Quinta parte
Capitolo 1
Parigi, aprile 2004
Il taxi la lasciò all’ingresso secondario della sua casa d’aste. Scendendo dall’auto, Diana si soffermò ad ammirare la Maison de Fleury che, illuminata da centinaia di luci colorate, splendeva come un palazzo veneziano durante il carnevale. Erano stati fortunati con il clima, perché era una serata di fine aprile piuttosto calda. Varcò la soglia e si ritrovò nel cortile interno, dove grosse candele liquide poggiate a terra in vasi bassi e circolari fiancheggiavano il vialetto e regalavano all’atmosfera un che di esotico. Si sentiva il chiacchiericcio degli ospiti che s’intrattenevano tra l’interno della Maison e il giardino del cortile, dove erano stati sistemati un gazebo e alcuni tavolini con attorno sedie di vimini. I camerieri in livrea si aggiravano tra i tavoli con destrezza. Si tolse la stola di seta, la porse all’addetta al guardaroba e si addentrò all’interno del salone delle esposizioni, seguendo la scia degli altri ospiti.
Lo spettacolo che si presentò ai suoi occhi la lasciò senza parole. La sala era illuminata a giorno e i dipinti di Alain de Fleury erano stati sistemati con estrema cura. Lunghe tavolate con un’abbondanza straordinaria di cibi erano state sistemate in modo tale che dalle grandi portefinestre si accedesse facilmente al giardino e al gazebo. Gli ospiti erano tutti vestiti come a una prima dell’Opéra. C’era chi rideva, chi mangiava e chi chiacchierava allegramente. Diana cercò Olimpia tra la folla, facendosi largo tra le persone che ammiravano i dipinti dell’astro nascente dell’arte francese.
«Un vernissage favoloso», commentò una signora corpulenta. «Non trova?».
Diana rimase in silenzio e annuì, non potendo trovare definizione più adatta per quell’evento. Olimpia aveva superato se stessa. La sua casa d’aste era diventata la più chic di tutta Parigi e gli artisti e i collezionisti facevano a gara per poter esporre e vendere da lei.
Dopo la morte di Davide si era tuffata nel lavoro senza concedersi un attimo di tregua. Erano stati inutili tutti i tentativi per convincerla ad andare in vacanza, ogni tanto. Era sempre la prima ad arrivare alla Maison la mattina, e l’ultima a uscire la sera. Non erano rare le volte in cui Diana le aveva telefonato alle ore più impensabili e l’aveva trovata nel bel mezzo di una riunione o immersa nel lavoro. Sembrava che succhiasse l’energia dai suoi libri e che le fossero indispensabili per vivere. Forse era proprio così, Olimpia aveva sempre vissuto immersa prima nella biblioteca di casa sua e ora nella sua collezione di libri proibiti. Era arrivata a collezionarne così tanti da ricevere premi e inviti da parte delle biblioteche di tutto il mondo. Spesso si recava a Londra, Tokyo, New York e Boston per conferenze e presentazioni. Era diventata una “star del libro antico”, come si divertiva a definirla Diana. A volte l’accompagnava perché da un paio d’anni era diventata la responsabile dell’ufficio legale e di lì a poco avrebbe gestito l’amministrazione della sede veneziana della Maison de Fleury, che stava per aprire i battenti. Si vedevano più a Parigi che nella loro Venezia. Era raro che Olimpia tornasse in laguna. C’erano troppi ricordi lì.
«Eccoti, finalmente!», esclamò Olimpia, abbracciandola. Diana osservò la sua amica e le sorrise. Stava benissimo avvolta in un abito rosso ciliegia che le arrivava fino a metà polpaccio. Sulle labbra un rossetto dello stesso colore le illuminava il viso.
«Sta andando alla grande, vedo», commentò, dopo averle dato un bacio sulla guancia.
«Sì, ci sono molti critici e giornalisti del settore», le confermò con un sorriso. Infilò il braccio sotto il suo e la scortò verso un capannello di persone, in piedi attorno a un uomo. Diana lo riconobbe subito, era Alain. Non lo vedeva da un po’ di tempo e le fece piacere notare come avesse perso un po’ della timidezza che gli faceva abbassare lo sguardo ogni volta che qualcuno lodava un suo dipinto. Ora appariva più sicuro di sé, anche più bello. Stava bene con l’abito scuro e, benché non indossasse la cravatta né scarpe eleganti, appariva fiero come un principe. Doveva essere il suo sangue blu, pensò avvicinandosi a lui per salutarlo.
«Diana!», esclamò lui, illuminandosi. Lei ricambiò il sorriso e lo abbracciò. Le piaceva da matti sentirlo pronunciare il suo nome, con l’immancabile accento sulla A finale. Mentre Louis e Isabelle avevano imparato a non accentare tutti i nomi italiani, Alain continuava imperterrito a francesizzare ogni termine straniero. «Noblesse oblige», gli diceva, per prenderlo in giro e farlo arrossire. Le piaceva andare a Parigi e stare con Olimpia, e con quella che ormai era diventata la grande famiglia della sua amica.
«Allora, che te ne pare?», le chiese Alain, allargando le braccia come per abbracciare la sala. Olimpia si avvicinò e gli mise una mano sulla spalla, in un gesto protettivo e fiero allo stesso tempo. Diana la osservò ed ebbe una stretta al cuore. La sua amica non aveva una relazione da anni, ormai. Per lei erano tutti amici. Diana sapeva che il giovane artista provava una forte ammirazione per Olimpia che però lei considerava come un normale segno di riconoscenza per avergli permesso di lavorare alla Maison e averlo incoraggiato a esporre le sue opere.
«È tutto bellissimo, perfetto, direi», rispose ad Alain. Un cameriere le passò accanto e Diana afferrò una flûte di champagne.
«Posso parlarti un attimo, cara?», le chiese Olimpia, lasciando Alain solo con i giornalisti e i critici che lo stavano tempestando di domande.
«Qui staremo più tranquille. Ricordi quando anni fa ti feci sentire la versione degli Angra di Wuthering Heights e tu mi dicesti che era meglio di quella cantata da Kate Bush?», esordì Olimpia, guardando davanti a sé.
«Mi ricordo, sì, e lo penso ancora: la chitarra elettrica e la voce maschile danno più l’idea delle atmosfere cupe di Cime tempestose, a cui si ispira la canzone… ma mi hai fatto venire qua per parlarmi di musica?»
«No, ovvio», rise, girandosi verso di lei. «È che ogni tanto mi piace pensare che il tempo per noi non passi mai, siamo sempre quelle due ragazzine che ascoltavano buona musica chiuse in camera mia».
«Infatti lo siamo, nonostante i nostri quarantaquattro anni suonati. Io vado ancora in giro con Hotel California degli Eagles a tutto volume mentre guido», replicò Diana, indovinando i pensieri della sua amica. Non tornava quasi mai con il pensiero al passato, ma quando capitava, era per sentire Davide ancora vicino a lei, a godere dei suoi successi e delle sue soddisfazioni lavorative.
«Già, ricordo quando la cantavamo a squarciagola, con il rischio che ci venissero a prelevare per disturbo alla quiete pubblica».
«Più che per disturbo alla quiete pubblica, direi che avrebbero dovuto arrestarci per oltraggio al pudore. Eravamo stonate come due campane!».
Scoppiarono a ridere. Olimpia posò una mano sul braccio di Diana e tornò improvvisamente seria. «Sei riuscita a capire che fine abbia fatto quella lettera?».
Diana scosse il capo in segno di diniego. «Prima di venire a Parigi, ho fatto un ultimo tentativo…».
«Sei andata da lei?», le chiese, trattenendo il respiro.
«Sì, ci sono andata e le ho parlato».
«Se non mi hai detto nulla finora, immagino che tu non sia riuscita a sapere niente», mormorò Olimpia, più a se stessa che all’amica. Erano anni che cercava di recuperare la lettera di Peggie, che Davide avrebbe dovuto portarle, prima di morire in quell’assurdo incidente automobilistico. Ora che i documenti di Veronica Franco si trovavano nel caveau della banca non le restava che capire da dove provenissero. Aveva bisogno di chiudere il cerchio, di capire la ragione per la quale Anselmo le aveva lasciato un’eredità così importante. Perché a lei, dal momento che aveva un nipote e una pronipote? Sperava di trovare una spiegazione in quella lettera, sebbene non ne fosse certa.
«Volevi chiedermi qualcosa di lei?», le domandò Diana, riportandola alla realtà.
«Che cosa dovrei chiederti?».
Diana fece spallucce. «Non so, per esempio se gli assomiglia», azzardò.
«Non mi interessa», fu il commento laconico di Olimpia, che sperava di cambiare discorso. Non era mai riuscita ad accettare l’arrivo di quella figlia, l’aveva vissuto come un tradimento, un’intrusione che li aveva allontanati per sempre, anche dopo la morte di Davide. Non sapeva nemmeno cosa facesse nella vita. Non poteva pensare che l’unica parte di Davide vivesse in quella ragazza, che non era il frutto della loro unione. Il tempo e il silenzio da ambo le parti avevano edificato un muro così alto e invalicabile che sarebbe stato stupido cercare di abbatterlo. Lei non aveva mai cercato di mettersi in contatto con la figlia di Davide, né la figlia si era mai fatta viva.
«È un fardello troppo pesante, eh?»
«No, semplicemente non mi interessa», tagliò corto.
«Va bene, non insisto», sussurrò Diana, dandole una leggera pacca sulla spalla. Si sentì un brusio accogliere qualcuno, doveva essere arrivata la sua amica attrice, Sophie Lambert. Olimpia si alzò dal divano e allungò la mano verso l’amica: «Andiamo? Ti presento la donna più bella del mondo», le disse.
«Addirittura?», rise Diana. «Io la vedo ancora come la splendida quattordicenne che aveva fatto innamorare tutti i fratellini dei nostri compagni di classe del liceo… per quelli della nostra età era troppo piccola».
«Ne è passato di tempo da allora ma lei non è cambiata per niente e qui in Francia è l’attrice per eccellenza, l’hanno ricoperta di onorificenze, anche se lei ha i piedi ben piantati a terra, sai?», le spiegò mentre si dirigevano verso la sala principale.
«Buon per lei», disse Diana, ma Olimpia non udì il suo commento, perché la folla era in un composto delirio per Sophie, attorniata da giornalisti e fotografi. Aveva uno splendido scialle di seta nero decorato con grandi rose rosse, che le cadeva da un lato lasciando scoperta una spalla. Era bella da togliere il fiato nel suo tubino nero e lo sapeva bene. Sorrise a Olimpia, scorgendola tra la folla, e alzò il braccio per salutarla. I fotografi si scatenarono per immortalare il loro abbraccio. I flash illuminavano a giorno il cortile della Maison de Fleury e alcuni invitati applaudivano. Si erano conosciute durante una trasmissione televisiva. Sophie era stata invitata per parlare del suo ruolo di ambasciatrice dell’unicef. Olimpia avrebbe dovuto invece raccontare perché avesse organizzato presso la Maison un’asta di beneficienza per garantire la terapia a base di latte terapeutico ai neonati nigeriani e ciadiani, colpiti da malnutrizione. Avevano chiacchierato nella sala trucco, prima di andare in onda, e a trasmissione finita si erano scambiate i numeri di telefono per organizzare un altro evento di beneficenza.
«Sophie, di qua…», gridò uno dei fotografi. Olimpia, per fare in modo che la sua amica potesse mettersi in posa, si girò verso il salone e a quel punto il cuore si fermò per un istante. Quegli occhi li avrebbe riconosciuti ovunque: il taglio, il colore e l’intensità dovuta alle folte sopracciglia che li incorniciavano e che a lei tanto ricordavano la dolcezza degli sguardi nei visi dipinti da Renoir.
«Davide…», mormorò. Rimase ferma, incapace persino di pensare. E mentre cercava disperatamente di capire che cosa le stesse accadendo, nella sua testa risuonarono le parole della canzone che lui tanto amava:
Hello darkness, my old friend
I’ve come to talk with you again
because a vision softly creeping
left its seeds while I was sleeping
and the vision that was planted in my brain
still remains
within the sound of silence.
Si portò istintivamente le mani alle orecchie, per poi sollevarsi sulla punta dei piedi cercando di incrociare quegli occhi, ma li aveva persi tra la folla. Era confusa, non capiva se li avesse solo immaginati. Doveva essere impazzita, che diavolo le prendeva? Vide Diana correre verso di lei e afferrarla per le spalle, proprio mentre Sophie le stava dicendo qualcosa.
«È qui, Olimpia», gridò Diana, cercando di sovrastare il brusio sempre più concitato della gente attorno all’attrice.
«Diana». La voce di Olimpia era atona. «Di chi stai parlando? Non capisco».
«Tesoro, ascolta…».
«Ah, ma allora tu sei la famosa amica di Olimpia?», s’intromise Sophie, stringendole la mano con vigore.
«Sì, sì, molto piacere», la liquidò Diana, tornando a rivolgersi a Olimpia, che però si era allontanata verso la sala interna della Maison. Avanzava a passo deciso, incurante della calca che si era formata attorno a lei e a Sophie.
Alain le andò incontro con un bicchiere di vino rosso in mano. Olimpia glielo prese e ne bevve un sorso prima di andare dritta verso la ragazza che la stava fissando da qualche minuto.
«Ma…? Dove vai?», le domandò lui, stupito da quel gesto. La seguì con lo sguardo e i suoi occhi si posarono su una giovane donna in jeans e scarpe da tennis. Nonostante non fosse vestita in maniera adeguata all’occasione, sembrava perfettamente a suo agio. Aveva lunghi capelli lisci e neri come la pece, un viso ovale, labbra tumide e senza un velo di rossetto. A renderla bellissima, però, erano i suoi splendidi occhi, dal taglio leggermente allungato e di un insolito colore verde acquamarina.
Olimpia si avvicinò alla ragazza e per qualche istante non si dissero nulla. Fu la giovane a sistemarsi la borsa sulle spalle e a tenderle poi la mano.
«Molto piacere, signora Cattanei», disse, schiarendosi la voce. «Sono Margherita Calvani, la figlia di Davide».
Capitolo 2
«Lo so», replicò Olimpia, stringendole la mano. «Hai i suoi stessi occhi». Margherita accennò un sorriso. Non era imbarazzata quanto piuttosto frastornata dal chiacchiericcio che la circondava. Finalmente l’eccitazione per l’arrivo di Sophie Lambert era scemato e l’attrice stava ora ammirando rapita i dipinti di Alain de Fleury.
«Cara, questo tuo artista è un fenomeno», disse a Olimpia, passandole accanto e sfoderando uno dei suoi sorrisi aperti, tanto apprezzati dagli ammiratori.
Anche Alain si era fermato accanto a Olimpia, attratto da Margherita. Sembrava non riuscisse a staccarle gli occhi di dosso. Non ebbe però il tempo di presentarsi, perché Sophie gli chiese informazioni per un ritratto che voleva commissionargli. Un’occasione imperdibile per un giovane artista.
«Come mai sei qui a Parigi, Margherita?», le domandò Olimpia, quando rimasero da sole.
«Sono venuta qui per vedere lei, signora Cattanei», le disse, semplicemente. Più Olimpia la guardava e più le sembrava di vedere Davide. Era di una bellezza acerba. Sembrava una ragazzina appena uscita dal liceo, anche se doveva avere all’incirca ventiquattro anni ed era probabile che si fosse già laureata. L’aveva chiamata Margherita, come Peggie, il cui nome per esteso era Margaret. Sorrise a quel pensiero e, sebbene non si fosse mai pentita di non avergli chiesto nulla riguardo alla ragazza, ebbe la certezza che il nome lo avesse scelto Davide. In quel momento non provava alcun rancore verso quella ragazza, ma era solo curiosa di saperne di più sul suo conto e su che tipo di padre Davide fosse stato per lei. Per anni aveva evitato di soffermarsi a pensare a lui come a un genitore attento e premuroso, eppure doveva essere stato così, non poteva essere altrimenti. Davide era stato uno degli uomini più buoni e dolci che avesse mai conosciuto e lo aveva amato alla follia anche per questa ragione. Ora che sua figlia era davanti a lei, in carne e ossa, non riusciva a provare sentimenti di stizza nei suoi confronti, perché era parte di lui. Ogni remora, ogni rancore e tutti i dubbi sembravano svaniti di colpo, come quando il vento porta via le nuvole e il cielo riappare terso. Avvertì la forte presenza di Davide tra loro e capì che aveva rimandato quell’incontro per paura di soffrire ancora. Era giunto il momento di far parlare il cuore.
«Mi chiamo Olimpia», la corresse.
«Va bene, Olimpia», ripeté Margherita.
«Quanto tempo ti tratterrai a Parigi?», le chiese.
«Non lo so. Dipende…», mormorò, abbassando lo sguardo. Olimpia non le chiese da che cosa dipendesse la durata del suo soggiorno in Francia, sapeva che avrebbe avuto modo di capirlo nei giorni a venire. Se la figlia di Davide era venuta a cercarla doveva essere stata spinta da un motivo importante e non sarebbe andata via fino a quando non glielo avesse rivelato. Non restava che attendere.
«Come hai avuto l’invito per stasera?», le chiese però Olimpia.
«Ho telefonato al vostro ufficio stampa e ho detto di essere una giornalista italiana», le rispose.
Olimpia spalancò gli occhi per la sorpresa: «Ed è vero?»
«Sì e no. In realtà scrivo per una rivista d’arte che si chiama “Arte per l’arte”, ma solo come hobby. Il mio caporedattore ha fornito tutte le credenziali e così ho potuto fare l’accredito per stasera. Mi sono da poco laureata in Storia dell’arte e vado a visitare le mostre per loro».
«Capisco».
«Alain de Fleury è un pittore molto dotato, se mi posso permettere», esclamò Margherita, dopo qualche attimo di esitazione.
«Lo è».
«Crede… credi che sia possibile parlare…», mormorò Margherita, spostando il peso da una gamba all’altra. Sembrava improvvisamente nervosa e non aveva nemmeno fatto caso alla domanda di Olimpia.
«Parlare con Alain, intendi?», le domandò.
«No, cioè sì, ma non ora…», farfugliò la ragazza, arrossendo. «Intendevo con te. Io e te possiamo parlare un attimo? Non stasera, dico, anche domani… o quando vuoi».
Olimpia sospirò. E così era arrivato il momento di confrontarsi con la vita che Davide aveva vissuto senza di lei, con ciò che aveva amato e accudito. Ora voleva sapere tutto di lui. Aveva sete di notizie che lo riguardavano, solo per farlo rivivere ancora nella sua memoria e immaginarlo in situazioni di cui lei non era a conoscenza.
«Vieni domani. Andremo a pranzo insieme e così mi dirai tutto ciò che vuoi».
Margherita le sorrise, visibilmente sollevata. Annuì e le consegnò il suo biglietto da visita. «Ecco il mio numero di cellulare, nel caso le servisse».
Louis parcheggiò sotto casa di Olimpia e si girò a guardarla, preoccupato. «Ne sei proprio sicura? A me non sembra una buona idea», asserì, sovrappensiero.
Olimpia alzò gli occhi al cielo e strinse nervosamente le dita attorno alla sua pochette. «Sì, ne sono sicura. Perché me lo chiedi?»
«Perché ti conosco, so che poi ci potresti stare male».
Abbassò gli occhi sulle sue dita e per qualche istante concentrò la sua attenzione sulle unghie laccate di rosso. Louis aveva ragione, il senso di colpa le ottenebrava il cervello, a volte. Si sentiva responsabile della morte di Davide. I suoi pensieri spesso si erano soffermati su troppi “se”: se non si fossero incontrati di nuovo, se lei non gli avesse proposto di andare a vivere a Parigi, se avesse insistito affinché prendesse l’aereo e non l’auto… e così via. La sua parte più razionale le imponeva di smetterla di tormentarsi inutilmente, eppure quei “se” continuavano ad affacciarsi, meschini, alla sua mente. Margherita non aveva detto nulla al riguardo e Olimpia si era stupita che non l’avesse aggredita dicendole che il padre era morto a causa sua. La conosceva da poche ore eppure aveva la forte impressione che somigliasse molto a Davide, e che non l’avrebbe mai accusata.
«La vedo solo per un pranzo», aggiunse.
«Lo so, ma non è il pranzo in sé a preoccuparmi quanto l’impatto emotivo che potrebbe avere su di te», replicò Louis.
Olimpia aprì la portiera, mise un piede fuori dall’abitacolo, ma poi parve ripensarci e tornò a rivolgersi a lui: «Sai, se non potessi contare sul tuo appoggio, forse non le avrei mai proposto di vederci domani a pranzo… ma, purtroppo per te, so che ci sei».
«È così», ammise Louis con un sorriso.
«Appunto», confermò. «Dopotutto si tratta di una chiacchierata fra due donne che hanno amato lo stesso uomo, anche se in maniera differente».
«Ok, hai ragione», le disse poggiando le mani sul volante. «Comunque… gran bella serata. Alain era in visibilio».
«Prima che arrivassero gli ospiti ho temuto che svenisse nel mio ufficio, era terrorizzato. Quando crescerà? Ormai ha più di trent’anni, dovrebbe pensare seriamente alla carriera oppure a sposare una brava ragazza che gli partorisca una nidiata di piccoli de Fleury, per evitare l’estinzione della stirpe», rise Olimpia, uscendo dalla macchina. Si affacciò al finestrino per salutare Louis che la stava guardando con un’espressione maliziosa in viso.
«Che c’è? A che cosa stai pensando?», gli chiese.
«Alain… non riusciva a staccare gli occhi dalla signorina Calvani».
«Ci risiamo!», Olimpia si strinse nelle spalle. «Quel ragazzo ha l’innamoramento facile. Quante volte si sarà invaghito, quest’anno?»
«Ah, non dirlo a me, che me lo ritrovo nel mio ufficio ogni due minuti a piangere o a sospirare a seconda che gli sia andata male o bene».
«Chi avrebbe mai detto che sarebbe diventato un dongiovanni!», esclamò Olimpia, scuotendo il capo. Fino a qualche anno prima, il rampollo dei Fleury spasimava per lei e ora invece trovava una musa in ogni angolo di Parigi e ogni volta la ragazza di turno era “la modella per eccellenza”. Un tipo bizzarro, come tutti gli artisti, del resto. Peggie aveva ragione quando le diceva che se s’impara a gestire gli artisti, s’impara a governare il mondo. Le sarebbero stati molto utili i suoi consigli, prima di intraprendere la strada di direttrice e proprietaria della casa d’aste de Fleury. Per fortuna, la sua Maison era specializzata principalmente in libri antichi e gli antiquari, o i collezionisti, erano molto più ragionevoli dei pittori. Anselmo era stato un vero maestro per lei. Aveva ritrovato i suoi gesti e le sue piccole manie in moltissimi antiquari che frequentavano la Maison ed era riuscita a instaurare ottimi rapporti di collaborazione perché sapeva come relazionarsi con loro e come rispettarne le esigenze.
«Buonanotte, Louis, ci vediamo domani in ufficio».
«Notte», ricambiò lui, mettendo in moto l’auto. Olimpia lo vide svoltare l’angolo, girò sui tacchi ed entrò nel suo palazzo. Aveva bisogno di riposare, la giornata che la attendeva sarebbe stata molto impegnativa.
Capitolo 3
Alain entrò nel suo ufficio e si diresse a grandi passi verso la scrivania, dietro la quale Olimpia stava lavorando. Alzò gli occhi e lo guardò con aria interrogativa, prima di fargli cenno di sedersi. Il suo aspetto era ancora quello di un ragazzino, nonostante avesse superato la trentina: occhi azzurri dal taglio allungato, che si illuminavano quando rideva, e capelli biondi e ondulati da far invidia a una donna. Il timido adolescente che non parlava se non quando interrogato si era trasformato in un uomo bello e dai modi impeccabili. Del resto non poteva essere altrimenti, apparteneva a una delle famiglie nobili più blasonate di Francia ed era cresciuto con Yvonne de Fleury, una donna straordinaria che a Olimpia ricordava molto Peggie.
«Lei chi è?», le domandò, posando i gomiti sulla scrivania.
Nonostante Olimpia avesse capito perfettamente a chi si stesse riferendo, scrollò il capo e chiese: «Di chi parli?».
Alain sbuffò e si appoggiò alla spalliera della poltroncina, continuando a mantenere lo sguardo fisso su di lei. «Suvvia, Olimpia, sai benissimo di chi parlo. Quella ragazza che era con te, la creatura meravigliosa con cui chiacchieravi, ieri sera durante il mio vernissage».
«Ah, quella…». Provava quasi piacere a stuzzicarlo. Alain era ingenuo e perso nella sua arte, sembrava sempre cadere dalle nuvole, al contrario di lei che aveva i piedi fin troppo piantati in terra. Le piaceva stare con lui, le era stato vicino dopo la morte di Davide e l’infatuazione si era presto trasformata in un profondo legame d’amicizia. «Si chiama Margherita Calvani, è la figlia di Davide», gli spiegò, infine.
«Il tuo Davide, intendi?», domandò, incupendosi. «Perdonami, Olimpia, non ti avrei mai chiesto di lei se avessi saputo…».
«Non essere sciocco», lo interruppe. «Primo, non potevi saperlo; secondo, non è un argomento tabù. Tutti sapevano che Davide aveva una figlia, ed eccola qui. Ci vado a pranzo tra…». Controllò l’ora. «Tra meno di mezz’ora».
«E ti fidi di lei?», le domandò.
«Perché non dovrei?», gli chiese a sua volta, aggrottando la fronte.
Alain posò le mani sulla scrivania, alzò il viso e sospirò: «Sei una donna bella, ricca e famosa. Chiunque può avvicinarsi a te con brutte intenzioni, puntando solo al tuo conto in banca. Ricordatelo sempre».
«Non ha dissotterrato l’ascia di guerra, prima di venire qui, Alain. Dubito che voglia dei soldi».
«Già, immagino che tu abbia ragione. È così bella, poi».
«Che cosa c’entra? Il tuo animo di artista è seriamente convinto che la bellezza sia un deterrente per la cattiveria?», gli sorrise sorniona.
«Chi diceva: “Bellezza è verità, verità è bellezza, questo solo sulla Terra sapete, ed è quanto basta”?»
«Keats, Ode all’urna greca. Diceva anche che una cosa bella è una gioia eterna. Siamo d’accordo… lavoriamo entrambi in una casa d’aste e di bellezza ne vediamo a iosa ogni giorno, Alain. Tuttavia, non sempre ciò che è bello è anche buono. Se leggessi un po’ di più, sapresti che la letteratura è piena di donne e uomini bellissimi ma malvagi».
«Ehi, io leggo abbastanza. Mai quanto te, ovvio», esclamò, punto sul vivo. «Comunque, hai ragione. Io da piccolo ero innamorato perso della bella ma crudele Milady».
Risero entrambi e poi l’argomento si spostò sul vernissage della sera precedente. Le foto di Alain, dei suoi dipinti e di Sophie Lambert erano su tutti i giornali e le offerte per acquistare anche solo un quadro di piccole dimensioni erano cresciute in maniera esponenziale. Erano aumentati anche coloro che desideravano farsi ritrarre dall’artista e i giornalisti lo avevano subissato di richieste per interviste e servizi fotografici. «Sei una star, adesso», lo aveva canzonato Olimpia, in realtà fiera come una chioccia. Alain era parte della sua grande famiglia allargata e si sentiva fiera di lui.
Mancavano pochi minuti all’una quando la lasciò sola per prepararsi a ricevere Margherita. La commuoveva che tutti si fossero stretti attorno a lei, come un cordone di sicurezza, per evitare che la figlia di Davide potesse essere un’ulteriore fonte di dolore. Olimpia però ne era certa: Margherita non rappresentava un pericolo, quanto piuttosto la prova che il suo amore perduto continuava a vivere attraverso di lei. Se per lungo tempo aveva evitato di rivolgere i suoi pensieri verso quella ragazza, ora che l’aveva vista voleva sapere tutto. Lui era dentro di lei, nel suo sangue, nella sua testa.
Si alzò dalla scrivania e aprì la stanza segreta, dove custodiva la sua collezione. Le bastavano solo cinque minuti in quel luogo magico e tutto suo per ritrovare se stessa. Si avvicinò allo scaffale che conteneva i testi più antichi. Sfilò le Terze Rime della Franco e sorrise: il suo primo libro proibito, il numero uno della collezione. Veronica Franco. Sempre lei. C’era quando aveva cominciato a collezionare libri. C’era quando aveva fatto l’amore per la prima volta. C’era quando aveva rivisto Davide a Venezia. E ora si ritrovava madrina di battesimo dell’ultima nata di Isabelle, che aveva chiamato Veronique, in onore alla Franco. Una bambina bella e testarda che Olimpia adorava come se fosse sua figlia.
«Vorrei non fosse un peccato che mi piaccia così tanto fare l’amore», citò a memoria, chiudendo il libro e prendendone un altro, dallo scaffale superiore. Livre de la Cité des Dames di Christine de Pizan. Un’autentica rarità, trovata a Londra un paio di anni prima. Una perla per la sua collezione di libri proibiti. «Sono certa che quest’opera farà chiacchierare a lungo i maldicenti», scriveva la coraggiosa Christine. Lo ripose con cura sullo scaffale e prese un altro volume. Sorrise. Il romanzo dell’ex ufficiale di marina austriaca e giornalista Franco Mistrali, Maria Maddalena, gli amori della peccatrice, messo all’Indice su decreto del 3 aprile 1862 ma stampato a Milano dalla tipografia Pagnoni, due anni prima. I censori avevano ignorato il suo libro sui vampiri, stigmatizzando invece il romanzo tutto sommato innocuo sulla Maddalena.
Il telefono prese a squillare. Olimpia mise a posto il libro di Mistrali e si avvicinò alla scrivania, si tolse un orecchino e rispose al telefono. Dalla hall l’avvisavano che era attesa dalla signorina Calvani. Riagganciò e fece un respiro profondo. Era pronta ad affrontare i demoni del suo passato.
Si andarono a sedere in un angolo poco affollato del Café de Flore. Accanto a loro un ragazzo dalla folta barba scura e gli occhialini tondi sorseggiava un caffè, mentre sfogliava il saggio Le Siècle de Sartre di Bernard-Henri Lévy. Olimpia sorrise, ai tavoli del Café vedeva spesso studenti di filosofia, che trascorrevano interi pomeriggi, studiando per gli esami. Margherita gli concesse una rapida occhiata prima di sedersi e poi si concentrò sul menu.
«Parlami di te», la esortò Olimpia. Il cameriere aveva portato loro le ordinazioni e per qualche minuto erano rimaste in silenzio a mangiare.
«Oh, c’è poco da aggiungere alla mia laurea e alla mia collaborazione con la rivista “Arte per l’arte”, sto cercando di capire cosa fare», rispose facendo spallucce. «Da quando papà…», s’interruppe e arrossì.
«Puoi parlare di lui con me», la rassicurò Olimpia con un sorriso. Margherita aveva pronunciato la parola “papà” con una tale naturalezza, che era impossibile rimanere turbati.
La ragazza sospirò. «È che non mi sono ancora abituata all’idea che lui non ci sia più», ammise infine, e la voce s’incrinò lievemente.
«Non ci si abitua mai, temo», mormorò Olimpia, quasi a se stessa.
«Già».
«Ma che stavi dicendo? Da quando tuo padre…?», le chiese dopo qualche istante. Non era difficile indovinare la direzione dei pensieri di entrambe. Davide dominava ancora la loro vita e la sua assenza aveva creato un vuoto che non si sarebbe mai riempito. Sarebbero andate avanti, avrebbero vissuto momenti felici, ma senza poterli più condividere con lui.
«Da quando papà ha chiuso la bottega dove avrei dovuto lavorare anch’io, ho poche prospettive per il futuro», riprese Margherita. «Non è un buon momento per i laureati in materie umanistiche. Però non voglio annoiarti con i miei problemi da neolaureata».
«Non mi annoi affatto, che dici? Se posso…».
«Vedi, Olimpia», la interruppe. Aveva il viso in fiamme. Olimpia la osservò: assomigliava così tanto a Davide quando era imbarazzata. «Io, in realtà, sono venuta a cercarti a Parigi per un motivo ben preciso».
«Sarebbe?».
Margherita prese fiato, posò la forchetta e la guardò dritto negli occhi. Era serissima, appariva chiaro che ciò che le stava per dire era talmente importante da giustificare il suo viaggio a Parigi. «Quando papà è morto nell’incidente stradale aveva con sé un pacchetto per te», disse.
Olimpia trattenne il respiro e rimase in silenzio. Il suo pensiero andò immediatamente a Peggie, non poteva essere altro che la sua lettera.
«Era tra gli oggetti personali che mi hanno restituito quando sono andata a identificare il suo corpo», continuò Margherita, il tono della voce si era abbassato.
«Oh Dio…». Olimpia si coprì le labbra con una mano, facendo uno sforzo immane per rimanere calma e non piangere.
«No, non è come credi», esclamò, come leggendo nei suoi pensieri. «Sembrava addormentato. Era bello come sempre, te lo assicuro. Aveva solo un graffio sulla fronte. Qui…», le disse, indicandole un punto appena sopra l’occhio sinistro.
«Margherita, io non…», tentò di parlare ma s’interruppe, sopraffatta dall’emozione e dal dolore che si rinnovava nel suo cuore, già ferito.
«Non dire nulla. Lo so che non sei stata bene. Me lo disse tuo padre. Chiesi di te per darti il pacchetto e lui mi rispose che avevi avuto un crollo e che eri ricoverata in ospedale. Quando la tua amica mi ha chiesto della lettera di Peggie ho glissato, perché volevo essere io stessa a consegnartela. Dopo la morte di papà però ho avuto troppe cose da fare…».
«Ho saputo del funerale quando ormai lo avevate già celebrato. Mi hanno sedato e per due giorni sono stata in una sorta di trance», spiegò, allontanando il piatto e posando i gomiti sul tavolo. Si prese il viso tra le mani e abbassò lo sguardo, incapace di reggere quello di Margherita. Era come se lo stesso Davide la stesse osservando.
«Tuo padre aveva gli occhi lucidi mentre me lo diceva e io, che prima ti odiavo… lo ammetto… be’, io ho capito quanto anche tu stessi male», replicò Margherita. «Papà mi parlava spesso di te, ti amava davvero e so che anche tu lo amavi. So anche della gravidanza di mamma… so che la gravidanza non era voluta, eppure sono nata lo stesso».
«Davide le non avrebbe mai chiesto di abortire», disse Olimpia, tornando con il pensiero alla mattina in cui Lisa era piombata nel piccolo appartamento di Davide per dirgli che era incinta. Ricordava la sua reazione. Avrebbe voluto morderla, graffiarla, farle del male perché le stava togliendo Davide.
«Sì, è vero. Papà era una persona fantastica e mi ha amato nonostante io rappresentassi l’unico ostacolo per avere te, Olimpia. Non negarlo, lo so». La voce di Margherita interruppe il flusso dei ricordi.
«Non ti ha mai visto come un ostacolo», mormorò, ripensando alla conversazione che lei e Davide avevano avuto a Londra, quando le aveva chiesto di poterle presentare sua figlia. Quanto era stata sciocca a irrigidirsi e a chiudersi in quel suo ostinato silenzio. «Mi disse che avrebbe voluto farci conoscere, ma all’epoca ero troppo presa da me stessa per capire l’importanza di ciò che mi stava proponendo. Ero gelosa. Che sciocca», aggiunse.
Margherita si asciugò le lacrime e attese qualche istante prima di dirle: «Lo disse anche a me. E anch’io ero gelosa…».
Si guardarono e sorrisero, sapendo di non essere più nemiche. Forse non lo erano mai state. C’erano voluti anni per comprenderlo, ma quel giorno, sedute a uno dei tavoli del Café de Flore, si erano accorte del tempo che avevano sprecato a provare un rancore inutile.
Capitolo 4
«Si tratta di un super 8 millimetri a colori con la pista magnetica sonora», disse Louis, esaminando la pellicola e rigirandosela tra le dita. «Si dovrebbe chiedere a qualcuno di trasferirla su dvd per vederla».
Olimpia era seduta alla scrivania e osservava i movimenti delle mani di Louis, come ipnotizzata. «Qualsiasi cosa pur di riuscire a vederla. Mi puoi aiutare?».
Louis annuì. «Certo, chiederò a un mio amico che lavora per il cinema, lui ha tutti gli strumenti per fare questo lavoro. Immagino che tu voglia vederlo al più presto».
«Sì, se possibile», mormorò sentendosi improvvisamente stanca ma sollevata. Era sicura che in quella pellicola si trovasse la risposta ai suoi dubbi. Margherita le aveva consegnato il pacchetto poco meno di un’ora prima, quando erano rientrate dal Café de Flore. L’involto le era sembrato un po’ troppo voluminoso per essere una semplice lettera, a meno che non fosse un libro di piccole dimensioni. Quando lo aveva aperto e si era ritrovata quello strano aggeggio in mano, non aveva capito subito di cosa si trattasse, anche perché non era accompagnato da alcuna lettera o nota di spiegazione. Persino Margherita ne era rimasta stupita. Ma l’intestazione e il timbro dello studio Lazzarini non lasciavano adito a dubbi, quindi avevano scartato l’ipotesi di telefonargli per chiedere spiegazioni.
«Va bene, se vuoi vado adesso dal mio amico e stasera passo da te», le disse Louis.
«Sì, ma vorrei che ci fossi anche tu. Non credo di potercela fare da sola. Margherita…», disse rivolgendosi alla ragazza, che era rimasta seduta in disparte. «Vuoi vederlo anche tu?».
Olimpia intravide con la coda dell’occhio lo sguardo perplesso di Louis. Margherita arrossì e provò a declinare l’invito. Era una cosa privata che riguardava solo Olimpia.
«No», replicò Olimpia. «Riguarda anche te. Sei venuta fino a Parigi per portarmi questa pellicola».
«Avrebbe dovuto fartela vedere papà, non io», commentò Margherita.
«Io l’avrei vista con lui e con Louis… In effetti, non fai altro che prendere il posto di Davide».
Si sarebbero ritrovati alle nove a casa di Olimpia. Avrebbero cenato assieme e poi avrebbero visto la pellicola. Louis le promise di fare del suo meglio per arrivare in tempo. «Robert è un mago», aggiunse. «Non credo che il trasferimento della pellicola in un dvd gli faccia perdere tempo». Quindi le salutò e uscì subito. Anche Margherita stava per prendere congedo, ma fu bloccata dall’arrivo di Alain nell’ufficio di Olimpia.
Quando la scorse, Alain si arrestò di colpo. «Scusami, sei occupata», disse, senza tuttavia staccare gli occhi da Margherita. Anche lei sembrava a disagio. Olimpia li osservò per qualche istante e sorrise. Non sarebbero stati affatto male insieme, pensò. Lei così seria e precisa, lui invece bizzarro e timido.
«Vieni, vieni, Alain», gli disse invitandolo ad avvicinarsi. «Ti presento Margherita Calvani, la figlia di Davide. Margherita, lui è Alain de Fleury».
I due si strinsero la mano, abbassando entrambi lo sguardo. Olimpia li osservò divertita. L’espressione di Margherita le ricordava tanto il broncio che lei stessa aveva tenuto quando aveva incontrato Davide per la prima volta nella bottega di Anselmo. Trattenne a stento una risata.
«Alain, Margherita scrive per una rivista italiana di arte…».
«Davvero?», esclamò lui, alzando d’improvviso la voce. Tossì e cercò di ricomporsi. Quanto erano buffi, entrambi, goffi come chi è sotto choc per un colpo di fulmine.
«Potresti rilasciarle un’intervista», azzardò Olimpia, con un sorriso sornione.
Arrossirono entrambi e risposero contemporaneamente: «Sì».
«Va bene, è cosa fatta. Andate pure al bar della Maison e chiacchierate. Ora devo lavorare», li congedò, tentando di rimanere seria.
I due si alzarono e la salutarono, lasciando l’ufficio di Olimpia in fretta, ansiosi di rimanere da soli.
Le ore trascorsero veloci per Olimpia, finì di correggere le bozze dei cataloghi per le aste imminenti e dispose alcuni acquisti. Cercò di non pensare alla serata che l’attendeva, altrimenti avrebbe sentito l’ansia crescere in lei e le sarebbe stato quasi impossibile concentrarsi sul lavoro. Telefonò a Diana e invitò anche lei a vedere il video che Peggie le aveva lasciato.
Intorno alle sette e mezzo, Olimpia si ricordò di aver promesso a Margherita di raggiungerla nella hall per andare assieme verso casa. Le faceva uno strano effetto che la figlia di Davide potesse entrare nell’appartamento che il padre non aveva mai visto e nel quale avrebbe dovuto vivere.
«Capo, disturbo?». Sentì la voce di Isabelle e riaprì gli occhi. L’ufficio era avvolto nella penombra e il viso sorridente della sua segretaria faceva capolino dalla porta.
«Entra pure, Isabelle».
«Perché sei al buio? Non ti senti bene?», le chiese, preoccupata. Olimpia rise di cuore. Si era appena resa conto di quanto dovesse assomigliare a sua madre quando aveva l’emicrania.
«Sto benissimo. Dimmi pure».
«Volevo solo salutarti, sto andando a casa. Hai bisogno di qualcosa?».
Olimpia scosse la testa e la salutò. Isabelle aveva quasi raggiunto la porta quando la fermò: «Domani non ho grandi pratiche da sbrigare, vero?», le chiese.
Isabelle si girò verso di lei e si strinse nelle spalle: «Direi di no. Hai corretto i cataloghi, hai sistemato le pratiche per le vendite e non hai viaggi o interviste in programma».
«Perfetto. Da domani mi prendo qualche giorno di ferie», annunciò.
«No! Lo vedi che non stai bene?», rise Isabelle. «Tu che prendi le ferie? Vuoi che nevichi ad aprile?»
«Il meteo può anche fare le bizze, non m’interessa. Vado a Venezia, nel fine settimana». Nel momento in cui lo disse, Olimpia si rese conto di quanto avesse nostalgia della sua città. Le calli, i campi, le gondole. Il sestiere dov’era cresciuta era una famiglia allargata che ora le mancava come l’aria. La focaccia della signora Rita, proprietaria del bacaro in fondo alla calle in cui si trovava il suo palazzo, era una delizia di cui aveva quasi dimenticato il sapore. Quanto le piaceva, da bambina, fermarsi a mangiare con la sua tata in quella tipica osteria veneziana, con la vetrina dove erano esposti baccalà fritti, crostini e “cicheti” vari. Fino a quel momento aveva creduto di essere immune alla nostalgia per la Serenissima, ma ora le mancavano quell’odore di salsedine che arrivava nelle giornate in cui il mare era mosso, l’acqua alta in cui aveva sguazzato da bambina, correndo come una matta attraverso le calli allagate. «Sembri la figlia di un pescatore, non una Cattanei», la rimproverava e lei si rifugiava in camera sua a leggere. E infine la bottega di Anselmo che ora era stata chiusa. Da troppi anni non passava lungo quella calle; l’aveva evitata di proposito, credendo che le avrebbe fatto male rivedere il luogo dov’era stata così felice. Si sbagliava. Da lì era cominciato tutto, come aveva potuto pensare di cancellare quei ricordi con un colpo di spugna?
«Ti prenoto il volo?», le chiese Isabelle, riportandola alla realtà.
«Sì, grazie. Voglio tornare a casa mia».
Capitolo 5
La telecamera era fissa su una delle sedie di vimini che Peggie teneva nella veranda davanti al terrazzo. L’inquadratura era fissa e la sedia ancora vuota. Al di là dell’alta spalliera si intravedeva appena il cielo plumbeo di una Venezia fredda e piovosa. Si udì un fruscio e poi, per qualche istante, lo schermo divenne nero. L’inquadratura successiva riprendeva Peggie Goldenstein, elegantissima nel suo abito dal taglio sartoriale, gli occhiali da vista allungati e gli orecchini dalla foggia stravagante.
«Peggie…», mormorò Olimpia, commossa. Quanto aveva desiderato rivedere la sua amica, non le sembrava vero di averla lì dinnanzi a lei. Strinse la mano di Diana, che le era seduta accanto.
«Era già malata?», le chiese lei con la voce strozzata.
«Immagino di sì, ma guarda che classe, che donna forte e volitiva, la mia… la nostra Peggie».
Erano tutti seduti sul divano: Olimpia, Diana, Louis e Margherita fissavano lo schermo del televisore. Sembravano ipnotizzati. Peggie continuava a esercitare il fascino di sempre, anche dopo la sua morte. Olimpia soffriva ancora per quella perdita, non erano poche le volte in cui si ritrovava a domandarsi cos’avrebbe fatto l’amica al posto suo. Peggie aveva avuto un sesto senso per l’arte, per la bellezza e per tutto ciò che era proprio della natura umana. Non si lamentava quasi mai e se le capitava di star male si canzonava dandosi della vecchia. Eppure mai si era vista una donna tanto vitale e così piena di carisma. Non era solo la sua immensa ricchezza a renderla affascinante, anzi, forse era proprio la sua modestia a farne una donna meravigliosa. «C’è chi spende i soldi per pellicce, automobili e ville di lusso», soleva dirle, «io li spendo in dipinti, manoscritti e manufatti». Sottolineava spesso quanto le facesse ribrezzo anche solo l’idea che gli artisti si lasciassero “corrompere” dalla sua ricchezza, come qualche malalingua aveva incautamente insinuato. «Io compro la loro arte non la loro anima», ribatteva piccata. Erano tanti i detrattori della miliardaria americana, gente invidiosa della sua fortuna economica e non del suo talento di mecenate. Peggie, però, era al di sopra di tutto e di tutti, e non dava loro la soddisfazione di offenderla. E quella sua indifferenza li indispettiva ancora di più.
«Stiamo registrando?», la voce di Peggie che parlava con l’operatore video attraversò la barriera spaziotemporale e riecheggiò nell’appartamento di Olimpia.
«Sì, signora Goldenstein, può rivolgersi direttamente alla telecamera per parlare», rispose una voce maschile, dietro alla macchina da presa.
«Peggie», esclamò Olimpia in un sussurro. «Quanto mi sei mancata!». Immaginò di essere di nuovo a Venezia, sul terrazzo in cui s’intrattenevano a chiacchierare per ore. Le lacrime le scivolarono lungo le guance. Olimpia le asciugò rapidamente e fissò lo sguardo sullo schermo. Gli altri erano rimasti in silenzio, attenti a ogni singolo particolare di quella registrazione.
Peggie si sistemò meglio sulla sedia e aprì un foglio, per poi posarlo sulle sue ginocchia, rendendolo di fatto invisibile alle telecamere.
«Olimpia, my child, se stai guardando questo video io sarò morta e sepolta già da un bel po’». Rise, di quella risata cristallina e contagiosa che faceva innamorare chi la conosceva. Olimpia si ritrovò il braccio di Diana attorno alle spalle e si accorse che stava singhiozzando.
«Ti starai chiedendo come mai quella matta della tua amica abbia organizzato tutto questo», Peggie continuò a parlare. Era sorridente e trasmetteva allegria, nonostante la situazione tragica. Chi non la conosceva avrebbe detto che scoppiava di salute; Olimpia sapeva che non era così, non solo perché sarebbe morta di lì a qualche mese ma perché tutto era scritto fin troppo chiaramente nei suoi occhi cerchiati e nelle spalle appena ricurve.
«Bene, oggi è lunedì 3 dicembre 1979 e pare che ci sarà la luna piena», disse Peggie, alzando il viso verso il cielo. «Sto aspettando l’antiquario Calvani per affidargli un compito che non gli piacerà. Erano mesi che attendevo di parlargli, ma non mi decidevo mai. Poi la mia situazione clinica è peggiorata e così sono stata costretta a farlo a chiamare. Con lui arriverà anche il notaio Lazzarini, che ora tu non conosci ma che negli anni sarà il custode di ciò che ti sto per affidare».
«Ma di che sta parlando?». Olimpia sobbalzò e guardò Louis.
«Vuoi che interrompiamo?», le chiese, premendo il pulsante per mettere in pausa il video.
«No, no», si affrettò a dire Olimpia. «Proseguiamo».
«Tesoro», disse Diana, «se per te è troppo doloroso…».
«Non ci provate», intervenne brusca. «Sono grande e vaccinata ma soprattutto aspetto di conoscere la verità da anni. Louis, per favore, andiamo avanti».
Louis annuì e premette il pulsante play sul telecomando del lettore dvd.
«Ti spiego meglio». La voce di Peggie era ferma. Prese il foglietto dalle sue ginocchia, ne lesse rapidamente qualche riga e proseguì: «Tempo fa, nel gennaio di quest’anno per l’esattezza…», diede un’altra rapida occhiata ai suoi appunti. «All’asta contrassegnata con il numero 7579, ho acquistato alcuni documenti inediti, appartenuti a Veronica Franco, e un volume per la tua collezione di libri proibiti».
«Erano suoi… come ho fatto a non capirlo?». Olimpia non si era nemmeno accorta di aver pronunciato quelle parole ad alta voce. Si sentiva frastornata e incapace di credere a ciò che stava sentendo. Se non fosse stata la stessa Peggie a raccontarle come erano arrivati a lei i documenti della Franco, non ci avrebbe creduto. Capì in quello stesso istante perché la sua amica avesse voluto lasciarle un video e non una lettera. La conosceva meglio di chiunque altro, sapeva che sarebbe stata assalita dai dubbi e aveva deciso di spiegarle ogni cosa tramite un video.
«Ebbene, my child, ti starai chiedendo che senso abbia tutto questo», proseguì Peggie, facendo eco ai suoi pensieri. «Volevo che tu possedessi qualcosa di mio, oltre al ricordo dei nostri bellissimi pomeriggi passati a chiacchierare qui sulla mia terrazza. Ho lasciato tutto il mio patrimonio artistico alla fondazione che porta il mio nome, come ben sai, e il resto l’ho dato ai miei figli. Immagino che putiferio faranno quando scopriranno dei miei lasciti alla fondazione. Sono convinta che impugneranno il testamento…».
«Infatti, sono andati dal notaio il giorno stesso del suo funerale», commentò Olimpia a denti stretti. Ricordava benissimo quell’episodio increscioso. Il notaio di famiglia non era Lazzarini, ma forse non era un caso. Evidentemente Peggie aveva voluto che si occupasse del lascito un altro studio notarile.
«Non so se riusciranno a spuntarla ma so che non voglio includerti nel mio testamento ufficiale perché potrebbe essere contestato e potrebbero toglierti ciò che deve essere tuo».
Peggie fece una pausa e bevve un sorso d’acqua. Posò il bicchiere oltre la telecamera e andò avanti: «Ero venuta a conoscenza dei documenti inediti di Veronica Franco attraverso un mio amico che li aveva come proprietà di famiglia, diceva di essere il discendente diretto della poetessa. Non fidandomi granché di lui, che me li voleva vendere sottobanco, gli dissi che non li avrei comprati senza una perizia seria e senza l’intermediazione di una casa d’aste di chiara fama. Per tutta risposta mi disse che sarebbe andato a Milano e li avrebbe fatti stimare da Christie’s. Era piccato perché aveva sperato di guadagnare senza sforzo. Li ha valutati il professor De Majo, che tu sicuramente conoscerai, Olimpia, perché è il più grande studioso del Rinascimento italiano. Una copia della perizia che ne ha fatto è oggi dal notaio Lazzarini ed è a tua disposizione, così come tutta la documentazione relativa al mio acquisto e al comodato d’uso che firmerò in favore dell’antiquario Anselmo Calvani».
«Che c’entra zio Anselmo?», chiese Margherita, perplessa. «Non ci sto capendo più nulla».
«Una volta in possesso dei documenti, che arriveranno domani da Milano, dovrò affidarli a qualcuno che te li invii man mano. Ho pensato a lungo a chi potermi affidare e, dopo aver scartato i tuoi genitori, ho deciso di tentare la sorte e di chiamare il tuo amico Anselmo, di cui mi hai sempre parlato così bene. Ho io stessa chiesto notizie in giro riguardo a lui; mi è parso una persona seria e affidabile. Non poteva essere altrimenti, se tu gli vuoi così bene. Hai il dono, my child, di sondare l’animo delle persone… ma ancora non lo sai, sei piccola e non hai abbastanza esperienza della vita. Quando vedrai questo video, credo, capirai di cosa parlo. Dicevo? Ah sì, il notaio Lazzarini sarà il mio intermediario e si preoccuperà che tutto si svolga per il meglio e tu abbia ciò che ti spetta».
«Dove sono ora, quelle carte?», domandò Diana.
«Nel caveau di una banca parigina», rispose Louis, facendole poi cenno di tacere, perché Peggie stava ancora parlando.
«Anselmo ti invierà i documenti della Franco, assieme a un libro proibito per la tua collezione. Andrà avanti per un bel po’ di anni questa storia e tu forse ti irriterai non sapendo da chi proviene un simile tesoro».
«Mi hai fatto penare per anni», sorrise Olimpia, scuotendo il capo.
«Sai quanto mi piace sorprendere le persone che amo e quindi non voglio farti entrare in possesso dei documenti tutti insieme: deve essere una scoperta, devi avere il tempo di innamorarti di lei, di Veronica Franco, una delle donne più straordinarie che io abbia mai incontrato durante le mie ricerche artistiche e letterarie», ammise con un sorriso. «A quest’ora sarai sposata, forse avrai dei figli… anche se non credo, non sei il tipo… comunque spero che la tua vita sia felice. Fa’ ciò che vuoi della mia eredità. Ti ho voluto bene come a una figlia, forse di più».
Lo schermo si oscurò.