabilità, gli innumerevoli casi connessi all’irragionevole durata dei processi ecc.).

 

 

2. Le prospettive

 

 

2.1. Le linee di intervento e i loro limiti

 

 

La situazione descritta può essere migliorata con interventi riguardanti: l’attività giurisdizionale; l’organizzazione e il funzionamento della Corte; la riaffermazione del ruolo della Corte attraverso iniziative esterne.

 

Tali interventi hanno limiti intrinseci, che derivano dal modo in cui si accede alla Corte e dalla sua stessa natura di organo di giurisdizione costituzionale.

 

 

2.2. Interventi sull’attività giurisdizionale

 

 

La letteratura sulla giustizia è concorde nell’affermare che è l’offerta di giustizia che determina la domanda.

 

Se questo è vero, si potrebbe pensare a diversi interventi incidenti: sugli atti di promovimento dei giudizi dinanzi alla Corte; sulla gestione del ruolo; sullo svolgimento dell’udienza; sulla fase istruttoria delle decisioni; sulla redazione delle decisioni.

 

 

2.2.1. Sugli atti di promovimento dei giudizi dinanzi alla Corte

 

 

Occorre, innanzitutto, migliorare la qualità degli atti di promovimento, in modo da ridurre le pronunce di rito. Poi, bisogna che la Corte possa concentrarsi sulle questioni di maggior rilievo.

 

Il primo obiettivo potrebbe essere raggiunto mediante interventi di «formazione» dei soggetti remittenti, con modalità diverse a seconda che si tratti di giudici o autorità pubbliche.

 

Al secondo obiettivo, relativo alla domanda di giustizia costituzionale, potrebbe provvedersi mediante periodiche informazioni alla stampa del presidente, che mettano in luce ciò che le sentenze adottate dalla Corte implicano («funzione pedagogica»).

 

 

2.2.2. Sulla gestione del ruolo

 

 

L’obiettivo degli interventi sulla gestione del ruolo è di accelerare ulteriormente la risposta del giudice costituzionale – anche in considerazione della circostanza che il tempo impiegato per la risoluzione dell’incidente di costituzionalità è computato ai fini del giudizio di ragionevolezza della durata complessiva del processo, richiesto dall’art. 2 della legge n. 89 del 2001, cosiddetta «legge Pinto» – intervenendo tempestivamente sulle materie più importanti.

 

A questi fini si potrebbe: prevedere un percorso diverso nell’istruzione delle questioni, a seconda della prognosi del loro esito; in particolare, istituire un percorso differenziato per le ammissibilità dei conflitti tra poteri e per la fase di merito degli stessi non correttamente incardinata; prevedere camere di consiglio specifiche per le questioni prospettate con atti che presentino evidenti lacune e per le restituzioni atti per ius superveniens e per le questioni già dichiarate manifestamente infondate.

 

In tal modo si potrebbe dare maggiore priorità temporale nelle udienze e nelle camere di consiglio «ordinarie» alle questioni di rilievo, intrinseco ed estrinseco.

 

Tali interventi presuppongono una tempestiva conoscenza delle questioni pervenute alla Corte.

 

 

2.2.3. Sullo svolgimento dell’udienza

 

 

Dato il sovraccarico delle udienze, si propone una riduzione del numero delle questioni fissate in udienza.

 

Un effetto benefico deriva dalla delibazione preliminare di possibile manifesta inammissibilità-infondatezza, con conseguente fissazione della trattazione in Camera di consiglio.

 

Inoltre, si potrebbero esaminare in Camera di consiglio i ricorsi in via principale e i conflitti tra enti, in caso di mancata costituzione della parte, eventualmente con modifica delle norme integrative.

 

Si potrebbe, altresì, valutare la possibilità di modificare le norme integrative, con l’obiettivo di subordinare lo svolgimento dell’udienza alla richiesta di discussione orale proveniente dalle parti (parte privata nel giudizio incidentale; parte pubblica costituita nel giudizio principale e nel conflitto tra enti), fermo restando il potere del presidente di disporre la trattazione in Camera di consiglio in caso di valutazione di manifesta inammissibilità e infondatezza pur in presenza di richiesta di trattazione in udienza.

 

Ulteriore ipotesi è quella del ricorso a Camera di consiglio partecipata, con possibilità per le parti di depositare memorie scritte.

 

Per ridurre i tempi dell’udienza, la relazione del giudice potrebbe essere limitata all’esposizione delle questioni; la discussione – a richiesta del presidente e/o del relatore – potrebbe essere orientata solo sui punti essenziali (in applicazione dell’art. 17 delle norme integrative).

 

 

2.2.4. Sulla fase istruttoria delle decisioni

 

 

L’obiettivo è ottenere ricerche essenziali, ma complete e tempestive.

 

A tal fine occorre, anzitutto, «indicizzare» le ricerche onde consentire il rinvio a ricerche già effettuate; in secondo luogo, disporre di più tempestivi strumenti d’informazione, sia da parte del Servizio studi sia della biblioteca.

 

Si potrebbe, inoltre, fare ricorso a comitati di istruzione (composti da assistenti dei relatori interessati) per questioni «trasversali» nuove. Tali comitati dovrebbero predisporre la ricerca e il relativo appunto ricognitivo.

 

Per accelerare la consegna delle ricerche, sarebbe opportuno affidare al Centro Stampa i controlli di editing che attualmente impegnano le segreterie.

 

 

2.2.5. Sulla redazione delle decisioni

 

 

Per migliorare la redazione delle decisioni si possono considerare i seguenti interventi: semplificare la redazione delle sentenze e delle ordinanze, eliminando il «fattino» e redigendo motivazioni essenziali; stabilire un equilibrio tra fatto e diritto; facilitare la lettura delle sentenze più complesse attraverso una struttura della motivazione fondata sull’ordine logico della decisione e rispettare tale ordine nei diversi capi del dispositivo; accelerare la fase del deposito, riportando la decisione al redattore con le correzioni di drafting una sola volta e coordinando, quindi, segreteria del presidente e ufficio incaricato del drafting.

 

 

2.3. Interventi sull’organizzazione e sul funzionamento

 

 

Per una più efficace risposta della Corte alla domanda di giustizia è importante la razionalizzazione delle funzioni già svolte dal Servizio studi, dal Sigico, dalla biblioteca.

 

Quanto al primo, si possono considerare: la creazione di un raccordo stabile con il presidente e/o con giudici designati; la previsione di un programma di attività, da aggiornare periodicamente, anche con riferimento alla sezione di diritto comparato; la definizione di standard di richieste che gli assistenti possono fare al Servizio; l’implementazione di funzioni stabili.

 

Il funzionamento del Sigico potrebbe essere migliorato mediante il perfezionamento del sistema operativo e l’aumento delle funzionalità.

 

Biblioteca: è necessario un potenziamento del servizio, anche mediante l’aumento degli stanziamenti. Potrebbero essere utili: la costituzione di un centro di documentazione; l’istituzione della figura del «documentarista»; l’accelerazione del processo di catalogazione di alcuni fondi; la modifica del procedimento per la selezione dei libri da ordinare, anche al fine di accelerarne i tempi; una maggiore conoscibilità delle nuove acquisizioni.

 

Potrebbe valutarsi la possibilità di reintrodurre, nell’ambito del Servizio studi, l’ufficio per la ricognizione e l’analisi delle conseguenze finanziarie delle sentenze.

 

 

2.4. Ruolo della Corte e iniziative esterne

 

 

Occorre: continuare ad organizzare seminari annuali; continuare l’iniziativa, avviata dal presidente Onida, per costituire un «rapporto di cooperazione» tra le Corti costituzionali nazionali e quelle europee.

 

 

* * *

 

 

[1] Documento interno, non pubblicato (2008).

 

 

2.

 

 

Lezione sulla cosiddetta «opinione dissenziente»[1]

 

 

1. Incertezze terminologiche e concettuali

 

 

Sull’opinione dissenziente, si potrebbe parafrasare un’osservazione del grande archeologo Bianchi Bandinelli relativa all’ara di Domizio Enobarbo: certamente non era di Domizio Enobarbo e quasi sicuramente non era un’ara. Ciò che chiamiamo «opinione dissenziente» certamente non è una opinione e non sempre è dissenziente.

 

Opinion, in inglese, ha due significati, a seconda se essa venga attribuita ad un soggetto privato (in questo caso, legal opinion è il parere legale di un privato), oppure a una Corte (in questo caso, si indica un giudizio o la motivazione di un giudizio, quindi non una opinione).

 

In secondo luogo, con «opinione dissenziente» si riassumono diverse ipotesi: il dissenso può essere sulla motivazione o sulla decisione; può riguardare tutta la motivazione o decisione, oppure essere parziale; può essere individuale (di un singolo giudice), oppure collettiva (di più giudici). Può anche esserci un istituto a noi ignoto, ma che ha una sua giustificazione nel diritto anglosassone, la plurality opinion, quando non si registra una maggioranza, cosa possibile per via del modo di decidere di quei giudici[2].

 

Poi, con dissenso non ci si riferisce all’espressione del dissenso nel collegio, ma alla sua divulgazione (quella ufficiale, non quella ufficiosa), ed alla imputazione soggettiva del dissenso (indicazione di chi ha dissentito).

 

L’importanza della indicazione esterna di chi ha dissentito è dimostrata dall’orientamento della Corte di cassazione italiana. Secondo questa[3], non si può manifestare all’esterno la circostanza che il collegio abbia deciso all’unanimità (non che la decisione sia stata presa a maggioranza), evidentemente perché ciò consente di identificare gli autori della decisione.

 

Vi sono ulteriori forme di dissenso. Quello scritto è il più noto. C’è anche il dissenso orale (detto anche dissent from the bench), che è più raro. Il «New York Times», il 31 maggio 2007, segnalava che la giudice Ruth Bader Ginsburg aveva dissentito oralmente, aggiungendo che leggere un dissenso ad alta voce è un «atto di teatro» che i giudici della Corte suprema utilizzano qualche volta, per far capire che la maggioranza non solo ha fatto un errore, ma ha sbagliato molto profondamente. Uno studioso americano, in un recente articolo sull’«Harvard Law Review»[4], ha chiamato questa «demosprudence», perché si tratta di un modo con il quale i giudici intendono influenzare fortemente l’opinione pubblica.

 

Questa incertezza terminologica e concettuale si riflette anche nel modo in cui l’espressione dissenting opinion viene tradotta in Europa. I francesi la chiamano opinion séparée, che è espressione più neutra. Gli spagnoli la chiamano voto particular oppure opinión discrepante. I tedeschi abweichende Meinung o Sondervotum.

 

 

2. Struttura delle sentenze e modi di deliberare

 

 

La mia esposizione sarà articolata in quattro punti. Per il primo ho scelto tre decisioni di Corti supreme, che vorrei esaminare per mettere in relazione struttura della sentenza con modi di deliberare. Nel secondo cercherò di approfondire il primo tema, cioè il dissenso come elemento che si inserisce nel modo di deliberare della Corte (e quindi non come istituto separato dal contesto). Nel terzo elencherò i vari argomenti teorici posti a sostegno della divulgazione e del segreto circa la decisione e le posizioni dei giudici. Nell’ultimo punto presenterò un florilegio di ragioni a favore e contro la dissenting opinion, tratte da autori che mi sono parsi significativi non tanto perché studiosi, quanto come giudici, che hanno vissuto dall’interno l’esperienza del dissenso.

 

Comincio esaminando tre sentenze, una della House of Lords, una della Corte suprema americana ed una del Bundesverfassungsgericht tedesco. I motivi della scelta sono semplici. Ho scelto la prima perché si dice che nel Regno Unito sia nato il dissenso. La seconda perché negli Stati Uniti si dice che si sia sviluppato il nostro istituto. La terza perché esso è stato trapiantato in Germania, inserendosi in una tradizione opposta.

 

I Law Lords sono i membri della Camera dei Pari con funzioni giurisdizionali di appello. Nonostante critiche che risalgono a Bagehot, la Camera dei Pari inglese continuerà fino al 1º ottobre 2009 una tradizione millenaria, quella di svolgere funzioni legislative e giurisdizionali. Da questa data i Law Lords diventeranno Corte suprema del Regno Unito.

 

La sentenza Secretary of State for the Home Department v. AF, del 10 giugno 2009, comincia con un plurale: «Opinions of the Lords of Appeal». Si tratta di un caso importante, che riguarda la libertà personale e il terrorismo. Dei dodici Law Lords (ma possono esserci membri supplenti), nove componevano il collegio per questa questione.

 

La decisione consta di 54 pagine. Essa non si apre con una decisione del collegio, ma con un discorso di 32 pagine di Lord Phillips of Worth Matravers, il quale, rivolto ai suoi colleghi (inizia con le parole rituali «My Lords»), esprime il suo giudizio con le relative motivazioni. Seguono gli altri otto giudici. Lord Hoffmann, rivolgendosi ai suoi colleghi, inizia dicendo che ha avuto il vantaggio di leggere in bozza il discorso del suo nobile e dotto amico Lord Phillips of Worth Matravers e concorda con esso. Segue un altro giudice che concorda, ma aggiunge alcune sue brevi annotazioni. In alcuni casi, questi giudizi sono brevissimi (sono cinque-dieci righe, poco più di «ho letto e concordo»). È dal 1963 che i Law Lords non leggono più i propri discorsi ai loro colleghi, ma li danno per letti e si limitano a un brevissimo riassunto.

 

Tutto questo non si svolge nella sala riservata alle udienze, ma nella solenne sala della House of Lords, dove il Senior Law Lord siede sulla Woolsack (lo scranno presidenziale) e pronuncia al termine la frase rituale: «Questo è il rapporto della Commissione d’appello su cui deve essere raggiunto l’accordo». Infine, un judgement order è redatto e consegnato alle parti.

 

Tutto questo per dire che, nella tradizione inglese (ma limitata ad alcuni giudici), non si può dire che vi sia una opinione dissenziente. Vi sono, piuttosto, tante diverse opinioni, perché per dissentire bisogna che un collegio abbia prima formato una maggioranza. Il judgement finale è un ordine di accoglimento o di rigetto a cui vengono aggiunte le motivazioni nel modo che si è detto, cioè con speeches o discorsi, perché si è nella House of Lords, un parlamento con funzioni legislative e giudiziarie (come nella Francia prima della Rivoluzione).

 

Passiamo alla Corte suprema degli Stati Uniti. La sentenza che ho scelto è dell’8 giugno 2009 (Boyle v. United States) e riguarda la materia penale (la Corte doveva definire la nozione di associazione per delinquere). La sentenza è preceduta dal Syllabus, molto più utile delle nostre massime.

 

Nel caso, il Justice Alito, uno dei due componenti di origine italiana, ha espresso l’«opinion of the Court». Il giudizio si conclude con le parole: «quindi noi confermiamo il giudizio della Corte d’Appello, ed è così ordinato». Nelle pagine successive, vi è l’opinione dissenziente del giudice Stevens, al quale si unisce il giudice Breyer, che termina con le parole «io rispettosamente dissento».

 

Dalla struttura di questa sentenza si comprende che qui – a differenza dal caso inglese – non si mettono una accanto all’altra le singole opinioni di ciascun giudice. Invece, si è formata una maggioranza, nei cui confronti alcuni membri del collegio dissentono.

 

In Germania le cose cambiano. Innanzitutto, la sentenza comincia con: «Im Namen des Volkes» (in nome del popolo). La decisione che ho prescelto non è una delle ultime, perché l’espressione del dissenso in Germania è piuttosto rara. Si tratta della decisione del 18 luglio 2005 sul mandato di arresto europeo.

 

I membri del Bundesverfassungsgericht sono sedici, divisi in parti eguali in due Senati. In questo caso ha deciso il secondo Senato. La decisione collegiale, di circa 50 pagine, è seguita dalla firma di tutti gli otto giudici. Al suo termine, vi sono l’abweichende Meinung (cioè l’opinione dissenziente) del giudice Bross, quella del giudice Lübbe-Wolff e quella del giudice Gerhardt.

 

Questo caso, quindi, è ancora diverso rispetto a quello della Corte suprema statunitense. Qui si è formata, dopo una discussione, la maggioranza. Tutti i giudici firmano la sentenza. Tre di essi, però, non sono d’accordo ed esprimono una abweichende Meinung, che li differenzia dalla maggioranza.

 

 

3. I diversi modi di deliberare delle Corti

 

 

Per comprendere la cosiddetta «opinione dissenziente» occorre rendersi conto dei modi di deliberare delle Corti. È il modo in cui si forma la volontà della Corte che influenza la struttura della decisione e, quindi, anche il modo in cui si presenta l’opinione dissenziente.

 

Ritorniamo, allora, ai tre ordinamenti, quello inglese, quello americano e quello tedesco, per illustrare il modo di deliberare delle Corti. Ricordo innanzitutto che, in quello inglese, non tutte le Corti ammettono la divulgazione del dissenso. Non il Privy Council, il quale giudica in nome del re. Non le Corti penali, perché si pensa che ciò disorienterebbe parti ed opinione pubblica. Nelle altre Corti, si decide da un millennio (con l’eccezione del periodo dal 1756 al 1788) seriatim. Il principio dell’oralità coinvolge anche la decisione. I giudici, al termine della discussione, si alzano, uno per uno, e singolarmente esprimono la loro opinione. Quindi, la decisione non è raggiunta dal collegio, ma da coloro che ascoltano, dopo aver sentito i singoli giudici.

 

Dunque, quello che (poi) è stato chiamato «dissenso» non è il risultato del principio della trasparenza applicato alla decisione di un giudice collegiale, ma il risultato di un modo particolare di deliberazione. I giudici non hanno bisogno di consultarsi prima tra di loro (talora lo fanno, ma al di fuori di una procedura prescritta). Non esiste una deliberazione collegiale e neppure una maggioranza, ma esistono una convergenza e divergenze. Non esiste dissenso, perché si dissente da una maggioranza, e nel sistema inglese non vi è una maggioranza alla quale opporsi.

 

Ciò spiega come possano verificarsi i casi di plurality opinion, cioè che vi sia una convergenza, ma di una minoranza dei membri, che conduce ad una non decisione.

 

La Corte suprema americana per circa un decennio, all’inizio della sua attività, ha adoperato il modello inglese, fino a che non è arrivata alla presidenza Marshall. Questi era contrario alla manifestazione del dissenso. Sostenne che era necessaria una «opinion of the Court», quindi una deliberazione collegiale.

 

Il Chief Justice aveva un particolare motivo per sostenere questa tesi. La sua Corte era piena di gente che valeva poco. Da documenti dell’epoca (una lettera di Johnson a Jefferson) risulta che uno dei giudici era un perfetto incompetente, un altro incapace di pensare e di scrivere, un altro era un molle che evitava volentieri ogni difficoltà, altri due era come se fossero una persona sola, ed uno di questi due era Marshall (a quell’epoca i giudici non erano ancora nove).

 

Marshall prese l’abitudine di esprimere lui stesso l’opinion of the Court. Da qui nacque il giudizio collegiale. Dopo qualche tempo, però, si riaffacciarono, perché nessuno aveva mai ufficialmente cancellato la procedura iniziale, la dissenting opinion, la concurring opinion e la plurality opinion. Queste divennero una procedura a cui si fece frequentemente ricorso solo dal 1941, un secolo dopo.

 

A questo punto, il dissenso diventa tale in senso proprio, perché è preceduto da una decisione collegiale, a differenza dal caso inglese. Anche questa decisione collegiale è, però, molto diversa da quella propria della Corte costituzionale italiana.

 

Immaginiamo di entrare nella Conference Room, la nostra Camera di consiglio. Intorno ad un piccolo tavolo rettangolare, vi sono nove posti, con altrettanti leggii, sui quali ogni giudice ha un piccolo quaderno. Ogni pagina di questo è divisa in tre parti. Il presidente introduce la questione che è stata discussa con gli avvocati nella sala accanto e, cominciando dal giudice più anziano per nomina, chiede la sua opinione. Ognuno dei giudici, nello spazio del quaderno riservato a quella questione, scrive l’opinione che ha ascoltato.

 

Al termine, il presidente registra le convergenze e le divergenze. Se lui stesso è parte della maggioranza, nomina il relatore della maggioranza. Se lui fa parte della minoranza, è il giudice più anziano della maggioranza che nomina il relatore.

 

Da questo punto in poi, non c’è un ulteriore momento di discussione collegiale, ma solo scambio di memo. Il famoso libro dei due giornalisti Woodward ed Armstrong The Brethren. Inside the Supreme Court[5] descrive molto bene come si svolge questo dialogo per iscritto.

 

Richard Posner nel suo libro del 2008, How Judges Think[6], riporta uno scritto (del 2001) di Rehnquist, che è stato a lungo presidente della Corte suprema, il quale osservava che, quando era entrato alla Corte, era stato sorpreso da quanta poca interazione ci fosse tra i vari giudici durante la Camera di consiglio. Continuava osservando che il vero scopo della discussione in Camera di consiglio non era di persuadere i propri colleghi con buoni argomenti, in modo da cambiare il loro punto di vista, ma, invece, di sentire gli altri membri della Corte in modo da capire quale fosse la loro opinione e di determinare, quindi, attraverso le opinioni di ciascuno, il punto di vista della maggioranza della Corte.

 

Dunque, nella Corte suprema, c’è sì, a differenza dell’Appellate Committee della House of Lords, una decisione collegiale, ma si tratta di una collegialità debole. La discussione è estremamente breve e non cambia l’opinione dei giudici. Questi non deliberano collegialmente.

 

La Corte tedesca non è nata con la abweichende Meinung. Ad essa si è arrivati tardi, nel 1970, a seguito di un emendamento della legge sulla Corte, dopo un caso famoso, che ha avuto echi anche in Italia, il caso di «Der Spiegel», che riguardava la libertà di stampa, in cui ci fu una divisione nel Senato di 4 a 4 (1966). In un caso come questo, c’è un rigetto per presunzione di costituzionalità. Però, la questione era talmente importante che, per la prima volta, la Corte ritenne opportuno pubblicare nella sentenza i diversi punti di vista, ma senza l’imputazione soggettiva delle opinioni espresse. In altre parole, la Corte tedesca, che non aveva mai affrontato il problema, decise, in questo singolo caso, di seguire una procedura stabilita per legge relativamente alla Corte suprema di Danimarca: esporre gli orientamenti divergenti, ma senza indicare quale giudice li avesse manifestati. La decisione illustrava, quindi, non solo il punto di vista della maggioranza, ma anche quello della minoranza. La sentenza era a metà tra la motivazione di una decisione ed un compte rendu.

 

Dopo il caso «Der Spiegel», la Corte ha cominciato a informare quando decideva all’unanimità e quando a maggioranza[7]. Successivamente, la questione fu oggetto di un dibattito scientifico nella Vereinigung dei professori di diritto pubblico tedeschi. Una legge del 1970 sancì il dissenso, poi largamente, ma non frequentemente adoperato (ad esempio, un noto costituzionalista, nei dodici anni in cui è stato alla Corte, ha espresso solo due volte una opinione dissenziente; dal 1971 ad oggi, vi è stata solo una decina di «grandi dissenzienti»). Da allora, la Corte, su richiesta di uno o più giudici, indica anche se la decisione è stata raggiunta all’unanimità, e, in caso negativo, quanti giudici hanno votato a favore e quanti contro. In Germania si dà un giudizio complessivamente positivo della possibilità di manifestare il dissenso e si ritiene che questa non abbia minato l’autorità della Corte.

 

Aggiungo, non solo per una curiosità storica, che il dissenso fa parte anche della tradizione dei giudici italiani. Nell’ordinamento napoletano, in quello estense, in quello toscano, nella Repubblica Cisalpina, nell’ordinamento sardo, il giudice esprimeva la sua opinione «nell’udienza all’istante», senza discussione collegiale. È la conquista napoleonica che mette fine a questa tradizione.

 

Per concludere questo punto, si può dire che il dissenso si innesti in un particolare tipo di processo di decisione, un particolare modo di funzionare del collegio e si articoli in modi diversi a seconda dei diversi contesti giuridici (quello inglese, dove è stata conservata la separazione delle opinioni; quello americano, dove all’opinione della Corte si aggiunge quella dei dissenzienti; quello tedesco, dominato dalla decisione collegiale, ma dove è consentito dissentire).

 

Insomma, il dissenso o voto di scissura non nasce come tale, lo diventa solo più tardi, quando viene ad innestarsi sulla deliberazione collegiale (di una collegialità debole o di una collegialità forte) e viene lentamente razionalizzato, diventando un istituto a sé stante.

 

 

4. Le ragioni del segreto e quelle della divulgazione delle opinioni dei giudici

 

 

Passo ora a considerare i motivi teorici, i postulati su cui posano, da un lato, l’unità del giudizio e, dall’altro, la separatezza dei giudizi. Dico unità e separatezza, perché è più corretto esprimere in tal modo l’opposizione corrente tra opinione dissenziente e segreto della Camera di consiglio, visto che vi sono tanti modi di configurare il dissenso e la sua divulgazione.

 

A favore dell’unità v’è, sostanzialmente, l’argomento che i giudici sono servitori del monarca e prendono decisioni in nome del re. Il monarca, in origine, poteva non accettare il Consiglio della Corte (ad esempio, in Francia, fino al 1872, il Conseil d’État proponeva una decisione che era presa poi dal capo dello Stato). Il monarca è uno ed una sola può essere la sua volontà.

 

Più complesse spiegazioni sono state date successivamente, tutte ispirate al positivismo normativo: il diritto è uno solo e le opinioni confliggenti ne minano le autorità (mito della soluzione unica); la decisione giudiziaria è un sillogismo e la decisione discende da esso; c’è una sola risposta corretta a qualunque questione giuridica; un’opinione divergente non è un’alternativa, ma un errore; i cambiamenti sociali non possono influenzare la risposta dei giudici; il cambiamento di interpretazione non può modificare le norme: per mutarle, bisogna cambiare la legge.

 

A fondamento della separatezza, vengono, invece, solitamente posti questi argomenti: la certezza del diritto non è un Sein, ma un Sollen, un obiettivo da perseguire, perché, in realtà, il diritto è incerto; il diritto – proprio perché incerto – si costruisce a poco a poco; quindi, le interpretazioni divergenti sono legittime; il diritto è fondamentalmente ciò che dicono i giudici (e, quindi, la formazione del diritto è fondamentalmente giurisprudenziale); ed i giudici, a loro volta, per ripetere la famosa metafora di Dworkin, non sono Ercole, sono uomini e possono divergere.

 

A questi argomenti classici, alcuni dei quali superati in quanto legati a concezioni del diritto storicamente determinate o divenute obsolete, si sono aggiunti altri argomenti. Tre sono particolarmente forti nel dibattito culturale attuale. La cosiddetta «teoria discorsiva» del diritto: il diritto si forma nel dialogo, tra le parti, e tra le parti ed il giudice. La teoria deliberativa (o, meglio, dibattimentale): il diritto è una discussione da cui emergono argomenti; più ricca è la discussione, più ricco è il diritto. La teoria della Costituzione come organismo vivente: essa si arricchisce anche grazie al dibattito interno alle Corti supreme.

 

 

5. Gli argomenti a favore e quelli contro l’introduzione della cosiddetta «opinione dissenziente»

 

 

Termino con la lettura di alcune opinioni a favore e contro le opinioni dissenzienti. Comincio dal libro di due studiosi, uno olandese e uno belga, sulla Corte di giustizia delle Comunità europee. Passo allo scritto di un noto costituzionalista polacco, che è stato membro della Corte costituzionale del suo paese e attualmente è giudice della Corte di Strasburgo. Continuo con le opinioni espresse da Lord Bingham, che è stato il Senior Law Lord qualche anno fa, e dal più conservatore dei giudici della Corte suprema americana, Antonin Scalia. Finisco con un libro francese, di un’allieva di Favoreu, Wanda Mastor.

 

I due primi studiosi, Schermers e Waelbroeck[8], elencano i seguenti argomenti a favore della pubblicità e a favore del segreto.

 

A favore della pubblicità: con la pubblicità, più argomenti giuridici sono portati nella pubblica discussione; la pubblicità può incoraggiare i giudici a fare un maggiore sforzo nel formulare con precisione i loro giudizi, che risulteranno migliori; la pubblicità aumenta la responsabilità individuale di ciascun giudice; i giudici che si trovano normalmente in minoranza potrebbero essere frustrati, se non avessero la possibilità di rendere pubblica la propria opinione; vi sono giudici che sono presi meno seriamente dagli altri: la pubblicazione dei loro punti di vista richiama l’attenzione degli altri giudici su di loro, li costringe a prenderli più sul serio; la pubblicità favorisce i futuri sviluppi del diritto; la libertà di opinione è un diritto umano di base, che riguarda anche i giudici.

 

A favore del segreto: la certezza del diritto è meglio assicurata da decisioni ferme; quando i giudici sono nominati per una durata determinata, la loro indipendenza potrebbe essere messa a rischio se i loro punti di vista fossero noti; l’assenza di dissenso promuove i compromessi all’interno della Corte; ciascun giudice che ha espresso e divulgato il suo punto di vista si sentirà obbligato a seguire la sua precedente opinione anche in successivi casi, così aumentando la rigidità delle posizioni all’interno della Corte.

 

Passiamo alle ragioni del giudice polacco, Lech Garlicki[9]. Le sue sono tutte a favore dell’opinione dissenziente: è uno strumento per esprimere il pluralismo interno della Corte e per segnalare all’opinione pubblica il carattere controverso di alcuni problemi; la dichiarazione di un disaccordo può essere considerata come un’espressione di speranza che future generazioni di giudici possano o vogliano ripensare al problema; la minoranza di oggi può essere la maggioranza di domani; è una valvola di sfogo, che consente maggiore omogeneità nelle opinioni di maggioranza.

 

Quanto a Lord Bingham, le sue opinioni sono le seguenti[10]: è moralmente criticabile il fatto che un giudice debba essere obbligato a seguire la maggioranza della Corte e che gli venga negata l’opportunità di esprimere con la sua voce il suo punto di vista; le decisioni delle Corti dove l’opinione dissenziente non è accettata tendono a nascondere le differenze, quindi fanno perdere chiarezza al giudizio che viene espresso; il dissenso di oggi può diventare l’ortodossia di domani; un ben argomentato e persuasivo dissenso può assicurare un potente stimolo all’intervento del legislatore.

 

Antonin Scalia[11] considera quattro punti di vista: la prima e più importante conseguenza delle opinioni separate è quella di distruggere l’apparenza di unità e solidarietà all’interno della Corte; la seconda conseguenza è che l’opinione dissenziente può aiutare a cambiare il diritto; l’opinione dissenziente serve ad informare il pubblico in generale e, in particolare, gli avvocati circa le posizioni interne alla Corte; negli Stati Uniti, il sistema delle opinioni separate ha fatto della Corte suprema il foro centrale dell’attuale dibattito giuridico ed ha trasformato le sue decisioni da una pura registrazione di giudizi in una storia della filosofia giuridica americana con il suo commentario («a history of American legal philosophy with his commentary»).

 

Infine, la Mastor[12]. Essa osserva: l’argomento più volte invocato per criticare le opinioni separate è l’indebolimento dell’autorità morale della decisione e, quindi, la perdita di prestigio della Corte; la divulgazione delle opinioni separate rischia di minare l’indipendenza della Corte, perché i giudici possono cedere alla tentazione di esaltare la propria personalità (ciò che gli americani chiamano self-marking, l’identificarsi con una tesi, perché si sappia all’esterno). A favore, invece: le opinioni separate, oltre agli altri vantaggi, permettono di chiarire al lettore il senso della stessa decisione maggioritaria; le opinioni separate sono state spesso all’origine della creazione di nuove norme o di cambiamenti giurisprudenziali, per cui un’opinione separata, antica e minoritaria, può diventare poi l’opinione maggioritaria.

 

Come si vede, sul dissenso vi sono contrasti che attengono sia alla struttura sia alla funzione. La cosiddetta «opinione dissenziente», per Jefferson e per il giudice costituzionale americano Brennan, era un contributo al «marketplace of competing ideas»[13], una sorta di integrazione della democrazia, perché rende più aperto il potere, incoraggia la discussione, assorbe le proteste.

 

Se si considera il funzionamento interno delle Corti, il dissenso viene manifestato non per convincere una maggioranza, ma perché questa non fu convinta. Quindi, il dissenziente non scrive per dialogare con la maggioranza, ma piuttosto per parlare ad altri poteri (ad esempio, al legislatore), o direttamente all’opinione pubblica (o persino al popolo).

 

Se questo è vero, c’è da chiedersi se una delle variabili da prendere in considerazione per valutare l’introduzione del dissenso non siano il grado di adesione sociale ai valori costituzionali e la misura della divisione dell’opinione pubblica: se la discussione costituzionale è molto attiva, è utile che singoli giudici vi prendano parte, o è meglio che la Corte parli come un oracolo? È auspicabile che la Corte metta fine o attivi il dibattito costituzionale? E, una volta ammessa la manifestazione esterna del dissenso, dove fermarsi? C’è un limite a dissensi ripetuti? Può il dissenso incentivare una partecipazione più attiva di singoli giudici, anche indipendente dall’attività della Corte di appartenenza, al dibattito costituzionale?

 

Anche l’argomento della incertezza del diritto può essere considerato reversibile: proprio perché si sa che il diritto è incerto, potrebbe esser bene che la Corte si esprima con una voce sola, per non aggiungere incertezza a incertezza.

 

Alle variabili esterne – ampiezza e divisività del dibattito costituzionale e politico, grado di incertezza del diritto – si aggiungono quelle interne, relative al modo di deliberare. La deliberazione comporta due elementi, la considerazione delle ragioni contrapposte e una decisione. Se il primo elemento è molto sviluppato, vi è spazio per discutere, convincere, negoziare, raggiungere compromessi. Se non lo è, è più facile che si ritenga necessario lasciare via libera alla manifestazione del dissenso.

 

 

6. Per finire

 

 

Quanto esposto può essere riassunto in sei punti.

 

Il primo è che la cosiddetta «opinione dissenziente» non è tale. Il secondo è che l’opinione dissenziente ha il suo antefatto nel modo di giudicare dei giudici inglesi, perché questi ultimi si esprimono seriatim, uno dopo l’altro. Il terzo è che l’opinione dissenziente nasce quando, paradossalmente, viene negata da Marshall, e si afferma il concetto della maggioranza della Corte. Il quarto è che le opinioni dissenzienti, nel loro attuale sviluppo, hanno solo circa settant’anni di vita, perché, sostanzialmente, si sviluppano dal 1940. Il quinto è che non esiste un tipo, ma più tipi di opinioni dissenzienti. Il sesto ed ultimo è che le opinioni sull’opinione dissenziente sono molto influenzate dai contesti e fortemente sovradimensionate, rispetto all’istituto in sé, a causa della cultura di chi le ha espresse.

 

Finisco con un brano molto scettico di uno dei grandi maestri del diritto costituzionale francese, che è stato anche membro del Conseil constitutionnel, George Vedel: «a coloro che vogliano danneggiare gravemente il Conseil constitutionnel offro due ricette infallibili: la prima è quella di affidare alla Corte stessa l’elezione del suo presidente, l’altra è quella di ammettere l’opinione dissenziente; questa sarebbe ancora più efficace della prima».

 

 

* * *

 

 

[1] Versione ampliata della introduzione a un seminario della Corte costituzionale (22 giugno 2009). Lo scopo della relazione era puramente informativo; l’intento quello di illustrare il modo di decidere e la pratica del dissenso fuori d’Italia. Essa tratta solo del dissenso nelle Corti supreme, con l’avvertenza che vi sono ordinamenti dove il dissenso si registra sia nelle Corti supreme sia in altre Corti (ma non necessariamente in tutte: ad esempio – come vedremo – il Privy Council e i giudici penali inglesi non conoscono il dissenso). Gli studi italiani sul dissenso (il volume su Le opinioni dissenzienti dei giudici costituzionali ed internazionali, curato da Costantino Mortati, Milano, Giuffrè, 1964; gli atti del convegno tenuto presso la Corte costituzionale, L’opinione dissenziente, a cura di Adele Anzon, Milano, Giuffrè, 1995; il volume di Saulle Panizza, L’introduzione dell’opinione dissenziente nel sistema di giustizia costituzionale, Torino, Giappichelli, 1998; le quattro raccolte interne, a cura del Servizio studi della Corte costituzionale, degli studi sul dissenso) si danno per noti. Sui modi di decidere delle Corti supreme P. Pasquino e B. Randazzo (a cura di), Come decidono le Corti Costituzionali (e altre Corti), Milano, Giuffrè, 2009. Ringrazio per i commenti i partecipanti al seminario e per la lettura e le osservazioni a una prima versione dello scritto i professori Gertrude Lübbe- Wolff, Valerio Onida, Pasquale Pasquino e Vincenzo Varano. Pubblicata in «Quaderni costituzionali», dicembre 2009, a. XXIX, n. 4, pp. 973-983.

 

 

[2] La difficile linea di distinzione tra opinioni dissenzienti o concorrenti e plurality opinions è un’ulteriore prova della indeterminatezza dei concetti. L’ultima ipotesi (opinione di una maggioranza relativa) è il frutto della diffusione dell’uso (nonché forse dell’abuso) delle opinioni concorrenti.

 

 

[3] Con riferimento all’art. 385 c.p., Cass., I, 10.1.2001.

 

 

[4] L. Guinier, The Supreme Court 2007 Term. Foreword: Demosprudence Through Dissent, in «Harvard Law Review», 2008, vol. CXXII, p. 4.

 

 

[5] B. Woodward e S. Armstrong, The Brethren. Inside the Supreme Court (1979), New York, Simon & Schuster, 2005.

 

 

[6] R.A. Posner, How Judges Think, Cambridge (Mass.), Harvard University Press, 2008, p. 303.

 

 

[7] Un primo isolato caso, peraltro, risale al 1967 (BVerfGE 21, 312).

 

 

[8] H.G. Schermers e D.F. Waelbroeck, Judicial Protection in the European Union (2001), riprodotto in «Global Constitutionalism», Yale Law School, 2008, p. I-5.

 

 

[9] L. Garlicki, Note on Dissent in the European Court of Human Rights, in «Global Constitutionalism» cit., p. I-8.

 

 

[10] Lord Bingham of Cornhill, A Personal Perspective, address delivered at the Oxford Institute of European and Comparative Law, June, 20, 2008, in «Global Constitutionalism» cit., p. I-31.

 

 

[11] A. Scalia, The Dissenting Opinion (1994), riprodotto in «Global Constitutionalism» cit., p. I-42.

 

 

[12] W. Mastor, Les opinions séparées des juges constitutionnels, Aix-en-Provence-Paris, Presses universitaires d’Aix-Marseille-Economica, 2005, p. 19 e 289.

 

 

[13] Cit. in R. Post, The Supreme Court Opinion as Institutional Practice: Dissent, Legal Scholarship, and Decisionmaking in the Taft Court, in «Minnesota Law Review», 2001, vol. LXXXV, p. 1267, riprodotto in «Global Constitutionalism» cit., p. I-65.

 

 

3.

 

 

La giustizia costituzionale in Italia: lo stato presente[1]

 

 

Premessa

 

 

Qual è lo stato presente della giustizia e del giudice costituzionale?

 

Per rispondere a questa domanda, mi soffermo su tre diversi aspetti, tra loro collegati: il processo, i prodotti, il contesto.

 

Per ciascuno di essi considero soltanto gli sviluppi recenti, quelli dell’ultimo quinquennio. Non mi soffermo, quindi, su dati strutturali, di carattere permanente, e opero solo limitati riferimenti a orientamenti giurisprudenziali o eventi degli anni precedenti. I riferimenti bibliografici sono limitati ai pochi scritti recenti.

 

Alla fine, tuttavia, allargo lo sguardo all’intero percorso sessantennale della Corte costituzionale italiana, per considerare l’ultimo periodo alla luce della storia precedente e in una prospettiva comparata.

 

 

1. Il processo di decisione

 

 

Parlare del processo di decisione comporta riferirsi a tre diversi momenti, quello dell’iniziativa, quello della formazione della decisione e quello degli effetti della decisione.

 

Il momento dell’iniziativa è di particolare rilievo, perché i giudici sono – per adoperare l’espressione madisoniana – organi passivi: reagiscono a una domanda, non prendono essi stessi l’iniziativa. Nel caso italiano, alla Corte – pur senza che vi sia accesso diretto, come in Germania e in Spagna – possono rivolgersi diverse migliaia di organismi pubblici, ivi comprese – per fare solo un esempio – le Commissioni tributarie.

 

La formazione della decisione comprende un lungo iter, che va dall’assegnazione al relatore alla preparazione della «ricerca», alla redazione della relativa «scheda illustrativa», alla preparazione della relazione per l’udienza, all’udienza, alla relazione in Camera di consiglio, alla discussione e decisione, alla redazione della sentenza (motivazione), alla sua lettura collegiale della Corte suprema.

 

Gli effetti riguardano il seguito della decisione. Salvo casi particolari, la Corte non ha un controllo su questo. Non risulta, peraltro, che si siano presentati casi estremi, come il ricorso alle forze armate da parte del Presidente degli Stati Uniti per assicurare il rispetto della decisione Brown v. Board of Education della Corte suprema.

 

 

1.1. L’iniziativa: diminuiscono gli atti di promovimento

 

 

Se si considerano gli atti di promovimento (nel gergo della Corte questi sono tutti gli atti che danno inizio a una procedura: ordinanze di rimessione, ricorsi in via principale, ricorsi per conflitti e così via), colpiscono due aspetti: la diminuzione del loro numero complessivo e la crescita dei ricorsi in via principale.

 

La diminuzione del ricorso alla Corte, in generale, può trovare almeno quattro spiegazioni specifiche, oltre a quelle di carattere generale, che riguardano l’assetto e gli andamenti della giustizia in Italia.

 

La prima è costituita dal fatto che, dopo sessant’anni di attività, la Corte ha già operato una sufficiente «pulizia» nella legislazione passata. Resta quella recente, e questo spiega perché vi siano tante questioni attinenti alle ultime leggi (fenomeno, questo, a sua volta preoccupante perché, dal punto di vista strutturale, trasforma la Corte in una terza camera del parlamento e, dal punto di vista funzionale, non permette di giudicare norme che abbiano avuto applicazione concreta, specialmente grazie all’interpretazione dei giudici, impedendo così il ricorso alla doctrine del diritto vivente).

 

La seconda spiegazione sta nell’atteggiamento prudente della Corte stessa, che ha sviluppato, specialmente in anni in cui vi era abbondanza di atti di promovimento, una lunga serie di cause d’inammissibilità, quasi tutte fondate su elementi formali. Respingi oggi, respingi domani, i giudici si stancano di rivolgersi alla Corte[2].

 

Una vicenda particolare, in quest’ambito, è quella delle sentenze e ordinanze interpretative, che hanno scarso seguito presso i giudici comuni (come dimostrato dalla ricerca condotta sulle decisioni degli anni 2000-05 e pubblicata nel 2008[3]). La ragione sta nella timidezza della Corte costituzionale, che non svolge il suo compito principale, quello di scegliere tra accoglimento (e conseguente annullamento) e rigetto (con la conseguenza di «salvare» la legge censurata), preferendo la via del compromesso («salvare» la norma, piegandola nella direzione della Costituzione)[4].

 

La terza spiegazione sta nella doctrine dell’interpretazione costituzionalmente orientata, o adeguatrice, o conforme. Questa è stata sviluppata dalla Corte stessa, sempre in anni nei quali vi era abbondanza di ricorsi (uno dei primi riferimenti compare nella sentenza n. 1 del 1986), e consiste nella richiesta ai giudici remittenti di tentare di dare un’interpretazione della norma conforme alla Costituzione, rendendo, così, inutile il ricorso alla Corte costituzionale. Questo orientamento è nato dapprima in ipotesi nelle quali il giudice rimettente affacciava più interpretazioni della norma, chiedendo alla Corte di sciogliere il dubbio esegetico, e si è sviluppato poi, specialmente a partire dalla seconda metà degli anni ’90, come obbligo del giudice di tentare l’interpretazione conforme prima di rinviare la questione di costituzionalità alla Corte[5]. L’obbligo di fornire un’interpretazione costituzionalmente orientata ha aguzzato l’ingegno dei giudici «inferiori», che si sono adoperati sempre più a dare interpretazioni evolutive, ricostruttive, spesso creative. Insomma, la Corte ha decentrato una parte del controllo di costituzionalità che la Costituzione aveva accentrato in capo alla Corte stessa. Singolare caso di un organo che si spoglia di sue competenze, abdicando al suo ruolo di guida[6].

 

Quarta spiegazione: con il progredire del diritto europeo e la sua progressiva invasione degli ordini giuridici nazionali, nonché con la progressiva formazione e poi codificazione normativa (da ultimo nella Carta) di diritti fondamentali garantiti nella dimensione europea, la disapplicazione da parte dei giudici delle norme nazionali in contrasto con l’ordine europeo – frequentemente usata in modo improprio – diviene satisfattiva di molti diritti la cui tutela era precedentemente assicurata solo mediante il ricorso alla Corte costituzionale.

 

L’altro fenomeno è quello dell’aumento dei ricorsi in via principale, che ha fatto parlare del passaggio dalla Corte dei diritti alla Corte dei conflitti.

 

Questo fenomeno sembra avere tre cause principali. La prima è la concorrenza tra il potere statale e il potere regionale, ormai giunto a maturità, e, quindi, pronto a contrapporsi allo Stato.

 

La seconda causa è l’assenza o la scarsa utilizzazione degli strumenti, formali e informali, atti ad assicurare la leale collaborazione centro-periferia, che potrebbero essere più efficaci dell’intervento giurisdizionale e offrire un più ampio ventaglio di soluzioni (ad esempio, decisioni «a pacchetto» come nell’Unione europea).

 

La terza causa, che riguarda i soli ricorsi dello Stato contro le regioni, non quelli di segno opposto, sta nella necessità, per il governo, di far ricorso alla Corte per il controllo sulle regioni, avendo perso esso gli altri strumenti (formali) di riscontro dell’attività regionale.

 

 

1.2. La formazione della decisione: verso la «dissenting opinion»?

 

 

Passiamo alla seconda fase, quella della formazione della decisione.

 

Qui il fenomeno visibile è costituito dall’accentuata porosità della Corte, nel senso che elementi delle discussioni svolte nelle camere di consiglio e delle votazioni giungono, con maggiore facilità che nel passato, alla stampa. Questo fenomeno – dovuto anche al fatto che la Corte si esprime sempre più spesso su leggi recenti – mette in luce l’opacità delle decisioni, rendendo, oltre che necessaria, urgente l’introduzione dell’opinione separata, dissenziente o concorrente.

 

Sul tema della dissenting opinion la Corte ha periodicamente discusso, ma senza giungere a conclusioni (lo ha ricordato anche il presidente Quaranta nella conferenza stampa annuale del 2012). Vi sono state almeno tre occasioni nelle quali se n’è dibattuto negli ultimi vent’anni: nel periodo 1991-99 (quando la Corte ha messo allo studio e più volte rinviato l’esame del tema, con una sola voce favorevole nel 1995); nel 2002 (quando i giudici favorevoli sono divenuti due); nel 2007 (quando i voti favorevoli sono stati quattro). Le opinioni emerse sono state le seguenti: non è possibile senza apposita legge (costituzionale, secondo alcuni) introdurre l’opinione separata; non è opportuno introdurla, perché la Corte contribuirebbe così alla conflittualità già eccessiva del dibattito pubblico italiano; è opportuno introdurre l’opinione dissenziente, in modo che la Corte divenga più trasparente, dando libertà di manifestazione del pensiero ai suoi componenti, perché un’opinione minoritaria di oggi può essere maggioritaria domani e perché il dibattito interno – riflesso in motivazioni ponderate – può arricchire il dibattito pubblico.

 

Alla dissenting opinion[7] si oppone il principio del segreto della Camera di consiglio, che si trae, indirettamente, dalle norme relative ai processi amministrativo e civile. La portata di questo principio, peraltro, non è chiara. Da un lato, non è definita la sua durata. Le diverse norme sul segreto su atti pubblici ne regolano la durata. Quello della Camera di consiglio ne ha una anch’esso? Dall’altro lato, non ne è chiara la portata o estensione. Si riferisce solitamente all’orientamento di singoli giudici e alle maggioranze. Ma si estende anche alle procedure seguite e agli argomenti discussi? Infine, il segreto impedisce anche la formazione di un verbale, che possa servire come «memoria storica» ed alimentare l’«archivio» della Corte, previsto dal regolamento, ma mai effettivamente costituito?

 

 

1.3. Gli effetti della decisione: una minor «compliance» verso le decisioni della Corte?

 

 

Il terzo momento è quello della decisione e dei suoi effetti.

 

Qui si registrano due fenomeni. Il primo è correlato alla già rilevata diminuzione degli atti di promovimento in generale e, di conseguenza, anche se non parallelamente (in quanto più questioni sono spesso decise con la stessa sentenza o ordinanza), delle decisioni: da un picco di un migliaio – dovuto anche all’arretrato accumulato a causa del processo Lockheed – si era arrivati a circa cinquecento per anno, per ora giungere a poco più di trecento. Ma bisogna tenere conto sia dell’importanza minore di gran parte delle ordinanze, sia della presenza di decisioni «clone», per cui le pronunce importanti per anno sono poco più di un centinaio.

 

Si registra, poi, un secondo fenomeno, consistente in una diminuzione del grado di compliance nei confronti delle pronunce della Corte, legato a cause diverse, che conducono ad effetti diversi: aggiramenti, elusioni, erosioni, usurpazioni, ampliamenti.

 

L’esame non può che essere esemplificativo. Un primo esempio è quello del gioco delle regioni con il governo, con la Corte nel mezzo. Accade che le regioni promulghino una legge, il governo impugni, le regioni immediatamente abroghino o modifichino la legge, la Corte dichiari cessata la materia del contendere, le regioni emanino altra legge di contenuto analogo. Oppure accade che una legge venga impugnata, che poi Stato e regioni raggiungano un accordo e la vicenda giudiziaria si chiuda con rinunzia seguita da accettazione.

 

Un secondo esempio: la Corte di cassazione, Sez. III penale (sentenza n. 4377/2012) ha esteso gli effetti di una sentenza della Corte costituzionale relativa alla custodia cautelare in carcere ad ipotesi di reato diverse, affermando che l’unica interpretazione compatibile con i principi fissati dalla sentenza n. 265 del 2010 è quella che amplia la possibilità per il giudice di applicare misure diverse dalla custodia carceraria anche agli indagati sottoposti a misura cautelare per il reato previsto all’art. 609-octies del codice penale[8]. Insomma, il giudice fa a meno della Corte costituzionale, estendendo gli effetti di una pronuncia di quest’ultima, in modi che mimano la doctrine dell’interpretazione costituzionalmente orientata.

 

Terzo esempio: quello della Corte di appello di Roma, Sezione Lavoro (sentenza n. 267/2012) in materia di indennità per conversione a tempo indeterminato di contratto a termine. Qui la Corte di appello è stata di avviso contrario a un’interpretazione data dalla Corte costituzionale (sentenza n. 303/2011) alla legge in questione, affermando che la sentenza del giudice costituzionale era interpretativa di rigetto, quindi non vincolante per l’interprete, e che sotto il profilo del rispetto dei principi costituzionali la norma andava interpretata nel modo sostenuto dalla Corte di appello stessa.

 

Quarto esempio: quello della VI Sezione del Consiglio di Stato (sentenze n. 3760/2010 e n. 7200/2010) che ha annullato provvedimenti di diniego di rinnovo di permesso di soggiorno, in un caso applicando direttamente la Convenzione europea dei diritti dell’uomo, insieme con il diritto europeo, e sostanzialmente disapplicando una legge italiana; in altro caso, sempre invocando congiuntamente diritto europeo e diritto della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, ha applicato una legge nazionale relativa ad altra fattispecie (quella della ricongiunzione familiare). Così, in sostanza, il giudice amministrativo è divenuto giudice delle leggi, con un uso congiunto di norme sovranazionali e ricorrendo insieme all’interpretazione costituzionalmente orientata e alla disapplicazione.

 

Quinto esempio: il Tribunale di Reggio Emilia (I Sez. civ., sentenza n. 1401/2011) ha annullato il diniego di rilascio, da parte della Questura, di carta di soggiorno richiesta per ricongiungimento familiare da un cittadino uruguayano coniuge di un cittadino italiano in base alla normativa spagnola che consente la celebrazione del matrimonio tra persone dello stesso sesso, affermando il diritto al ricongiungimento familiare. Il Tribunale si è collegato espressamente alla sentenza della Corte costituzionale n. 138 del 2010 (secondo cui l’unione tra persone dello stesso sesso costituisce non una famiglia, ma una formazione sociale a norma dell’art. 2 della Costituzione), ma ricorrendo all’interpretazione convenzionalmente conforme del diritto nazionale, alla luce dell’art. 9 della Carta dei diritti fondamentali e della direttiva 2004/38 Ce, e ricorrendo congiuntamente all’esame della Convenzione europea dei diritti dell’uomo e al diritto comparato (riconoscimento delle coppie dello stesso sesso in cinque paesi parte dell’Unione e in due altri parte del Consiglio d’Europa), per cui i termini coniuge e matrimonio vanno intesi anche come riferiti a persone dello stesso sesso. In questo modo, il giudice amplia la portata della pronuncia del giudice costituzionale italiano.

 

Ultimo esempio: quello della sentenza della I Sez. civ. della Cassazione n. 4184 del 2012 sulle «unioni gay», relativa alla trascrizione di atto di matrimonio formato all’estero (Paesi Bassi) tra persone dello stesso sesso di cittadinanza italiana. Secondo la Cassazione, l’intrascrivibilità dipende non dalla inesistenza o invalidità dell’atto, ma solo dalla inidoneità a produrre un effetto giuridico nell’ordinamento italiano. Secondo la Cassazione, a prescindere dall’intervento del legislatore (al quale si era rimessa la Corte costituzionale), si apre la possibilità di adire i giudici comuni per far valere il diritto a un trattamento omogeneo a quello assicurato dalla legge alle coppie coniugate, in specifiche situazioni, e, in quella sede, a sollevare eccezione di illegittimità costituzionale delle disposizioni vigenti. Anche in questo caso, il giudice ha ampliato la portata della sentenza n. 138 del 2010 della Corte costituzionale appellandosi direttamente alla sentenza della Corte di Strasburgo secondo cui le unioni di persone dello stesso sesso sono protette dalla garanzia assicurata dall’art. 8 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo alla «vita familiare». La Corte costituzionale aveva rinviato al legislatore, pur riservandosi di intervenire a tutela di specifiche situazioni, con il controllo di ragionevolezza. La Corte di cassazione si è valsa della giurisprudenza della Corte di Strasburgo per riconoscere un diritto che può essere fatto valere dinanzi ai giudici comuni.

 

Si noti che, nei casi nei quali la diminuzione della compliance avviene per via di ampliamenti, i giudici comuni fanno solitamente ricorso congiuntamente alle tre Costituzioni, quella nazionale, quella europea e quella della Convenzione, mettendo in pratica quel fenomeno che – con terminologia non precisa – viene chiamato «costituzionalismo multilivello».

 

 

1.4. Una Corte recessiva?

 

 

Da quanto osservato emergono le seguenti tendenze: diminuzione della domanda di giustizia costituzionale; diffusione del controllo di costituzionalità; parallelo aumento della domanda di controllo della costituzionalità nei rapporti Stato-regioni; recessività della Corte quale giudice di diritti; aumento del suo ruolo come regolatore delle zone di confine tra poteri centrali e poteri regionali.

 

Il declino relativo delle questioni incidentali è il sintomo di un difficile dialogo tra Corte costituzionale e giudici e di un suo diminuito peso nel sistema politico-costituzionale. Una delle condizioni per cui una Corte riesce a dominare l’evoluzione costituzionale è che vi sia un costante afflusso di questioni di costituzionalità. Se diminuiscono i casi portati dinanzi alla Corte, questa non vedrà accrescersi la sua influenza sull’evoluzione del sistema. Si conferma così la tesi per cui l’accesso alla Corte è una «chiave di lettura del complessivo sistema di giustizia costituzionale»[9].

 

Lo sviluppo dei giudizi in via principale conferma, a periodi invertiti, la tesi svolta di recente da Barry Friedman e da Erin F. Delaney[10], secondo cui l’affermazione della Corte suprema americana fu dovuta, nel suo primo secolo di vita, allo sviluppo della supremacy clause, necessaria ai poteri centrali per controllare gli Stati attraverso la Corte. Si può dire, per la Corte italiana, che è un efficace coalition builder, per aver dato ascolto alle posizioni del governo centrale, contro quelle delle regioni.

 

Tuttavia, il controllo svolto dalla Corte nei giudizi in via principale presenta il paradosso di un riesame giudiziario che dipende da una decisione – quella di impugnare o meno la legge regionale o statale – fondata su una valutazione politica, compiuta dal governo o dalla giunta regionale, con la Corte in funzione di stanza di compensazione, in assenza di altre forme arbitrali formali tra centro e periferia. Questo controllo si presta, quindi, a una «giustizia ingiusta», quale quella che si verifica quando il governo chiude un occhio sulla legge di una regione governata da una maggioranza omogenea a quella che lo sostiene e, invece, impugna una legge di analogo contenuto di altra regione, governata da una maggioranza diversa.

 

Quest’analisi del processo di decisione non può concludersi senza considerare che c’è più di un segno della presenza di una domanda di giustizia insoddisfatta. Basti ricordare che l’Italia, con la Federazione russa, la Turchia, la Romania e l’Ucraina, fornisce il 58% dei ricorsi alla Corte di Strasburgo, mentre gli altri 42 paesi parti del Consiglio d’Europa contribuiscono al restante 42%[11].

 

Le cause di questa «recessività» della Corte sono molte, ed alcune sono state indicate volta per volta. Una in particolare sembra rilevante, quella costituita dall’affermazione, nell’area europea, di una pluralità di Corti costituzionali, le cui funzioni parzialmente si sovrappongono. Ciò consente ai cittadini di cercare e di trovare una tutela dei loro diritti anche in altre sedi, diverse dalla Corte costituzionale nazionale.

 

 

2. I prodotti

 

 

Se dall’esame dei processi, e, quindi, della posizione della Corte nel sistema costituzionale, si passa ad esaminare i prodotti, si nota un netto divario. Da questo punto di vista, la Corte appare in rimonta, presente e attiva sui fronti più importanti. Insomma, la Corte sembra essere passata da anni di judicial modesty a una fase di judicial activism.

 

I segni di questo corso della giurisprudenza costituzionale possono vedersi se si esaminano otto campi o problemi.

 

 

2.1. Diritto straniero e diritto sovranazionale

 

 

Il primo problema è quello del diritto straniero e del diritto sovranazionale. La Corte appare ora meno timida nell’uso – in funzione persuasiva – del diritto straniero e – in funzione normativa – del diritto europeo, sia quello comunitario sia quello della Cedu.

 

Nel 2007 ha definito, con le sentenze gemelle (sentenze n. 348 e n. 349), la posizione del diritto Cedu rispetto a quello italiano (diritto interposto) ed ha di recente ribadito che le norme della Cedu «integrano», come norme interposte, la Costituzione (sentenza n. 78/2012).

 

Nel 2008 ha ridefinito il posto del diritto europeo rispetto a quello italiano, ammettendo che in sede di ricorso in via principale la Corte possa fare rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia dell’Unione europea (sentenza n. 103/2008; si veda anche la recente sentenza n. 75 del 2012 in cui è riassunta la giurisprudenza sui ruoli dei giudici nazionali comuni, della Corte costituzionale e della Corte di giustizia rispetto al diritto europeo).

 

Penetrato, grazie al primo comma dell’art. 117 della Costituzione, il diritto europeo nel sistema delle fonti, la Corte è divenuta in più di un caso giudice della legittimità non solo costituzionale, ma anche comunitaria di norme interne. Ad esempio, di recente, ha dichiarato illegittime norme regionali perché contrastanti con norme internazionali e comunitarie in materia di fonti di energia, in riferimento all’art. 117, primo comma, della Costituzione (sentenza n. 85/2012), o perché contrastanti con norme dell’Unione in materia di restrizioni quantitative degli scambi e di misure di effetto equivalente, che integrano il parametro di legittimità costituzionale (sentenza n. 86/2012)[12].

 

Infine, la Corte ha fatto abbondante riferimento, in funzione normativa, a convenzioni internazionali, da quelle sui diritti umani a quella sulla tutela del fanciullo.

 

Non mancano profili problematici anche in questi orientamenti, come quello d’aver collocato su due piani diversi la Costituzione rispetto al diritto europeo-comunitario e rispetto a quello della Cedu, con la conseguenza che il primo deve solo rispettare i principi fondamentali della Costituzione nazionale[13], il secondo tutte le sue prescrizioni. Si vede qui che la Corte è restia ad affermare nettamente ciò che è ormai nella natura delle cose, e cioè la primazia incontrastata del diritto «superiore» e la conseguente integrazione dell’ordine giuridico nazionale in quello europeo, secondo il modello degli ordini compositi studiato dai cultori delle forme ultrastatali imperiali (ad esempio, Attilio Brunialti), con conseguente abbandono della distinzione tra modello monista e modello dualista.

 

La riserva di far valere i principi fondamentali o l’intera Costituzione nazionale come barriera per non permettere l’ingresso di principi estranei si sta rivelando, con il passare del tempo e con lo scarso o nullo ricorso ad essi, come una forma di placebo, per mettere tranquilli i residui sostenitori della sovranità statale.

 

 

2.2. Gli immigrati

 

 

La Corte è, in secondo luogo, chiamata sempre più spesso a pronunciarsi su un altro tipo di apertura dell’ordinamento, quello relativo agli immigrati. Non c’è dubbio che questa sia la frontiera moderna dei diritti, quella sulla quale si misura la capacità degli ordinamenti moderni di mantenere le «promesse» contenute nei bills of rights. In questo campo, la Corte, superando dubbi e perplessità (in particolare, quelli attinenti ai problemi di finanziamento), sta riconoscendo che la Costituzione garantisce alcuni diritti, specialmente quelli sociali, agli uomini, non solo ai cittadini: quindi, anche l’immigrante irregolare ha diritto alla protezione del suo diritto alla salute, anche il mero titolare di permesso di soggiorno ha diritto all’assistenza sociale ed anche uno straniero, pur senza un documento attestante la regolarità del soggiorno, ha diritto a contrarre matrimonio.

 

Ad esempio, la Corte ha dichiarato illegittima «una preclusione destinata a discriminare tra i fruitori del sistema integrato dei servizi concernenti provvidenze sociali fornite dalla Regione i cittadini extracomunitari in quanto tali, nonché i cittadini europei non residenti da almeno trentasei mesi». Questa

 

non risulta rispettosa del principio di uguaglianza, in quanto introduce nel tessuto normativo elementi di distinzione arbitrari, non essendovi alcuna ragionevole correlabilità tra quelle condizioni positive di ammissibilità al beneficio (la cittadinanza europea congiunta alla residenza protratta da almeno trentasei mesi, appunto) e gli altri peculiari requisiti (integrati da situazioni di bisogno e di disagio riferibili direttamente alla persona in quanto tale) che costituiscono il presupposto di fruibilità di provvidenze che, per la loro stessa natura, non tollerano distinzioni basate né sulla cittadinanza, né su particolari tipologie di residenza volte ad escludere proprio coloro che risultano i soggetti più esposti alle condizioni di bisogno e di disagio che un siffatto sistema di prestazioni e servizi si propone di superare perseguendo una finalità eminentemente sociale (sentenza n. 40/2011).

 

 

La Corte ha poi ritenuta illegittima «la previsione di una generale preclusione alla celebrazione delle nozze, allorché uno dei nubendi risulti uno straniero non regolarmente presente nel territorio dello Stato». Questa «rappresenta uno strumento non idoneo ad assicurare un ragionevole e proporzionato bilanciamento dei diversi interessi coinvolti nella presente ipotesi» (sentenza n. 245/2011).

 

Anche in questa direzione vi sono ombre, nel senso che la cittadinanza in senso ampio (esclusi, naturalmente, i diritti politici) trova ostacoli sul suo cammino, dovuti al progresso dei trasporti di massa, con i conseguenti pericoli di «turismo sanitario», «turismo sociale», «turismo assistenziale».

 

 

2.3. La legge in materia penale

 

 

Un terzo progresso dell’ultimo periodo è quello conseguente all’affrancamento, da parte della Corte, dalla preoccupazione della «sovranità parlamentare» e da una concezione strettamente legalistica della riserva di legge in materia penale. Ispirata da questa preoccupazione, la Corte aveva in passato «deferito» sempre al legislatore tutto ciò che riguardava sanzioni, pene, misure cautelari ecc. Ora, invece, la Corte ha stabilito che il legislatore non può introdurre automatismi, senza lasciare al giudice una certa discrezionalità, per «adattare» la misura al caso concreto. Quindi, il legislatore non può disporre che, per certi reati, la misura cautelare debba essere necessariamente quella carceraria, senza lasciare al giudice di proporzionare la misura cautelare al caso concreto, o non può impedire una diminuzione della pena per fatti di lieve entità.

 

Ad esempio, la Corte, con riguardo a due tipi di sequestro, ha osservato che

 

a fianco della comune lesione della libertà personale del sequestrato, il sequestro terroristico o eversivo offende [...] secondo una corrente lettura, l’ordine costituzionale (usualmente identificato nell’insieme dei principi fondamentali che nella Carta costituzionale servono a definire la struttura e la natura dello Stato); il sequestro estorsivo attenta, invece, al patrimonio. [...] non può esservi [...] alcun dubbio in ordine alla preminenza del primo dei beni sopra indicati rispetto al secondo, nella gerarchia costituzionale dei valori. Tale rilievo, se giustifica la sottoposizione del sequestro terroristico o eversivo a uno «statuto» in generale più severo di quello proprio del sequestro estorsivo [...] rende, di contro, manifestamente irrazionale – e dunque lesiva dell’art. 3 Cost. – la mancata previsione, in rapporto al sequestro di persona a scopo di estorsione, di una attenuante per i fatti di lieve entità, analoga a quella applicabile alla fattispecie «gemella» che, coeteris paribus, aggredisce l’interesse di rango più elevato (sentenza n. 68/2012).

 

 

2.4. L’etica

 

 

In quarto luogo, la Corte è stata chiamata a pronunciarsi su temi che riguardano l’etica individuale e collettiva, come quello definito correntemente del «fine vita» (caso Englaro), quello della procreazione medicalmente assistita e quello della famiglia. Anche su questi temi, che coinvolgono valori religiosi, la Corte ha raggiunto decisioni equilibrate, riconoscendo il valore del giudizio della scienza e affermando che coppie dello stesso sesso, se non costituiscono una famiglia, sono, però, una formazione sociale.

 

Ad esempio, sulla procreazione medicalmente assistita, la Corte ha notato che

 

la giurisprudenza costituzionale ha ripetutamente posto l’accento sui limiti che alla discrezionalità legislativa pongono le acquisizioni scientifiche e sperimentali, che sono in continua evoluzione e sulle quali si fonda l’arte medica: sicché, in materia di pratica terapeutica, la regola di fondo deve essere la autonomia e la responsabilità del medico, che, con il consenso del paziente, opera le necessarie scelte professionali (sentenze n. 338 del 2003 e n. 282 del 2002). La previsione della creazione di un numero di embrioni non superiore a tre, in assenza di ogni considerazione delle condizioni soggettive della donna che di volta in volta si sottopone alla procedura di procreazione medicalmente assistita, si pone [...] in contrasto con l’art. 3 Cost., riguardato sotto il duplice profilo del principio di ragionevolezza e di quello di uguaglianza, in quanto il legislatore riserva il medesimo trattamento a situazioni dissimili; nonché con l’art. 32 Cost., per il pregiudizio alla salute della donna – ed eventualmente [...] del feto – ad esso connesso (sentenza n. 151/2009).

 

 

Circa le unioni omosessuali, la Corte ha osservato che

 

per formazione sociale deve intendersi ogni forma di comunità, semplice o complessa, idonea a consentire e favorire il libero sviluppo della persona nella vita di relazione, nel contesto di una valorizzazione del modello pluralistico. In tale nozione è da annoverare anche l’unione omosessuale, intesa come stabile convivenza tra due persone dello stesso sesso, cui spetta il diritto fondamentale di vivere liberamente una condizione di coppia, ottenendone – nei tempi, nei modi e nei limiti stabiliti dalla legge – il riconoscimento giuridico con i connessi diritti e doveri. Si deve escludere, tuttavia, che l’aspirazione a tale riconoscimento – che necessariamente postula una disciplina di carattere generale, finalizzata a regolare diritti e doveri dei componenti della coppia – possa essere realizzata soltanto attraverso una equiparazione delle unioni omosessuali al matrimonio. È sufficiente l’esame, anche se non esaustivo, delle legislazioni dei Paesi che finora hanno riconosciuto le unioni suddette per verificare la diversità delle scelte operate. Ne deriva, dunque, che, nell’ambito applicativo dell’art. 2 Cost., spetta al Parlamento, nell’esercizio della sua piena discrezionalità, individuare le forme di garanzia e di riconoscimento per le unioni suddette, restando riservata alla Corte costituzionale la possibilità di intervenire a tutela di specifiche situazioni (come è avvenuto per le convivenze more uxorio: sentenze n. 559 del 1989 e n. 404 del 1988). Può accadere, infatti, che, in relazione ad ipotesi particolari, sia riscontrabile la necessità di un trattamento omogeneo tra la condizione della coppia coniugata e quella della coppia omosessuale, trattamento che questa Corte può garantire con il controllo di ragionevolezza (sentenza n. 138/2010).

 

 

2.5. Le fonti del diritto

 

 

Un quinto progresso è quello che va nella direzione della difesa del parlamento e che riguarda il sistema delle cosiddette «fonti del diritto». Principi come quello del rispetto delle prescrizioni della legge delegante da parte del governo nell’esercizio della delega, quello della omogeneità del contenuto del decreto legge e delle prescrizioni aggiunte in sede di conversione, quello di legalità in senso sostanziale (nel senso che non basta una norma attributiva di poteri per rispettare la riserva di legge, ma è necessaria anche una «sufficiente» copertura legislativa), vanno tutti in direzione della difesa dei poteri del parlamento quale organo deputato alla legislazione.

 

Ad esempio, sulla vicenda dei «sindaci sceriffi», la Corte ha notato che

 

la riserva di legge [dell’art. 23 Cost.] ha indubbiamente carattere relativo, nel senso che lascia all’autorità amministrativa consistenti margini di regolazione delle fattispecie in tutti gli ambiti non coperti dalle riserve di legge assolute, poste a presidio dei diritti di libertà, contenute negli artt. 13 e seguenti della Costituzione. Il carattere relativo della riserva de qua non relega tuttavia la legge sullo sfondo, né può costituire giustificazione sufficiente per un rapporto con gli atti amministrativi concreti ridotto al mero richiamo formale ad una prescrizione normativa «in bianco», genericamente orientata ad un principio-valore, senza una precisazione, anche non dettagliata, dei contenuti e modi dell’azione amministrativa limitativa della sfera generale di libertà dei cittadini. [...] [P]er rispettare la riserva relativa di cui all’art. 23 Cost., è quanto meno necessario che «la concreta entità della prestazione imposta sia desumibile chiaramente dagli interventi legislativi che riguardano l’attività dell’amministrazione» (sentenza n. 190 del 2007) (sentenza n. 115/2011).

 

 

2.6. L’art. 97 della Costituzione

 

 

In sesto luogo, la Corte ha, nell’ultimo quinquennio, dato nuova vita all’art. 97 della Costituzione, ribadendo in ogni occasione la necessità del rispetto del principio del concorso per l’accesso ai pubblici uffici, così escludendo stabilizzazioni, immissioni in ruolo, nomine politiche, progressioni senza valutazione comparativa. Ad esempio, di recente, la Corte ha ribadito di aver

 

ripetutamente affermato che «la facoltà del legislatore di introdurre deroghe al principio del concorso pubblico deve essere delimitata in modo rigoroso, potendo tali deroghe essere considerate legittime solo quando siano funzionali esse stesse al buon andamento dell’amministrazione e ove ricorrano peculiari e straordinarie esigenze di interesse pubblico idonee a giustificarle (ex plurimis: sentenze n. 195, n. 150 e n. 100 del 2010, n. 293 del 2009). In tale quadro, questa Corte ha altresì escluso la legittimità di arbitrarie restrizioni alla partecipazione alle procedure selettive, chiarendo che al concorso pubblico deve riconoscersi un ambito di applicazione ampio, tale da non includere soltanto le ipotesi di assunzione di soggetti precedentemente estranei alle pubbliche amministrazioni, ma anche i casi di nuovo inquadramento di dipendenti già in servizio e quelli di trasformazione di rapporti non di ruolo, e non instaurati ab origine mediante concorso, in rapporti di ruolo (sentenze n. 150 del 2010, n. 293 del 2009, n. 205 del 2004)» (sentenza n. 68/2011).

 

 

Successivamente, la Corte ha ribadito che

 

la progressione nei pubblici uffici deve avvenire, in linea di principio, per concorso (da ultimo, sentenza n. 30 del 2012), sottolineando, altresì, relativamente alla possibilità di riserva di quote al personale interno e di deroga al principio del pubblico concorso, che non ha alcun «rilievo la circostanza che, fra i requisiti che si debbono avere per poter godere della progressione in carriera vi sia quello di essere stati in precedenza assunti presso l’amministrazione di appartenenza a seguito di un pubblico concorso, trattandosi, evidentemente, di concorso bandito per una qualifica diversa ed inferiore rispetto a quella cui si accederebbe per effetto della disposizione censurata» (sentenza n. 30 del 2012) (sentenza n. 90/2012).

 

 

2.7. I rapporti Stato-regioni

 

 

In settimo luogo, come già notato, la Corte è stata impegnata sul fronte dei rapporti Stato-regioni. Il governo centrale ha abbondantemente fatto ricorso alla Corte per lamentare violazioni costituzionali e invasioni del campo riservato dalla Costituzione al legislatore nazionale, da parte delle regioni. Queste ultime hanno impugnato quasi tutte le ultime leggi nazionali, lamentando invasioni statali nell’area riservata alla potestà legislativa regionale.

 

Questo contenzioso è certamente il frutto della errata concezione del legislatore costituzionale del 2001, secondo il quale poteri centrali e poteri regionali dovrebbero muoversi, come pianeti, lungo traiettorie predefinite e non coincidenti. Visione astratta e infelice, tanto lontana dalla realtà che questa si è subito preoccupata di smentirla: nella giurisprudenza della Corte, a parte qualche censura temporanea, prevale la parola intreccio.

 

In questo campo minato, la Corte aveva inventato l’«attrazione in sussidiarietà», che la Costituzione chiama esigenza di esercizio unitario. Nell’ultimo quinquennio, accanto ad un ricorso più discreto a questo artificio verbale, si registra, invece, un ampio ricorso alle clausole della tutela della concorrenza, della tutela dell’ambiente e dell’ordinamento civile. Queste hanno consentito alla Corte di ridefinire le velleitarie e astratte scelte fatte nel 2001. Si può dire che la Corte sia centralista? O va detto piuttosto che la Corte è stata più semplicemente realista, tenendo conto delle deboli forze delle regioni e della inesistenza di classi dirigenti locali, specialmente nel Sud?

 

Particolarmente interessante la giurisprudenza sulla Corte in ordine al coordinamento sulla finanza pubblica. In questa materia, nella quale concorrono competenza statale e competenza regionale, la Corte ha sempre ribadito che i principi fissati con legge statale non possono estendersi anche alla determinazione di strumenti e modalità per il perseguimento degli obiettivi determinati in sede centrale. In un caso recente, la Corte ha riconosciuto che lo Stato può determinare principi e modalità per assicurare risparmi di spesa nell’intero settore pubblico, purché per le regioni la fissazione delle singole «voci» di risparmio consenta libertà di scelta, nel rispetto del risparmio complessivo (sentenza n. 182/2011).

 

 

2.8. I conflitti tra poteri

 

 

Infine, la Corte è stata chiamata a esprimersi frequentemente su conflitti che hanno opposto parlamento a magistratura o su leggi che davano luogo a confliggenti punti di vista di magistratura ed esecutivo. Sui primi, la Corte ha tenuto fermo un criterio severo d’interpretazione dell’art. 68 della Costituzione, relativo all’espressione di opinioni da parte dei parlamentari. Su leggi come quelle relative alla prescrizione o al legittimo impedimento del presidente del Consiglio dei ministri, pur agendo «sotto i riflettori» e nel mezzo di forti controversie, ha mantenuto una linea di equilibrio riconoscendo le peculiarità proprie del titolare di un organo costituzionale, senza, tuttavia, ammettere che ad esso spettino privilegi o prerogative in deroga al principio di eguaglianza (sentenza n. 23/2011).

 

 

2.9. Una Corte aggressiva?

 

 

Questa rapida carrellata sulla giurisprudenza della Corte mostra che questa ha riacquistato forza, si è liberata dell’atteggiamento «deferente» rispetto al parlamento proprio degli anni nei quali abbondavano nelle sentenze i riferimenti alla «discrezionalità del legislatore» (espressione infelice e criticatissima, contenuta nella legge del 1953). Ha compreso che spetta al «dialogo tra le Corti» definire i rapporti tra ordinamenti in sistemi giuridici complessi. Ha identificato le nuove frontiere dei diritti, quelli che riguardano gli esclusi (immigrati) e gli incriminati. Ha saputo trovare un equilibrio tra laicità e tradizione cristiana, nelle decisioni che riguardano l’etica. Ha ridefinito i rapporti centro-periferia, correggendo gli errori compiuti nel 2001. Ha mantenuto una posizione di imparzialità nei confronti degli altri poteri dello Stato, quello legislativo e quello esecutivo.

 

Tra le cause di questo «attivismo» della Corte vi sono certamente l’aggravarsi della crisi del sistema politico e la concentrazione degli organi di governo e legislativi, in via prioritaria, sui problemi di ordine economico e finanziario. Tra i mezzi, va annoverata l’espansione del giudizio di ragionevolezza, inteso come valutazione della corrispondenza della regola dettata dalla norma alla sua causa, e, quindi, svincolato dal tertium comparationis e – più in generale – dal principio di eguaglianza.

 

 

3. Il contesto: la Corte parte di una «national political alliance»?

 

 

Quale posto occupa la Corte nel sistema politico e come è considerata dall’opinione pubblica e dalla cultura giuridica?

 

Sono domande alle quali è difficile rispondere. Si può partire da tre indizi. La Corte aveva ricondotto la legge speciale sul legittimo impedimento del presidente del Consiglio dei ministri nell’alveo delle norme comuni sul legittimo impedimento, sia dichiarandone alcune parti illegittime, sia reinterpretandone altre. Un successivo referendum sulla legge ha portato alla sua abrogazione.

 

Nei periodici sondaggi sull’apprezzamento e sulla fiducia da parte della popolazione rispetto alle istituzioni pubbliche e private, la Corte viene solitamente collocata nelle posizioni più alte, dopo carabinieri e polizia, insieme al Presidente della Repubblica. Segno che la Corte costituzionale è ormai entrata pienamente nella società e nel dibattito politico: basti ricordare quanto scrissero i giornali all’epoca della prima udienza della Corte, il 23 aprile 1956, lamentando un certo disinteresse dei cittadini verso i primi passi di questa istituzione: «pochissima gente sulla piazza, curiosi, passanti trattenutisi a guardare cosa succedesse, avendo visto passare il breve corteo presidenziale; la Costituzione, la Corte Costituzionale, non sono purtroppo concetti e istituzioni che appassionano i nostri leggeri contemporanei»[14].

 

La Corte, pur essendo chiamata a risolvere conflitti che riguardano tutte le componenti della comunità statale (promotori di referendum, parlamento, partiti, governo, regioni, parti consistenti della società, Chiesa cattolica o comunità dei credenti e così via), e pur essendo, in ogni caso nel quale ha dovuto decidere, al centro di attese e di critiche, è, complessivamente, uscita dalle fasi cruciali senza veder diminuiti il suo prestigio e la percezione diffusa della sua posizione di guardiano di ultima istanza di diritti e poteri.

 

Se questi tre indizi sono rappresentativi di una situazione generale, può dirsi che la Corte italiana corrisponde al modello individuato dallo studioso americano della democrazia Robert Dahl, secondo il quale, sul lungo periodo, la Corte suprema è stata parte di una «national political alliance»: non, quindi, parte del sistema politico, ma componente di un equilibrio, parte attiva nel contribuire alla costruzione di una comunità.

 

Questa diagnosi conferma il giudizio espresso da Enzo Cheli circa una Corte organo politicamente forte, capace di rispettare lo spettro culturale del paese e di alternare self-restraint e interpretazione evolutiva[15].

 

Questo è stato compreso dalla cultura giuridica, che negli ultimi tempi non si è accontentata del commento minuto delle decisioni della Corte (come quella svolta da «Giurisprudenza costituzionale» e da «Viva vox»), ma si è dedicata anche a un’importante opera di progettazione giurisprudenziale, preparando, con un dibattito anche molto fitto, decisioni critiche della Corte, come quella sul legittimo impedimento o quella sull’ammissibilità del referendum. Ciò facendo, la cultura giuridica ha «scommesso» e «investito» sulla Corte, ed ha anche in parte supplito all’opacità delle decisioni della Corte.

 

Manca, invece, da parte della scienza giuridica, una riflessione sul posto della Corte nel sistema costituzionale, sulla direzione della sua attività, sui suoi modi di procedere. Ma questa lacuna fa parte della debolezza di una disciplina che è stata troppo attratta dalla giurisprudenza e dalle singole sentenze, in una deriva che le sta facendo perdere le coordinate generali del complessivo costrutto costituzionale.

 

 

4. Uno sguardo dall’alto

 

 

Questa breve analisi non sarebbe completa se non tentassi di esaminare l’esperienza italiana guardandola più da lontano, alla luce di altre esperienze, con uno «sguardo dall’alto», per così dire, che tenga conto dell’intero percorso sessantennale della sua vita.

 

All’estero si apprezza molto la composizione «tripartita» della nostra Corte. La provenienza non solo politica, ma neppure esclusivamente tecnica, dei suoi componenti rappresenta un mix considerato un fattore di equilibrio. Il presidente della Corte neozelandese, in un convegno londinese di qualche anno fa, ha dato un giudizio molto positivo della composizione della Corte italiana. Se si considera, invece, la discussione in corso nel Regno Unito sui criteri che dovrebbero presiedere alla scelta dei membri della Corte suprema in quel paese, dove si vuole una Corte che sia «independent, accountable and diverse», si nota una grave deficienza della nostra Corte, costituita dalla presenza sempre limitatissima di donne.

 

Nel quadro della generale crisi della giustizia in Italia, dovuta ai suoi tempi, la Corte costituzionale costituisce un’isola felice, perché i tempi di decisione oscillano intorno ai dieci-dodici mesi. Visto il carico di lavoro, si potrebbe fare meglio, accentuando, però, l’inconveniente, già segnalato, di una Corte-terzo ramo del parlamento.

 

Ha corrisposto la Corte alle aspettative della cultura costituzionale? Chi attendeva un lavoro di «pulizia» delle norme e degli istituti, che li liberasse delle scorie autoritarie, può dirsi certamente soddisfatto. Ma c’era anche chi puntava su un’interpretazione evolutiva delle norme costituzionali, e chi pensava che la Corte «dovrà “guidare” l’evoluzione del sistema statale nell’ambito di quello schema» (la Costituzione in senso formale)[16]. Come avrebbe potuto svolgere la Corte questo compito? Quali esempi vi sono di una funzione tanto importante?

 

Tre esempi di trasformazioni radicali delle fondamenta normative attraverso l’attività di lawmaking di una Corte sono la sentenza Lueth (1958) della Corte costituzionale tedesca, sul rapporto diritto privato-Costituzione, le sentenze del 1970 del Consiglio costituzionale francese sul preambolo della Costituzione e le sentenze Van Gend and Loos (1963) e Costa (1964) della Corte di giustizia europea sulla primazia del diritto europeo, tre orientamenti definiti di recente «juridical coup d’État»[17]. Altri tre esempi sono quelli offerti dalla giurisprudenza costituzionale inglese, da quella francese e da quella tedesca, che hanno fatto proprio – nazionalizzandolo, per così dire – il precetto dell’interpretazione evolutiva dei principi della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, portando gli standard stabiliti dalla Convenzione al di là di quanto stabilito in sede giurisdizionale dalla Corte di Strasburgo e così seguendo il criterio che la Corte di Strasburgo e la Corte nazionale possano alternarsi alla guida[18].

 

Infine, l’esperienza storico-comparata dimostra che il peso di una Corte costituzionale dipende dalla forza con la quale gli altri poteri statali la sostengono. In Argentina, Perón, nel 1946, si oppose alla Corte e riuscì, con l’impeachment di alcuni suoi componenti, a sostituire quattro giudici. I suoi successori si sono così impadroniti della Corte, fino a Menem, che nel 1990 ha ripetuto, in modi diversi, l’esperienza di Perón. Negli Stati Uniti, Roosevelt, nel 1937, tentò un analogo intervento, sostenendo che la Costituzione aveva dotato il suo paese di tre cavalli, Congresso, esecutivo e Corti, i primi due che spingevano all’unisono, il terzo no[19]. Ma il suo tentativo non ebbe un seguito perché vi si oppose il Congresso. E ciò non toglie che oggi qualche voce, sia pur isolata, come quella del costituzionalista di Harvard Mark Tushnet, si levi a proporre di abolire la giurisdizione costituzionale, in modo da porre termine al legal constitutionalism, a favore del political constitutionalism, sulla base di un bilancio negativo dell’esperienza della Corte suprema nei passati due secoli[20].

 

In Italia, se si escludono gli interventi del Presidente della Repubblica a sostegno dell’indipendenza della Corte e a sua difesa contro attacchi vari, si deve parlare di una relativa solitudine del giudice costituzionale. I governi sono stati solitamente neutrali o critici. Il parlamento si presenta troppo spesso come parte di conflitti tra poteri per essere un giudice o un difensore imparziale. La magistratura è troppo impegnata nella difesa di se stessa per rivolgere lo sguardo altrove. L’opinione pubblica ha un’alta opinione della giustizia costituzionale, ma la considera qualcosa di arcano, considerato che la Corte – con qualche eccezione, come quella durante la presidenza Branca – motiva, ma non spiega, e, comunque, rifiuta di comunicare (salvo la conferenza stampa annuale, che si risolve in un breve consuntivo).

 

La «Frankfurter Allgemeine», in un articolo del 29 marzo 2012 sulla starke Stellung del Bundesverfassungsgericht in Germania, riferisce che Christine Lagarde, l’ex ministro francese, ora direttore del Fondo monetario internazionale, avrebbe detto un giorno: se qualcuno pronuncia ancora una volta la parola Corte costituzionale federale, lascio questa stanza. Sullo stesso giornale, il 5 aprile, il professor Reiner Schmidt ha scritto che, per fermare una politica europea che egli ritiene contraria al diritto, l’unica speranza risiede nella Corte costituzionale, che ha l’ultima parola. Quattro dei maggiori costituzionalisti tedeschi, riuniti a valutare il sessantennio di attività del Bundesverfassungsgericht, hanno intitolato il loro libro Das entgrenzte Gericht, il giudice senza limiti[21]. Il «New York Times» del 2 aprile dava notizia di una dichiarazione del Presidente americano secondo la quale la Corte suprema dovrebbe dar prova di self-restraint nel giudicare la sua riforma sanitaria, perché un «unelected group of people» non può modificare «a duly constituted and passed law». Nei giorni seguenti lo stesso giornale pubblicava articoli che riprendevano la proposta di stabilire un termine alla carica di giudice della Corte suprema, per assicurare un «regular turnover», e lamentavano che la Corte fosse «the most remote and mysterious branch of American government». Punti di vista molto diversi, indicativi non solo delle fondamentali diversità dei sistemi giuridico-politici nei quali si collocano le Corti costituzionali, ma anche del modo differente con il quale vengono percepiti e accettati i giudici costituzionali.

 

 

* * *

 

 

[1] Versione ampliata della lezione al Seminario di studi e ricerche parlamentari «Silvano Tosi», Firenze, 15 maggio 2012. Ringrazio Stefano Battini, Marta Cartabia, Lorenzo Casini, Enzo Cheli, Maurizia De Bellis, Marina Maiella, Bernardo Giorgio Mattarella, Roberto Milana, Riccardo Nevola, Mario Savino, Gaetano Silvestri e Umberto Zingales per i commenti a precedenti versioni di questo scritto. Questa lezione era già scritta quando sono stati pubblicati due libri, uno dei quali collettaneo, che vertono sui temi qui trattati: B. Caravita (a cura di), La giustizia costituzionale in trasformazione. La Corte costituzionale tra giudice dei diritti e giudice dei conflitti, Napoli, Jovene, 2012 ed E. Lamarque, Corte costituzionale e giudici nell’Italia repubblicana, Roma-Bari, Laterza, 2012. Pubblicata in «Rivista trimestrale di diritto pubblico», 2012, n. 3, p. 605 ss.

 

 

[2] Non può escludersi che a questo concorra anche la crisi della giustizia, con l’aumento delle cause, i ritardi e l’accentuata pressione dell’opinione pubblica, che inducono i giudici a giungere rapidamente a una conclusione, senza aprire l’incidente di costituzionalità, che diventa una extrema ratio.

 

 

[3] In «Rivista trimestrale di diritto pubblico», 2008, n. 3, p. 695 ss.

 

 

[4] La pratica delle sentenze interpretative potrebbe aver funzionato non solo come elemento di disincentivo per i giudici rimettenti (spiegando così la diminuzione delle ordinanze di rimessione), ma anche – in direzione opposta – come elemento di incentivo, nel senso che i giudici sono indotti a rivolgersi alla Corte per ottenere una sentenza che assicuri la prevalenza della loro interpretazione (la pratica del cosiddetto «avallo interpretativo»). La «inammissibilità» dell’ordinanza di rimessione – perché questa chiede un avallo interpretativo – è una risposta della Corte a una pratica dei giudici rimettenti che, a sua volta, è una risposta alle sentenze interpretative della Corte stessa (debbo questa osservazione a Stefano Battini).

 

 

[5] In tal modo, accanto a rilevanza e non manifesta infondatezza, vi sarebbe, ai fini della rimessione, la condizione del tentativo di interpretazione conforme, nei limiti dell’«univoco tenore» e della «perentoria chiarezza» della norma (sentenze n. 219/2008 e n. 341/2006).

 

 

[6] Si noti la connessione (che è anche una contraddizione) tra le due tendenze rilevate: da un lato, la Corte predilige, quando può, le pronunce interpretative e, dall’altro, affida ai giudici a quo il compito di individuare l’interpretazione conforme.

 

 

[7] Su cui S. Cassese, Una lezione sulla cosiddetta opinione dissenziente, in «Quaderni costituzionali», dicembre 2009, a. XXIX, n. 4, pp. 973-983 (in questo volume, p. 275 ss.).

 

 

[8] Si potrebbe parlare quindi di «interpretazione conforme a giurisprudenza costituzionale».

 

 

[9] A. Patroni Griffi, Accesso incidentale e legittimazione degli organi «a quo». Profili problematici e prospettive di riforma, Napoli, Jovene, 2012, p. 15.

 

 

[10] B. Friedman ed E.F. Delaney, Becoming Supreme: The Federal Foundation of Judicial Supremacy, in «Columbia Law Review», 2011, vol. CXI, n. 6, pp. 1137-1193.

 

 

[11] J.-P. Costa, Concluding Remarks on the Future of the Strasbourg Court, in «The Italian Yearbook of International Law», 2010, vol. XX, p. 193.

 

 

[12] Riflessioni generali sulle implicazioni di questa giurisprudenza in A. Cerri, Profili processuali del costituzionalismo plurale, Roma, Edizioni Nuova Cultura, 2010.

 

 

[13] Principi supremi dell’ordinamento e diritti inalienabili della persona umana (sentenze n. 98/1965, n. 183/1973 e n. 232/1989).

 

 

[14] «La Stampa» del 24 aprile 1956.

 

 

[15] E. Cheli, Il ruolo «politico» della Corte costituzionale, ora in Id., Nata per unire. La Costituzione italiana tra storia e politica, Bologna, Il Mulino, 2012, p. 107 ss.

 

 

[16] F. Pierandrei, La Corte Costituzionale e le «modificazioni tacite» della Costituzione, in A. Lefèbvre-D’Ovidio e F. Messineo (a cura di), Scritti giuridici in onore di Antonio Scialoja, vol. IV, Bologna, Zanichelli, 1953, p. 361 e successivamente in F. Pierandrei, Scritti di diritto costituzionale, 3 voll., Torino, Giappichelli, 1964, vol. I, p. 81 ss.

 

 

[17] A. Stone Sweet, The Juridical Coup d’État and the Problem of Authority, in «German Law Journal», 2007, a. XII, p. 915 ss. Su questo articolo si è sviluppata, poi, una discussione, sia sulla stessa rivista nella quale è stato pubblicato, sia in altre riviste.

 

 

[18] Secondo l’acuta interpretazione di E. Bjorge, National Supreme Courts and the Development of ECHR Rights, in «Icon», 2011, vol. IX, n. 1, p. 5 ss.

 

 

[19] Le due vicende, sud e nordamericana, sono state ricostruite e messe a comparazione di recente da D. Acemoglu e J.A. Robinson, Why Nations Fail: The Origins of Power, Prosperity, and Poverty, New York, Crown Publishing, 2012 (trad. it. Perché le nazioni falliscono. Alle origini di potenza, prosperità e povertà, Milano, Il Saggiatore, 2013), i quali distinguono sistemi costituzionali inclusive da sistemi costituzionali extractive, i primi caratterizzati dalla distribuzione del potere nella società, dall’apposizione di limiti all’esercizio di poteri arbitrari e da regole che rendono difficile l’usurpazione di poteri; i secondi da concentrazione del potere nelle mani di pochi, da scarsi e deboli limiti all’esercizio del potere e dall’«estrazione» di risorse da parte dell’oligarchia dominante a danno del resto della società. L’Argentina sarebbe un sistema appartenente alla seconda categoria, gli Stati Uniti alla prima.

 

 

[20] M. Tushnet, Abolishing Judicial Review, in «Constitutional Commentary», Winter 2011, vol. XXVII, n. 3, p. 581 ss.

 

 

[21] M. Jestaedt, O. Lepsius, C. Möllers e C. Schönberger, Das entgrenzte Gericht. Eine kritische Bilanz nach sechzig Jahren Bundesverfassungsgericht, Berlin, Suhrkamp, 2011.

 

 

4.

 

 

La giustizia costituzionale: bilancio di un’esperienza; ovvero il dilemma del porcospino[1]

 

 

1. «Ships passing in the night»?

 

 

164 dei 193 Stati esistenti al mondo dispongono di procedure di controllo della legittimità costituzionale delle leggi e 76 di essi hanno affidato tale compito a Corti costituzionali[2]. Dunque, nonostante le polemiche che accompagnano il giudizio di costituzionalità (possono pochi saggi o ottimati, per lo più non eletti, mettere in dubbio – in ordinamenti ispirati al principio di democrazia – scelte fatte dai rappresentanti del popolo?), questo si è diffuso nel mondo.

 

Oltre a diffondersi e a consolidarsi, il controllo di costituzionalità sta, però, subendo una modificazione radicale, che vorrei provare ad illustrare: le Corti supreme, da organismi solitari, stanno divenendo parti di un sistema corale.

 

Uno studioso francese, Louis Favoreu, ha scritto, solo un decennio fa, che «le corti costituzionali sono l’ultimo baluardo della sovranità degli Stati» e che «non possono essere controllate dall’esterno»[3]. Ora, invece, le Corti costituzionali non hanno più l’ultima parola, sono inserite in un dialogo che coinvolge giudici inferiori e giudici superiori. Controllano le leggi, ma sono a loro volta controllate da altri giudici. Non sono né baluardo, né strumento di una sovranità degli Stati, a sua volta condivisa (e, quindi, trasformata in competenza).

 

Ancora dieci anni fa, poteva dirsi che le Corti costituzionali fossero tutt’al più – per adoperare la metafora poetica di Henry Wadsworth Longfellow – «ships passing in the night». Avevano, in altre parole, contatti episodici e passeggeri. Ora fanno parte di un «coro» di Corti, tutte affaccendate nello stesso compito, la tutela dei diritti dei cittadini.

 

 

2. L’infallibilità delle Corti supreme

 

 

Comincerò questa mia illustrazione da una frase famosa del giudice americano Robert Houghwout Jackson. Questi, nominato da Franklin Delano Roosevelt alla Corte suprema, fu poi incaricato dal Presidente Truman di svolgere il ruolo di Chief Prosecutor al processo di Norimberga, ed è per questo famoso. Come giudice, scrisse, nella sentenza Brown v. Allen (344 Us 443, 1953), la notissima frase «We are not final because we are infallible, but we are infallible only because we are final» (non abbiamo l’ultima parola perché siamo infallibili, ma siamo infallibili solo perché abbiamo l’ultima parola). Questa frase è stata sempre interpretata come un ammonimento ai giudici supremi, perché questi siano consapevoli della loro fallibilità.

 

Ma questa frase, tanto spesso ripetuta, viene al termine di un più ampio ragionamento. Scrive, infatti, Jackson: «Conflict with state courts is the inevitable result of giving the convict a virtual new trial before a federal court sitting without a jury. Whenever decisions of one court are reviewed by another, a percentage of them are reversed. That reflects a difference in outlook normally found between personnel comprising different courts. However, reversal by a higher court is not proof that justice is thereby better done. There is no doubt that if there were a super-Supreme Court, a substantial proportion of our reversals of state courts would also be reversed. We are not final because we are infallible, but we are infallible only because we are final».

 

Dunque, Jackson vedeva la forza della Corte suprema nella sua finality, nella sua posizione di giudice solitario, posto al vertice, che ha l’ultima parola, così diventando infallibile. Se vi fosse una Corte superiore a quella suprema – sosteneva – una buona parte delle decisioni della Supreme Court sarebbe ribaltata.

 

L’ipotesi astratta formulata dal grande giudice americano è proprio quella che si sta ora verificando. Gli ordinamenti nazionali si aprono al diritto sovranazionale. Questo è dotato di Corti che spesso decidono in modi difformi dalle Corti nazionali supreme, che sono costrette a tener conto delle decisioni prese dalle Corti ultrastatali e a stabilire con loro un dialogo. Inoltre, la penetrazione del diritto sovranazionale negli ordinamenti nazionali autorizza anche i giudici nazionali a pronunciarsi sulla legittimità costituzionale delle leggi, per cui i giudici «inferiori» si impadroniscono della Costituzione e valutano la legittimità costituzionale delle norme, dandone una interpretazione conforme e fermandosi – ma con qualche eccezione – solo quando sono costretti a chiedere alla Corte costituzionale di annullare la legge[4]. Quindi, i controlli di costituzionalità si diffondono e, nello stesso tempo, la posizione una volta esclusiva delle Corti costituzionali nazionali viene erosa. Infine, questo cambiamento produce anche un mutamento della natura stessa del giudizio di costituzionalità svolto dalle Corti supreme. Insomma, come ha osservato Gustavo Zagrebelsky, da un diritto costituzionale «chiuso» si è passati alla «globalizzazione costituzionale», a un «costituzionalismo universale» e a un «nascente cosmopolitismo giudiziario»[5].

 

 

3. Il diritto transnazionale delle libertà

 

 

Esamino punto per punto, ma sommariamente, questo complesso cambiamento.

 

Il punto di partenza è l’apertura degli ordini giuridici nazionali al diritto non nazionale, quella che i tedeschi chiamano Völkerrechtsfreundlichkeit. Ne è un esempio l’art. 25 della Grundgesetz tedesca, per cui le norme generali di diritto internazionale sono parte integrante del diritto federale ed esse hanno la precedenza sulle leggi nazionali e creano diritti e doveri per i cittadini tedeschi. Oppure gli artt. 232 e 233 della Costituzione sud- africana, per cui il diritto internazionale consuetudinario è diritto nella Repubblica Sudafricana, salvo che sia in contrasto con la Costituzione o con una legge; e nell’interpretazione delle leggi le Corti debbono preferire quella conforme al diritto internazionale. Oppure gli artt. 10 e 11 della Costituzione italiana, per cui l’ordinamento giuridico italiano si conforma alle norme del diritto internazionale generalmente riconosciute e consente alle limitazioni di sovranità. Oppure, infine, gli artt. 5, 190 e 193 della Costituzione federale della Confederazione svizzera che pongono le disposizioni cogenti del diritto internazionale al di sopra della stessa Costituzione nazionale[6].

 

Dunque, il diritto nazionale si ritrae, quello sovranazionale si afferma. Gli accordi internazionali si moltiplicano: Convenzione europea dei diritti dell’uomo, Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, Convenzione americana dei diritti dell’uomo, Trattato che stabilisce la Comunità economica degli Stati dell’Africa occidentale, Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo, Patto internazionale sui diritti civili e politici, Patto internazionale sui diritti economici, sociali e culturali.

 

Questi e altri accordi internazionali contengono norme di garanzia e tutela dei diritti dei cittadini, che si sovrappongono (e talora contrastano) con le norme contenute nelle Costituzioni nazionali: sono Costituzioni ombra o surrogate.

 

Inoltre, tra gli ordini giuridici sovranazionali si pongono problemi di raccordo non indifferenti, come quelli che la Corte di giustizia dell’Unione europea è stata chiamata a risolvere, tra diritto dell’Unione europea e Convenzione europea dei diritti dell’uomo, giungendo alla conclusione che, finché l’Unione non sarà divenuta parte della Convenzione, quest’ultima non può essere considerata come uno strumento legale incorporato nel diritto dell’Unione europea, che a sua volta non governa i rapporti con la Convenzione, né determina le conclusioni che una Corte nazionale può raggiungere in caso di conflitto tra diritti garantiti dalla Convenzione e diritto nazionale[7].

 

Dalle aperture costituzionali nazionali e dallo sviluppo delle norme globali discende un terzo fenomeno che è stato chiamato, con un neologismo, di «domestification»[8], cioè quel processo attraverso il quale diritti umani internazionali diventano efficaci all’interno di ordini giuridici nazionali: trattati e convenzioni diventano diritto nazionale, che può essere fatto valere dinanzi a giudici nazionali.

 

Questa incorporation avviene in modi diversi, nei diversi paesi del mondo. Per questo motivo, se ne può solo indicare un tratto negativo: le norme internazionali non si inseriscono secondo criteri gerarchici o «arborescenti»[9], non si affermano in base alla loro supremazia, ma in virtù della loro «primazia» (questa distinzione risale al Tribunale costituzionale spagnolo), vengono piuttosto a collocarsi, rispetto alle norme nazionali, «l’un[a] accanto all’altr[a]»[10]. La Corte costituzionale italiana, nella sentenza n. 388 del 1999, ha notato che le varie formule dei vari cataloghi di diritti «si integrano, completandosi reciprocamente nell’interpretazione»[11].

 

Tuttavia, lentamente, le norme sovranazionali vengono ad acquistare maggiore forza, come affermato dalla Corte suprema svizzera recentemente nel caso Thurgovia (2C_828/2011, del 2012), relativo alle norme della Convenzione europea dei diritti dell’uomo.

 

Si è, quindi, sviluppato quello che già vent’anni fa Mauro Cappelletti definì «diritto transnazionale delle libertà», grazie al superamento della concezione dello Stato nazionale come fonte esclusiva del diritto e della giustizia e all’apertura internazionale dei sistemi giuridici nazionali[12].

 

 

4. Nuovi custodi delle libertà

 

 

Alla pluralità di carte, nazionali e ultrastatali, si accompagna anche un altro fenomeno, quello della moltiplicazione dei custodi delle libertà sia nell’ambito sovranazionale e globale, sia nell’ambito nazionale.

 

Nel primo ambito, si possono registrare la Corte europea dei diritti dell’uomo, la Corte di giustizia dell’Unione europea, la Corte interamericana dei diritti umani, la Corte della Comunità degli Stati dell’Africa occidentale, la Corte africana di giustizia per i diritti umani e dei popoli[13].

 

Ma queste Corti non sono i tutori esclusivi dei diritti garantiti nelle rispettive carte costituzionali. Infatti, i trattati, gli accordi, i patti, le carte che garantiscono diritti e libertà, per il fenomeno sopra ricordato della domestification, sono anche parte dei diritti nazionali. Quindi, i giudici nazionali divengono tutori dei diritti e delle libertà garantiti dalle carte sovranazionali e stabiliscono rapporti con le Corti sovranazionali, aggirando i giudici costituzionali nazionali e quindi marginalizzandoli[14].

 

In modi diversi, a seconda delle parti del mondo e dei paesi coinvolti, le decisioni dei giudici sovranazionali in materia di situazioni giuridiche soggettive di cittadini nazionali sono vincolanti nell’ordine giuridico nazionale, come, ad esempio, risulta dalla decisione Serap v. Repubblica di Nigeria della Corte africana di giustizia per i diritti umani e dei popoli (ECW/CCJ/JUD 18/12, del 2012), in materia di diritto alla salute, di diritto ad avere adeguati standard di vita e di diritto alla tutela dell’ambiente nel delta del Niger, ed è stato riconosciuto dalla Corte suprema di giustizia messicana, con riferimento a una decisione della Corte interamericana dei diritti umani, nel caso Padilla Pacheco (912/2010) in materia di diritto alla vita, diritto all’integrità personale, diritto alla libertà e alla tutela giurisdizionale.

 

Con la penetrazione negli ordini giuridici nazionali, la vicenda che sto esaminando diventa più oscura, perché si accentuano le diversità nazionali. La Convenzione europea dei diritti dell’uomo ha valore sopra-costituzionale, come in Olanda, o costituzionale, come in Austria, o sub-costituzionale, come in Italia?[15] Oppure ha solo valore legislativo ordinario, con la conseguenza che una successiva legge statale può mettere nel nulla diritti acquisiti in ambito sovranazionale? E come si coordinano i diritti garantiti in ambito più vasto con quelli assicurati in ambito nazionale?

 

Quanto alla tutela giudiziaria, è meglio che il giudice nazionale, quale giudice comune chiamato ad applicare anche le norme sovranazionali che garantiscono diritti, possa dichiarare inapplicabile il diritto nazionale non conforme a quello sovranazionale, anche se ad esso successivo, oppure che debba rinviare alla Corte costituzionale nazionale la norma nazionale che contrasti con quella ultrastatale, per farla annullare?

 

Ai rapporti tra ordini giuridici e relative norme si aggiungono i rapporti tra le diverse Corti e relativi poteri, in una gamma molto ampia di soluzioni: giudici nazionali che applicano direttamente norme sovranazionali e giudici nazionali che rinviano la decisione su violazioni nazionali di diritti a Corti sovranazionali; giudici nazionali che verificano il rispetto di diritti contenuti in norme sovranazionali e dichiarano inapplicabili direttamente le norme nazionali in contrasto (come accade in Italia per il diritto dell’Unione europea) e giudici nazionali che, compiuta la verifica, debbono rinviare ad altri giudici nazionali (le Corti costituzionali) il compito di annullare le norme nazionali non conformi (come la Corte costituzionale italiana ha deciso nel 2007 relativamente alla Convenzione europea dei diritti dell’uomo); giudici nazionali che si adeguano al diritto sovranazionale come interpretato dalle Corti sovranazionali (caso dell’Italia) e giudici nazionali che debbono solo «prendere in considerazione» l’interpretazione del diritto sovranazionale data dai rispettivi giudici (caso della Germania e del Regno Unito).

 

Una situazione così complessa richiede adattamenti e collaborazione. I primi sono stati introdotti per via normativa (ad esempio, il principio del previo esaurimento dei rimedi nazionali nel caso della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, oppure quello di sussidiarietà, introdotto nello stesso ambito dal recente Protocollo n. 15 alla Convenzione), oppure attraverso il judge-made law (ad esempio, la doctrine del margine statale di apprezzamento, introdotta dalla Corte di Strasburgo, sempre nell’applicazione della Convenzione; oppure le teorie dei «principi supremi» e dei «contro-limiti», coniate dalla Corte costituzionale italiana – sentenze n. 30 del 1971 e n. 183 del 1973 – rispetto al diritto dell’Unione europea).

 

In secondo luogo, questa situazione complessa impone una collaborazione sempre più stretta tra gli ordini giudiziari, e specialmente tra le Corti supreme o costituzionali, a cui queste fanno fronte sia con riferimenti sempre più frequenti alle reciproche giurisprudenze, sia moltiplicando incontri e contatti. Le conseguenti influenze, le interconnessioni che si stabiliscono, la reciproca legittimazione, il riferimento alla comparazione come metodo di interpretazione, hanno indotto a parlare di un «Verbund of the constitutional courts»[16].

 

Ma anche questo non basta, perché vi sono casi di paesi che tentano di sfuggire al sistema di controlli reciproci che viene così a stabilirsi. È il caso del Regno Unito, dove da qualche tempo si lamenta che un popolo libero che ha storicamente aperto la strada alla libertà e alla democrazia sia costretto a rinunciare al proprio self-government e viene richiesto «to make our Supreme Court supreme»[17]. Non posso qui dilungarmi sul caso britannico, ma conviene ricordare che le reazioni di quel paese si spiegano anche con l’assenza di una Costituzione nazionale scritta, che faccia da barriera o filtro rispetto all’incorporazione automatica del diritto sovranazionale, e alla quale non supplisce l’approvazione, nel 1998, dello Human Rights Act[18].

 

 

5. Fine della solitudine delle Corti costituzionali

 

 

Nel quadro appena presentato, le Corti costituzionali vedono erosi i propri compiti dall’alto e dal basso e limitati i propri poteri dalla necessità di tener conto, in vari modi, della giurisprudenza di Corti che operano in un ambito più vasto. Se perdono (in parte) la possibilità di dire l’ultima parola, se debbono ascoltare anche l’opinione di altre Corti, esse, tuttavia, diventano organismi meno solitari, acquisiscono una nuova funzione, quella di interloquire con ordini giuridici sovranazionali, diventano arbitri dell’apertura-chiusura degli ordini nazionali e persino della velocità con la quale progrediscono gli ordinamenti sovranazionali (basti pensare al ruolo svolto dal tedesco Bundesverfassungsgericht con le sentenze sul Trattato di Lisbona[19] e sulla pratica degli Omt da parte della Banca centrale europea[20]). Complessivamente, ne traggono un beneficio le società nazionali, per la conseguente espansione dei diritti e per la diffusione del controllo sul loro rispetto da parte di legislatori ed esecutivi.

 

Sarebbe, tuttavia, sbagliato affermare che le modificazioni si fermano qui. L’evoluzione descritta produce altri effetti, sulla natura stessa del lavoro svolto dalle Corti costituzionali e sull’allargamento, in direzione orizzontale, del controllo del rispetto dei diritti.

 

Il carattere corale del controllo del rispetto dei diritti consacrati in carte sia nazionali sia sovranazionali trasforma la natura del giudizio delle Corti costituzionali, perché ne rafforza una componente, quella della verifica di ragionevolezza e di proporzionalità. Sempre più le Corti costituzionali sono richieste di mettere a raffronto e bilanciare istituti, norme e loro applicazioni in sede nazionale e in ambiti sovranazionali. Ad accertare, ad esempio, se chi è privato della libertà personale può essere privato anche del diritto di voto; oppure se chi sia stato giudicato sulla base di prove non ritualmente raccolte abbia diritto ad essere nuovamente giudicato (si tratta di due casi ben noti, uno relativo al Regno Unito, uno relativo all’Italia). Ora, in presenza di doppie tutele, si accentua il compito di comparare, ponderare, valutare la proporzionalità e la ragionevolezza delle diverse opzioni interpretative. Solo in questo modo, infatti, si possono tenere sotto controllo i controllori ed evitare loro scelte arbitrarie.

 

Connesso a questo è il compito delle Corti di far progredire la tutela dei diritti, secondo formule molto diverse, come quella affermata dalla Corte costituzionale italiana della «massima espansione delle garanzie» (sentenza n. 317/2009, che riprende una fortunata formula di Paolo Barile[21]), o quella della «progressività della tutela», sostenuta dalla Corte suprema argentina secondo la quale «tutte le misure statali di carattere deliberatamente “regressivo” in materia di diritti umani richiedono una considerazione “più accurata” e debbono essere giustificate pienamente con riferimento alla totalità dei diritti previsti»[22]. È evidente che, in questi casi, le Corti debbono comparare e bilanciare.

 

In secondo luogo, l’apertura verticale induce quella orizzontale: Corti nazionali tengono conto di decisioni delle Corti sovranazionali, anche se queste riguardano altri paesi e non si applicano, in senso stretto, al paese di appartenenza (così il rapporto della Corte suprema messicana sul caso Padilla Pacheco prima citato); leggi di altri paesi divengono rilevanti per giudici sovranazionali che debbono decidere per un paese diverso (è il caso della doctrine del consensus, sviluppata dalla Corte di Strasburgo: in base ad essa, il suo controllo di proporzionalità dell’uso del margine di apprezzamento nazionale avviene tenendo conto di quanti paesi parte della Convenzione europea hanno adottato una certa interpretazione del diritto garantito dalla Convenzione); giudici nazionali divengono interessati ad accertare quale sia la soluzione legislativa data in altri paesi a certi problemi, per le implicazioni che possono esservi nei conseguenti giudizi nazionali.

 

 

6. Un «gran disordine» o «il massimo trionfo delle Corti costituzionali»?

 

 

Più di trent’anni or sono, Louis Favoreu si chiedeva «se, tra qualche anno, potremo raccapezzarci nel groviglio di competenze in materia di protezione dei diritti fondamentali in Europa»[23]. Ritornava, dieci anni fa, sul tema, in tono ancor più pessimistico, constatando «il preannunciarsi di un gran disordine», un «groviglio di competenze» che giudicava «controproducente» e «catastrofico»[24]. Descriveva così il «paesaggio giurisdizionale» europeo:

 

Le giurisdizioni comuni [...] applicano la Costituzione, la Convenzione europea dei diritti dell’uomo e i principi generali del diritto comunitario, e ben presto, senza dubbio, la Carta di Nizza. Le corti costituzionali applicano la loro Costituzione, che contiene un catalogo di diritti fondamentali e, eccezionalmente, la Convenzione europea dei diritti dell’uomo; la Corte di Lussemburgo applica la Carta giurisprudenziale dei diritti fondamentali (in attesa di attuare la Carta di Nizza) e, eventualmente, la Convenzione europea dei diritti dell’uomo; la Corte europea applica la Convenzione europea dei diritti dell’uomo, «imponendo» le sue interpretazioni alle giurisdizioni comuni, e addirittura, in alcuni casi, a qualche corte costituzionale, ma non ha una reale «autorità costituzionale» per farlo, visto che non può invalidare atti statali[25].

 

 

Più di recente, Maria Rosaria Ferrarese ha osservato che la moltiplicazione di sedi giudiziarie e para-giudiziarie produce un paradosso: un «ridimensionamento del [...] ruolo» delle Corti costituzionali e insieme il loro «trionfo»[26]. La moltiplicazione delle istituzioni abilitate a dire l’ultima parola consente di capire che non è importante chi dica l’ultima parola, ma chi partecipa al dialogo.

 

Concludo. Le Corti supreme o costituzionali sono strette in un conflitto o almeno in una tensione continua con la politica (meglio, con i legislatori). A questa tensione – che è stata però sopravalutata – si aggiunge ora una seconda tensione, quella tra ordine giuridico interno e ordini giuridici sovranazionali e globali. Tra questi due le Corti sono spesso chiamate a svolgere funzioni diverse, come quella di tramite, di limite, di sollecitatore. I loro atteggiamenti variano, come mostrato dall’esempio della Corte suprema britannica nel caso dei voting rights dei prigionieri, relativo ai rapporti con il Consiglio d’Europa e la Corte di Strasburgo, da quello del Tribunale costituzionale federale tedesco nelle decisioni relative ai rapporti con l’Unione europea (decisioni Solange[27] e Ja, aber[28]), da quelli della Corte costituzionale italiana relativi ai supplenti, relativamente al diritto dell’Unione europea, e alle pensioni svizzere, relativamente al Consiglio d’Europa e alla Corte di Strasburgo, o dalla Corte suprema statunitense, nei casi relativi alla pena di morte e alla detenzione senza processo.

 

Tutto questo ha certamente un costo, perché produce una certa confusione negli ordini giuridici. Ma anche un grande beneficio, sia perché amplia le possibilità di tutela dei diritti dei cittadini, sia perché li spinge – proprio per la provvisorietà dell’assetto – a cercare ancora nuove vie per tale tutela.

 

Pedro Cruz Villalón, alla luce della sua duplice esperienza, quale giudice costituzionale spagnolo e poi quale avvocato generale della Corte europea di giustizia, ha applicato alla «casa affollata» dei diritti in Europa, contraddistinta da una pletora di Corti, tutte intitolate a giudicare in ultima istanza, il dilemma del porcospino, illustrato da Arthur Schopenhauer e applicato anche da Sigmund Freud: quest’animale, nel periodo invernale, cerca di combattere il freddo avvicinandosi ai suoi simili, ma così corre anche il rischio di ferirsi con le spine dei suoi simili. Anche le Corti in Europa debbono cercare il giusto equilibrio tra cooperazione e isolamento[29].

 

 

* * *

 

 

[1] Prolusione dell’anno accademico 2014-15, Accademia delle scienze di Torino, 10 novembre 2014.

 

 

[2] Dati in S. Cassese, The Will of the People and the Command of the Law. Constitutional Courts, Democracy and Justice, in V. Barsotti e V. Varano (a cura di), Il nuovo ruolo delle Corti supreme nell’ordine politico e istituzionale. Dialogo di diritto comparato, Annuario di diritto comparato e di studi legislativi, Quaderni, 1, Napoli, Edizioni Scientifiche Italiane, 2012, pp. 17-33.

 

 

[3] L. Favoreu, Corti costituzionali nazionali e Corte europea dei diritti dell’uomo, in «Rivista di diritto costituzionale», 2004, n. 1, p. 11. Dello stesso autore si veda anche Les Cours de Strasbourg et de Luxembourg ne sont pas des cours constitutionnelles, in Au carrefour des droits. Mélanges en l’honneur de Louis Dubouis, Paris, Dalloz, 2012, pp. 35-45.

 

 

[4] S. Cassese, La giustizia costituzionale: lo stato presente, in «Rivista trimestrale di diritto pubblico», 2012, n. 3, pp. 605-606 (in questo volume, p. 287 ss.).

 

 

[5] G. Zagrebelsky e V. Marcenò, Giustizia costituzionale, Bologna, Il Mulino, 2012, p. 549 ss.

 

 

[6] Di recente sono state affacciate proposte per modificare in senso nazionalistico alcune di queste norme.

 

 

[7] Si veda Corte di giustizia dell’Unione europea, C-617/10, del 26 febbraio 2013.

 

 

[8] A. Stone Sweet, A Cosmopolitan Legal Order: Constitutional Pluralism and Rights Adjudication in Europe, in «Journal of Global Constitutionalism», 2012, n. 1, p. 53.

 

 

[9] M. Vogliotti, La fine del «grande stile» e la ricerca di una nuova identità per la scienza giuridica, in V. Barsotti (a cura di), L’identità della scienza giuridica in ordinamenti multilivello, Rimini, Maggioli, 2014, p. 97 ss.

 

 

[10] A. Ruggeri, Rapporti tra Corte costituzionale e Corti europee, bilanciamenti e «contro limiti» mobili, a garanzia dei diritti fondamentali, in «Associazione italiana dei costituzionalisti», 2001, n. 1, pp. 8 e 11.

 

 

[11] Vogliotti, La fine del «grande stile» cit., p. 113.

 

 

[12] M. Cappelletti, Giustizia, in Enciclopedia delle scienze sociali, Roma, Treccani, 1994.

 

 

[13] Sullo sviluppo delle Corti internazionali e sovranazionali vi è ora un’abbondante letteratura. Tra gli scritti recenti, si veda K.J. Alter, The Evolving International Judiciary, in «Annual Review of Law and Social Science», 2011, vol. VII, pp. 387-415. Sui network giudiziari in Europa, M. Claes e M. de Visser, Are You Networked Yet? On Dialogues in European Judicial Networks, in «Utrecht Law Review», May 2012, vol. VIII, n. 2, pp. 100-114.

 

 

[14] Su questo fenomeno, si vedano le importanti riflessioni di J. Komárek, The Place of Constitutional Courts in the EU, in «European Constitutional Law Review», 2013, vol. 9, spec. pp. 427-428 e 449, dove parla di un «displacement effect», nel senso che, se vi sono autorità la cui supremazia è più minacciata dal diritto europeo, queste sono le corti costituzionali.

 

 

[15] Da ultimo, S. Bartole, Giustizia costituzionale (sviluppi recenti), in Enciclopedia del diritto, 2014, p. 504 ss. e G. D’Amico e D. Tega, 1993-2013: la Corte costituzionale tra giurisdizione e politica, in corso di pubblicazione, p. 12 ss. del dattiloscritto.

 

 

[16] Così C. Grabenwarter, Relazione conclusiva della XVI Conferenza delle corti costituzionali europee, Vienna, 2014 (non pubblicato). L’espressione risale, tuttavia, all’attuale presidente del Tribunale costituzionale tedesco, Andreas Vosskuhle. Sulla judicial globalisation si veda anche M. Cartabia e S. Cassese, How Judges Think in a Globalised World? European and American Perspectives, in «Policy Brief», European University Institute, Global Governance Programme, issue 2013/07, December 2013, pp. 1-6.

 

 

[17] D.G. Green, The Demise of the Free State. Why British Democracy and the EU Don’t Mix, London, Civitas, 2014.

 

 

[18] Tanto che si discute sul rapporto tra common law rights, garantiti da strumenti costituzionali che risalgono alla Magna Carta, diritti costituzionali garantiti dallo Human Rights Act e diritti garantiti dal diritto europeo: si vedano le importanti riflessioni di B. Hale, UK Constitutionalism in the March?, Alba Conference, 2014 (non pubblicato), che auspica l’utilizzo delle norme costituzionali britanniche come contro-limiti alla penetrazione del diritto europeo.

 

 

[19] Su cui S. Cassese, L’Unione europea e il guinzaglio tedesco, in «Giornale di diritto amministrativo», 2009, n. 9, pp. 1003-1007.

 

 

[20] 2 BvE 13/13.

 

 

[21] P. Barile, Diritti dell’uomo e libertà fondamentali, Bologna, Il Mulino, 1984, p. 41.

 

 

[22] Da ultimo, in tal senso, Corte Suprema de Justicia de la Nación, Asociación de Trabajadores del Estado, 18.6.2013.

 

 

[23] L. Favoreu, Avertissement, in «Revue internationale de droit comparé», avril-juin 1981, vol. XXXIII, n. 2, pp. 251-253, cit. in Id., Corti cit., p. 17.

 

 

[24] Favoreu, Corti cit., p. 18.

 

 

[25] Ibidem, p. 119.

 

 

[26] M.R. Ferrarese, Dal «verbo» legislativo a chi dice l’«ultima parola»: le Corti costituzionali e la rete giudiziaria, in «Annuario di diritto comparato e di studi legislativi», 2011, p. 63 ss.

 

 

[27] Solange I-Entscheidung: BVerfGE, 37, BvL 52/71 vom 29.05.1974, e Solange II-Entscheidung: BVerfGE, 73 BvR 197/83 vom 22.10.1986.

 

 

[28] BVerfGE, 2 BvR 1390/12 vom 18.3.2014.

 

 

[29] P. Cruz Villalón, Rights in Europe: The Crowded House, King’s College London, Centre of European Law, Working Papers in European Law, n. 01/2012. L’autore propone che, per evitare frizioni, ciascuna Corte punti sulla propria specifica identità. Quella della Corte di Strasburgo sarebbe l’identità di una «Court of Auditors». Quella di Lussemburgo una «Supreme Court for a Supranational Polity». Quella delle Corti costituzionali nazionali «Court for the “Normative” Constitution».

 

 

5.

 

 

L’Italia e l’Europa[1]

 

 

I. Diritto europeo e diritto nazionale

 

 

1. La Costituzione italiana menziona la sovranità nell’art. 1 e nell’art. 11. Il primo riguarda la sovranità interna, il secondo la sovranità esterna.

 

L’art. 1 dispone: «[...] La sovranità appartiene al popolo, che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione».

 

L’art. 11 dispone: «L’Italia [...]; consente, in condizioni di parità con gli altri Stati, alle limitazioni di sovranità necessarie ad un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia fra le Nazioni; [...]».

 

2. La Costituzione italiana non contiene una European clause, salvo il riferimento, contenuto nell’art. 117, primo comma, ai «vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario» rispetto alla legislazione statale e regionale.

 

3. L’art. 11 Cost. è stato la base costituzionale della cessione di poteri statali alla Comunità e all’Unione.

 

Alla cessione si è provveduto con la procedura, prevista dall’art. 80 Cost. Questo dispone: «Le Camere autorizzano con legge la ratifica dei trattati internazionali che sono di natura politica, o prevedono [...] oneri alle finanze o modificazioni di leggi». Le sentenze n. 14/1964 e n. 183/1973 della Corte costituzionale hanno ammesso che con i Trattati si assumano limitazioni di sovranità e ad essi si dia esecuzione con legge ordinaria.

 

4. È opinione prevalente che l’art. 11, che consente cessioni di sovranità, non può essere interamente scollegato dall’art. 1 e che, quindi, le cessioni di sovranità debbono preservare il nucleo essenziale della sovranità interna, che «appartiene al popolo».

 

5. La Corte costituzionale, in una prospettiva dualistica, più che stabilire una sovra-ordinazione gerarchica delle norme comunitarie rispetto a quelle interne, ha riconosciuto che l’ordinamento interno si ritrae quando opera l’ordinamento comunitario: se la norma comunitaria ha efficacia diretta, spetta al giudice comune disapplicare le leggi nazionali contrastanti; se, invece, non ha efficacia diretta è la Corte costituzionale a dichiarare l’illegittimità della norma interna, considerando la norma comunitaria come parametro interposto (sentenze n. 207/2013, n. 102/2008, n. 349/2007 e n. 284/2007).

 

6. La Corte costituzionale ha inteso che «limitazioni di sovranità» equivale a «limitazioni di competenze».

 

7. Nella scienza giuridica italiana la nozione tradizionale di sovranità è criticata. In particolare, si riconosce che essa non possa essere attribuita a un soggetto (popolo, parlamento, Stato), ma debba essere oggettivizzata, ed intesa come sovranità dei valori.

 

8. Secondo una giurisprudenza costante della Corte costituzionale, le cessioni di sovranità incontrano un limite nei «principi fondamentali e nei diritti inviolabili» della Costituzione (sentenze n. 98/1965, n. 183/1973, n. 170/1984). Questi operano come «contro-limiti». Dei «contro-limiti» la Corte costituzionale non ha mai fatto uso.

 

 

II. Giurisprudenza costituzionale in materia di finanza pubblica e privata in relazione ai vincoli europei

 

 

1. La giurisprudenza della Corte costituzionale italiana in materia di finanza pubblica e privata, relativa ai rapporti tra ordine europeo e ordine giuridico nazionale, è simmetricamente opposta a quella della Corte costituzionale tedesca. La giurisprudenza italiana, specialmente negli ultimi anni, ha ribadito ed esteso i vincoli che derivano dal diritto europeo per il diritto italiano, mentre quella tedesca ha esaminato i vincoli che derivano dal diritto interno per il diritto europeo.

 

È, quindi, difficile rispettare la simmetria tra le due relazioni, quella italiana e quella tedesca, perché le due giurisdizioni si sono mosse in direzioni opposte: quella italiana nella direzione di trarre dai vincoli comunitari limiti alla sovranità interna e all’esercizio di poteri pubblici; quella tedesca nella direzione di trarre dalla Costituzione tedesca limiti ai poteri degli organi comunitari.

 

2. In particolare, la Corte costituzionale ha stabilito i seguenti principi in materia di finanza pubblica.

 

2.1. Il trattato sulla stabilità, sul coordinamento e sulla governance nell’Unione economica e monetaria (Fiscal Compact), attuato in Italia con la modifica degli artt. 81, 97, 117 e 119 Cost. e con la previsione di una «legge rinforzata», vincola tutte le pubbliche amministrazioni e riguarda anche l’indebitamento, la spesa, il disavanzo delle regioni e degli enti locali (sentenze n. 88/2014, n. 44/2014, n. 138/2013, n. 8/2013).

 

2.2. L’art. 81 Cost. e la direttiva Ue 2011/85 impongono vincoli che vanno oltre il bilancio annuale e, quindi, la prospettiva annuale non costituisce una base adeguata per politiche di bilancio solide. Sono, quindi, legittimi blocchi triennali dei meccanismi di adeguamento retributivo di dipendenti pubblici (sentenza n. 310/2013).

 

2.3. Gli obiettivi nazionali di contenimento della spesa pubblica, condizionati dagli obblighi comunitari, non consentono di destinare a fini diversi da quelli indicati dallo Stato le anticipazioni di liquidità autorizzate dallo Stato (sentenza n. 85/2014), richiedono la riduzione dei costi delle regioni relativi alla rappresentanza politica (sentenza n. 44/2014), impongono riduzioni di spesa degli enti territoriali (sentenza n. 22/2014), richiedono accorpamento di enti (sentenza n. 236/2013) e divieti di assumere personale (sentenza n. 219/2013), rendono illegittime norme regionali istitutive di misure di assistenza supplementare in contrasto con il piano di rientro (sentenza n. 104/2013), incarichi a tempo indeterminato in Aziende sanitarie locali (sentenza n. 91/2012), gare fatte senza osservare il piano di rientro (sentenza n. 163/2011).

 

2.4. I vincoli di finanza pubblica assunti con l’Unione europea richiedono che la Corte dei conti controlli il rispetto di tali vincoli da parte delle regioni a statuto speciale e delle province autonome, delle regioni e degli enti locali, nonché degli enti del Servizio sanitario nazionale (sentenze n. 40/2014, n. 39/2014, n. 60/2013, n. 219/2013, n. 198/2013).

 

3. In materia di finanza privata, la Corte costituzionale ha stabilito che l’art. 130 Tue garantisce l’indipendenza della Banca d’Italia; quindi, questa va considerata in modo diverso dalle altre autorità indipendenti.

 

4. Rimangono due ulteriori questioni.

 

4.1. Potrebbero presentarsi dinanzi alla Corte italiana questioni simili a quelle che si sono presentate alla Corte tedesca?

 

a. Dal punto di vista processuale è difficile, non essendovi la Verfassungsbeschwerde e non essendovi piena somiglianza tra Organstreit e conflitto tra poteri.

 

b. Dal punto di vista del merito, è possibile, potendosi far valere i limiti dei principi e diritti fondamentali garantiti dalla Costituzione.

 

4.2. Potrebbero presentarsi dinanzi alla Corte costituzionale, in futuro, questioni, simili a quelle decise, dagli anni ’90 in poi, dalla Corte tedesca, nelle quali vengono fatti valere come contro-limite non i principi e diritti fondamentali, ma il principio di democrazia come diritto di auto-determinazione, che comporta la inalienabilità dei poteri del legislatore?

 

A mio parere, se una questione di questo tipo venisse posta, sarebbe difficile per la Corte continuare a restringere i contro-limiti ai soli principi e diritti fondamentali; la Corte dovrebbe far valere l’intera Costituzione come contro-limite. In questo quadro, sembra, però, difficile che si possano invocare i contro-limiti dell’identità costituzionale in base a una eternity clause e di un nucleo essenziale di competenze necessariamente statali.

 

 

* * *

 

 

[1] Schema della relazione all’incontro con i giudici costituzionali tedeschi (Roma, 2014).

 

Sabino Cassese - Dentro la Corte. Diario di un giudice costituzionale
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